Politica locale negli anni Settanta a Valenza
L'approfondimento del professor Maggiora
VALENZA – Valenza, all’alba incerta degli anni Settanta, rispecchiava in maniera vivida e palpabile le turbolenze che agitavano l’intero Paese. L’agone della politica con la sua natura effimera era un crogiolo effervescente, un calderone in cui ribollivano, sotto la pressione incessante della contestazione studentesca e la rinnovata energia delle lotte operaie, una miriade di ideologie e orientamenti politici, prima del crollo del modello comunista e delle conversioni europeiste.
Pur in un decennio, localmente privo di contraccolpi elettorali, il fermento era tangibile, quasi lo si poteva respirare nell’aria densa di speranze e disillusioni. Si fronteggiavano, in un balletto caotico e appassionato, le forze del centro sinistra, improntate al riformismo cauto e gradualista; la sinistra istituzionale, saldamente al governo della città, auto-proclamatasi depositaria della moralità e del progresso (una sorta di aristocrazia ideologica che, non ancora convertitasi all’europeismo, con fare saccente, si ergeva a giudice supremo del giusto, venerando Pasolini e denigrando D’Annunzio, spesso senza averne mai approfondita l’opera); una sinistra rivoluzionaria del pueblo unido, qui da noi a parole, incarnata da una sparuta ma agguerrita pattuglia di individui irrequieti, fedeli alle dottrine dei gruppuscoli extraparlamentari, sognatori di una palingenesi sociale radicale.
Nella borghesia non mancava, naturalmente, una piccola corrente nostalgica, fautrice di un ritorno all’ordine, incline alla chiacchiera e alla retorica ampollosa, aggrappata a valori ritenuti inviolabili; e, come isole galleggianti in un mare di tensioni ideologiche, si annidavano certi gruppi snob della sinistra, microcosmi in cui si consumava un vaniloquio prezioso e fine a sé stesso, una lingua aulica incomprensibile al popolo, una sorta di casta separata dalla realtà quotidiana della gente comune. Ognuno, arroccato nelle proprie convinzioni, si sentiva depositario della verità assoluta e, paradossalmente, vittima di incomprensioni e ingiustizie.
L’espansione del potere politico locale, durante questi anni assumeva proporzioni gargantuesche. Il moltiplicarsi dei «rifugium peccatorum», come venivano sarcasticamente definiti, dai meandri del Comune alle tentacolari municipalizzate, dai Consigli di frazione al Comprensorio, dagli organismi scolastici all’USL, fino all’Associazione orafa e alle innumerevoli commissioni, consorzi e cooperative, contribuiva a saturare ogni singolo interstizio della società valenzana.
Si assisteva a una pervasiva commistione d’incarichi, spesso affidati a personaggi politici multiuso o presunti tali, che possedevano evidentemente il propizio dono dell’ubiquità. Erano apertamente scelti per fedeltà al partito con qualche baciamano degno di un vassallo, non certo per la competenza (molti non si erano mai occupati della materia che dovevano trattare, ma non era importante, le strade della politica sono sempre state infinite).
In alcuni anni di questo decennio, i bilanci del Comune sfioravano disavanzi di due miliardi di lire, con debiti attorno agli otto miliardi. Il patrimonio comunale dei beni ammontava a oltre dieci miliardi di lire e, siccome l’insieme delle spese era pari al disavanzo, era sempre più difficoltoso pagare gli stipendi ai dipendenti comunali.
La nascita e l’espansione delle Regioni, presentate come un’evoluzione necessaria, rischiavano di rivelarsi un’illusione, un’aggiunta problematica piuttosto che una vera soluzione. La Regione, lungi dal sostituire lo Stato – un’aspirazione rimasta, forse, allo stadio di un vago participio passato – non si liberava affatto dal giogo della burocrazia statale. Anzi, questa nuova entità si sovrapponeva all’apparato esistente, incrementandone il peso e la complessità. Il tanto decantato alleggerimento della macchina amministrativa si trasformava in una voragine di sprechi e debiti, una zavorra che frenava lo sviluppo e prosciugava le risorse.
