Gli influencer della disabilità: fra ego e sensibilizzazione
La psicologa Rosella Mercuri: "Un tentativo, che non va giudicato, di trovare uno spazio alternativo, all'interno del quale parlare di sé, confrontandosi con gli altri, anche se questi altri rimangono solo followers"
La narrazione della disabilità sui social media ha assunto negli ultimi anni caratteristiche e modalità espressive che hanno molto a che fare con il linguaggio specificamente digital. Su Instagram, Facebook e TikTok spopolano i profili di genitori e famiglie alle prese con la complessità quotidiana che la disabilità di un figlio, o una figlia, comporta. Si tratta di account seguiti da centinaia di migliaia di followers, che raccontano, aggiornano, ironizzano e approfondiscono, fra un reel e un post, progressi, vicissitudini, necessità mediche, miglioramenti, regressioni, qualche volta anche ricoveri e fasi delicate delle terapie.
L’approccio è, per così dire, leggero, assolutamente lontano dal pietismo e il perno fondamentale di questi profili ruota intorno alla sensibilizzazione, alla normalizzazione di vite che affrontano un percorso lastricato di incognite, difficoltà economiche (perché si sa, la salute ha un costo preciso: alto) e incertezze relative al “dopo di noi”. Ogni famiglia è diversa, ogni caregiver si trova a fare i conti con i propri fantasmi, ma cosa spinge un genitore a trasformarsi – volontariamente o involontariamente – in un influencer della disabilità, plasmando l’identità digitale del minore? Pronto a raccontare il proprio figlio, trasformandosi addirittura nella sua prima persona singolare.
L’espressione a primo acchito potrebbe sembrare ardita e fraintendibile perché, se è vero che ogni account è solo una parte dell’universo di una dinamica familiare ampia, quella stessa parte che vive online diventa reality, intrattenimento, spesso sponsorizzazione e vendita di prodotti. Che cosa raccontano davvero questi genitori che decidono di esporre ed esporsi? Un account sui social media può trasformarsi in una sorta di riscatto sociale nei confronti del proprio ego o di una speranza o di un’aspettativa che la disabilità ha messo fatalmente alla prova?
Ne abbiamo parlato con la Dott.ssa Rosella Mercuri, psicologa che dal 2004 segue sul territorio provinciale famiglie e persone con disabilità e la cui lunga esperienza pone l’accento su un aspetto fondamentale: “Quando si parla di disabilità, si va incontro a un argomento vastissimo e delicato, ma quello che ho scoperto avvicinandomi alle famiglie è la straordinaria forza e la resilienza di questi nuclei, investiti da uno tsunami che ha diverse origini, spesso inaspettate, e diverse forme: dalla disabilità motoria a quella psichica, passando per le malattie genetiche rare o qualcosa andato storto in sala parto: ma per quel che riguarda l’esposizione del proprio figlio le reazione sono sempre diverse.
Negli anni passati, ad esempio, la realizzazione di calendari da parte di associazioni volte alla raccolta di fondi o semplicemente per sensibilizzare documentando determinate attività di gruppo, delineavano nei caregiver reazioni differenti, c’era (e c’è) chi preferisce non vedere esposte o fotografate le fragilità del figlio e chi abbraccia invece queste iniziative, tutte volte a porre il focus sulle risorse anziché sul limite, quindi l’esposizione, in una forma simile, c’era anche nel passato, prima dei social…” spiega la psicologa.
Dott.ssa Rosella Mercuri
Strumenti alternativi
I social media tuttavia sono strumenti che hanno a che fare con la spendibilità immediata di un fatto, di un racconto, di una gag, di un dolore e quindi permettono al loro pubblico una finestra sempre aperta e aggiornata sul mondo che hanno deciso di raccontare e che spesso mescolano tematiche molto diverse fra loro, comprese sponsorizzazioni commerciali, grazie al seguito ottenuto, quasi fosse un riscatto morale, l’essere finalmente riconosciuti e non più esclusi.
Secondo Mercuri tutto questo può ricollegarsi a una personale e creativa elaborazione del lutto: “La nascita di un figlio disabile immerge in una dimensione di lutto, che va elaborato: in qualche modo muore il bambino ideale e insieme a lui tanti progetti e desideri che il genitore non vedrà realizzarsi, o comunque solo in parte. In questo percorso di elaborazione una madre e un padre possono collocarsi in due dimensioni: una centrata sui bisogni del figlio e dunque sulla creazione di un ambiente domestico completamente in sintonia con i suoi bisogni, oppure una dimensione centrata sul nucleo familiare, orientata verso il benessere generale di ogni membro, per tenere insieme ogni pezzo di questo difficile percorso. Ma va sottolineato che esiste anche una dimensione ‘incerta’, quella dove si sperimenta di tutto pur di trovare la serenità e la pace, specie se le famiglie non hanno mai ricevuto o elaborato una vera risposta al ‘perché’ è successo. Ecco allora il tentativo di trovare uno spazio alternativo, anche online, all’interno del quale parlare di sé, confrontandosi con gli altri, anche se questi altri rimangono solo followers ed estranei, mostrando aspetti anche intimi e delicati. Nessuno va giudicato in queste scelte, non c’è giusto o sbagliato: perché ogni famiglia è diversa e unica, così come diverse sono le modalità di espressione di ogni vissuto umano”.
Ma c’è un’altra riflessione che sorge spontanea quando ci affacciamo nell’universo di quei genitori che diventano ‘influencer’ della quotidianità di un disabile: il loro pubblico, che è vasto e frastagliato. Una parte di questi followers sono a loro volta cargiver alle prese con le difficoltà quotidiane legate alla gestione e all’organizzazione domestica, fra logopedia, terapie e scuola a domicilio, un’altra parte invece è formata da persone che non hanno un’esperienza di vita similare, che non conoscono da vicino l’universo della disabilità, ma che restano lì a guardare e spesso a giudicare, queste vite online, fra curiosità morbosa e sensibilizzazione:“In qualche misura, è come se queste persone, di fronte a certe immagini, riuscissero a cogliere e comprendere la straordinaria importanza della salute, di avere avuto figli sani e sereni; in una dimensione che, per esperienza, ho visto somigliare alla spiritualità: ci sono persone che fanno generose donazioni a enti e associazioni quasi come se fossero un voto, come a dire ‘questo mi proteggerà’, ‘non è successo a me, ma sto dando il mio aiuto’. Da questo punto di vista nessuno si stacca mai dal proprio ego, ma non è necessariamente un male: nei momenti difficili può essere la nostra forza, la nostra risorsa creativa”, riflette la psicologa.
Quando si parla di disabilità non si può, infine, non fare riferimento alle risorse, sia sociali che economiche, messe in campo dallo Stato e più generale dalle Asl del singolo territorio. Ad oggi il quadro che ne emerge è un quadro depauperato, all’interno del quale i servizi e i sostegni sono carenti e spesso a carico di famiglie già schiacciate da una pressione economica insostenibile: “Le spese che una famiglia deve affrontare sono tantissime. I tagli che sono stati fatti in questi anni stanno mettendo a dura prova i genitori che spesso, per carenze burocratiche e mancanza di fondi, devono provvedere di tasca propria a terapie, strumenti e sostegni relativi alla salute del figlio disabile o malato. Questo è un tema fondamentale e se gli account social di questi caregiver riescono a sensibilizzare, informare e diffondere certe controversie ben vengano, perché la conoscenza e la comunicazione possono essere uno strumento in più per migliorare la condizione di tantissime persone fragili” conclude con grande speranza la Dott.ssa Mercuri.