A Valenza, emblema della realtà sindacale locale del periodo, la figura carismatica, colui che raccoglieva e incarnava il malcontento popolare di lavoratori – un tribuno della plebe, seppur in senso lato e forse un po’ enfaticamente – era il segretario della CDL, Tullio Minguzzi. La sua voce vetero-marxista si alzava a difesa delle classi disagiate, ma era una voce che spesso risuonava in un contesto scarso di anticapitalismo, sfilato con la più misericordiosa delle panzane: «il sindacato non aderisce a manifestazioni di partito». L’egemonia della sinistra, un fenomeno palpabile e onnipresente in questi anni, aveva raggiunto proporzioni inaudite, senza incontrare resistenze significative. Nella provincia alessandrina, questa egemonia giocava il ruolo di asso pigliatutto, monopolizzando il dibattito e orientando l’opinione pubblica. Le assunzioni, gli incarichi strategici, gli organi di gestione, persino i premi assegnati, sembravano riflettere una mentalità antiquata, quasi «Staliniana» – un’iperbole, certo, ma che vuole evidenziare un sistema clientelare e autoreferenziale. Dietro ogni predominio, fosse politico o culturale, si celava spesso una resa, un’accettazione passiva frutto dell’ignoranza o della viltà degli avversari. E a Valenza, in questo periodo, non mancavano episodi che testimoniavano anche una certa ambiguità ideologica. Diversi fan locali della sinistra, più o meno estrema, sfilavano in corteo contro i missili americani, ma non contro quelli con la stella rossa.
Il panorama politico e sociale valenzano, come un affresco complesso, presentava un particolare fascino negli anni in cui il comunismo esercitava ancora una notevole influenza. I militanti, spesso descritti con algida coerenza e di bocca buona, si auto-percepivano come detentori di una eticità superiore, convinti della nobiltà dei loro fini. Questa convinzione, radicata in un’ideologia che prometteva giustizia sociale e uguaglianza, li portava a considerare le azioni degli avversari politici come motivate esclusivamente dalla brama di potere e dalla cupidigia di ricchezze. C’era una netta divisione tra il «noi» virtuoso e il «loro» corrotto, una polarizzazione che alimentava la fervente dedizione dei seguaci. Tuttavia, la domanda cruciale rimaneva: quale fosse la vera forza attrattiva che il comunismo, declinato come dogma politico, esercitava su una porzione significativa della popolazione valenzana, soprattutto alla luce delle realtà spesso brutali e autoritarie del comunismo «realizzato» in Unione Sovietica, Cina, Cambogia e in diversi paesi dell’Europa orientale. Le notizie di repressione, carestie e violazioni dei diritti umani filtravano anche a Valenza, creando una dissonanza cognitiva per non pochi sostenitori. Eppure, l’ideale, depurato dalle sue applicazioni più distopiche, continuava a risuonare.
Il tornante delle elezioni comunali del 1972 segnò un momento di trasformazione per il Partito Comunista locale. L’assorbimento degli elementi provenienti dal Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria accelerò un processo di rinnovamento della nomenclatura, portando alla ribalta una nuova generazione di leader. Questi giovani, sebbene educati nel rigore del centralismo democratico, si distaccavano dalle rigide idolatrie del passato. Mostravano una maggiore apertura e una più spiccata sensibilità verso le istanze del movimento studentesco e operaio, desiderosi di colmare il divario tra il partito e le realtà sociali in fermento. Si aprì, inoltre, una nuova fase di interazione, seppur cauta, con le altre forze politiche presenti sul territorio. Si delineò così un approccio più pragmatico, un cosiddetto riformismo che mirava a rendere il partito più permeabile alle esigenze della società civile. Il Partito Comunista di Valenza divenne un luogo di dibattito interno vivace, animato da giovani scaltri e avveduti spesso provenienti da esperienze di militanza estremista, talvolta persino nichilista. Ma, pur nelle sue esagerazioni intellettualistico/politiche, la cosa aveva una sua moralità.
Questi individui, pur avendo abbandonato in parte il fervore ideologico della giovinezza, portavano con sé un’esperienza di impegno politico e sociale che contribuì a plasmare una nuova pratica. La FGCI locale aveva quasi un centinaio di iscritti e il PCI quasi un migliaio. Nel 1973 gli iscritti comunisti nella sezione Valentia erano 655 e nella sezione Emanuelli 230.
Anche a Valenza, l’aria di cambiamento politico soffiava, ma non spazzava via tutto. Il tentativo di rinnovamento all’interno del Partito Comunista Italiano locale si rivelava anche un processo selettivo, di volti noti per la loro coerenza nel tempo, escludendo figure familiari al panorama politico nostrano ma ormai prive di quell’energia propulsiva e della forza innovativa necessaria per navigare nelle nuove correnti.
L’organizzazione interna, però, mostrava una certa resistenza al cambiamento; il PCI valenzano, infatti, non si poteva ridurre a un mero museo di reliquie staliniste, ma era altrettanto lontano dall’essere quel partito «liquido ad organizzazione orizzontale», agile e flessibile, che le nuove teorie politiche auspicavano.
Una buona parte del ceto medio valenzano era vicina alla sinistra, pur conservando valori e mentalità piccolo borghesi. In questo periodo molti imprenditori comunisti di casa nostra convivevano con l’ingombrante paradosso di poter essere comunisti e ispirarsi con certi principi teorici all’ideologia marxiana e alle sue derive collettiviste leniniste o maoiste, ammettendo al tempo stesso le azioni della società capital-borghese da loro tanto disprezzata e criticando pure l’occidente che li ha resi facoltosi. Per molti di loro il comunismo di rosso primitivo pareva tutt’al più una fallita utopia romantica.
Il Piccolo – 2 Dicembre 1972
In Comune la transizione stentava a compiersi. Il comando era saldamente nelle mani di un’individualità forte e marcata: il sindaco Luciano Lenti. Successore di se stesso, accentratore per vocazione, lo sceicco espiatorio di Palazzo Pellizzari continuava a dirigere il governo cittadino con piglio decisionista, orientando le politiche secondo la propria visione e interpretando in modo peculiare le necessità locali. La sua capacità di intercettare e manipolare il consenso era proverbiale. Non sorprende, quindi, che un ampio ventaglio di figure politiche gravitasse intorno a lui, schierandosi al suo fianco in un ruolo di ausiliari, mossi dalla tacita speranza di riflettersi nel suo successo e di godere, a loro volta, di quel bagliore che promanava dalla sua figura dominante nel firmamento politico locale.
Di lui si racconta di vittorie e di sconfitte, di scelte azzeccate e di errori di valutazione. Ma a Lenti va riconosciuto un merito indiscutibile: una dedizione incondizionata alla città, una disponibilità a mettersi in gioco ogni volta che Valenza si trovava ad affrontare momenti di difficoltà o ad inseguire opportunità di crescita. Non si è mai sottratto al proprio dovere, incarnando, nel bene e nel male, la figura del leader.
Il Piccolo – 27 Gennaio 1973
Ben più problematico, invece, era il quadro che si presentava all’interno del Partito Socialista Italiano valenzano, tutt’altro che compatto. Profondamente indebolito e lacerato dalle correnti interne, il PSI locale sembrava aver fatto del caos e della divisione la propria bandiera. I socialisti, con una quasi macabra maestria, sembravano capaci di incorporare al loro interno una varietà di anime, spesso animate da istanze conflittuali, per poi deluderle sistematicamente tutte.
Mentre a livello nazionale il partito viveva una fase di relativo successo, propiziata dalla figura carismatica del suo capo, a Valenza, lo scenario politico locale era tutt’altro che idilliaco. Aveva circa 150 valenzani iscritti che, pur mostrando una facciata di convivenza, erano quasi indifferenti a ogni antica sintonia. Tra i principali esponenti e qualche colonello con gli alamari e la voglia di farsi desiderare c’erano: Canepari, Cantamessa, Lottici, Mancino, Negri, Pittatore, Rossi, Siligardi, Spriano e altri.
Il Partito Comunista Italiano e il Partito Socialista Italiano, pur non condividendo un’armonia perfetta, si sforzavano di mantenere localmente un equilibrio precario (fino ad allora l’elisir di lunga vita), aggravando i dissidi esistenti, consapevoli della necessità di una collaborazione, seppur solo pragmatica. A fine decennio il vincolo esterno funzionava ancora, ma per poco, la divisione non era più un sogno proibito per il PSI.
Il partito che stava attraversando una profonda fase di trasformazione interna era la Democrazia Cristiana. Questo processo di ridefinizione, già in atto, veniva accelerato da un’opposizione prolungata al «fronte popolare» cittadino. Un’opposizione, peraltro, che si presentava confusa, incoerente e priva di credibilità. Agli occhi dell’elettorato, la DC appariva sempre meno come un’alternativa valida e promettente per il futuro, e di conseguenza, la sua influenza nel vigente si era notevolmente affievolita.
A complicare ulteriormente la situazione, alcune organizzazioni collaterali, storicamente legate alla DC, stavano acquisendo una crescente autonomia. Le Acli, la Cisl e l’Azione Cattolica, considerati i credenti stupidi dagli atei intelligenti, iniziavano a perseguire prospettive più sfumate, incentrate su concetti di spiritualità, democrazia, diritti naturali ed ecologia, allontanandosi gradualmente dalle rigide direttive del partito. Parallelamente, anche le parrocchie, un tempo pilastro fondamentale del consenso elettorale democristiano, non garantivano più lo stesso appeal di un tempo, erodendo ulteriormente la base di sostegno della DC. Non si trattava più del partito onnicomprensivo di un tempo, in cui trovavano spazio e sintesi personaggi disparati, talvolta in aperto contrasto tra loro, e spesso considerato uno strumento per l’ottenimento di posizioni di potere.
La DC valenzana era diventata un mosaico di tendenze diverse, tenute insieme principalmente dall’anticomunismo, un collante che però sembrava perdere sempre più efficacia. Dietro sorrisi di facciata, si celava un palpabile timore per le future mosse degli avversari politici. I dirigenti democristiani locali faticavano a confrontarsi con la logica e con la realtà dei fatti, dimostrando una crescente difficoltà nel comprendere e affrontare le nuove dinamiche politiche che si stavano delineando anche a Valenza. La sensazione era quella di un partito in declino, incapace di rinnovarsi e di rispondere efficacemente alle sfide nuove sfide.
Da alcuni anni la segreteria era condotta dalla componente di sinistra del partito, con poche differenziazioni; basisti e affini quali Genovese, Manenti, Patrucco, Manfredi avevano una retroattività di democristiani ostinatamente fedeli che risaliva all’adolescenza. La road map locale era invece gremita di tutto: prospettive rosee e scenari funesti, rigore morale e slancio modernista. Anche se il casting aggiungeva di continuo qualche nuovo interprete onde rigenerarsi, i quali non erano più rappresentanti di oratorio con l’accento da seminario.
Alle comunali del 1978, il partito, che nella campagna elettorale era stato accusato di non aver svolto negli ultimi anni il suo ruolo d’opposizione quasi inseguendo e corteggiando i comunisti, otteneva un imprevisto buon risultato (31% e 10 seggi). Aveva messo in lista alcuni giovanissimi (Berto, Cautela, Grassi, Vanin), il presidente diocesano dell’AC Ermanno Amisano e tutti i consiglieri uscenti, offrendo un’opposizione costruttiva e non preconcetta, tendente alla mediazione e al compromesso (metodo doroteo). Sarà poi l’andamento politico nazionale a riaccendere gli ardori sulfurei dei disubbidienti all’establishment, l’effetto scuoterà molti elettori.
Gli impotenti partiti minori (PSDI, PLI, MSI), che avevano una scarsa o effimera competitività, negli ultimi anni perdevano la loro rappresentanza in Consiglio comunale, mentre, con una svincolata ed estroversa manifestazione del pensiero e qualche invettiva pungente, nel 1972 nasceva, in mezzo al guado, il gruppo locale del PRI di postura centrista fondato sulla speranza, condotto da Stefano Verità, asse portante autoproclamato guida superiore. In questi anni ’70 tutti i partiti minori dai tanti volti, smarrita l’antica forza, hanno pattinato un po’ troppo spesso, astenendosi più volte: esempio di cerchiobottismo e di irrilevanza.
Sintesi patetica sempre in auge, anche allora: si continuava a dire una cosa per farne intendere un’altra con obiettivi irrealizzabili, gettandosi sovente oltre l’ostacolo e oltre il bizzarro.