I pionieri orafi di Valenza
L'approfondimento del professor Maggiora
VALENZA – La storia dell’oreficeria valenzana, con la sua scintillante ascesa e la sua duratura eredità, somiglia in modo sorprendente a una favola del Far-West, a un racconto epico di cercatori d’oro animati da un’inestinguibile sete di ricchezza e di realizzazione. Tuttavia, a differenza delle polverose e aride terre dell’Ovest americano, l’oro di Valenza non giaceva nascosto nel ventre della terra, in attesa di essere scoperto con picconi e zappe. L’oro valenzano, più prezioso e duraturo, risiedeva invece nel cuore pulsante e nell’ingegno creativo degli uomini e delle donne di questa terra. Non affiorava spontaneamente alla superficie, come le pepite scintillanti promesse ai pionieri americani; era il risultato tangibile del prodigio della fatica umana, della perseveranza instancabile e di una fantasia fertile e vibrante, capace di trasformare la materia grezza in opere d’arte d’inestimabile valore.
Questa miniera d’oro immateriale ha reso e continua a rendere Valenza nota in tutto il mondo, arricchendo non solo le casse, ma anche il patrimonio culturale e artistico di questa piccola città incastonata tra i dolci colli monferrini e affacciata sulla fertile e generosa pianura del Po. Valenza ebbe i suoi pionieri, quegli uomini coraggiosi e visionari, da convinzione o da portafoglio, che meritatamente si sono guadagnati un posto d’onore nella storia locale e che meritano, oggi più che mai, un ricordo vivo e la nostra profonda riconoscenza.
Il primario di questi pionieri, l’uomo che accese la scintilla e diede il via a questa straordinaria avventura orafa, fu Vincenzo Morosetti (1813-1887). Sembra che la famiglia Morosetti sia arrivata a Valenza nel Seicento, dopo essere stata ad Alessandria; possedeva terre a Pecetto e in sorte Astigliano. Vincenzo sarà, però, quasi il terzo padre dell’oreficeria valenzana, la cui storia inizia nel 1817, quando, dal pavese, giunse a Valenza Francesco Caramora. Questo, in società con lo zio Luigi, a Voghera gestiva un negozio per il commercio di oggetti preziosi, ma poi si trasferì a Valenza, dove aprì la sua bottega nella Contrada Maestra. Caramora nel 1827 cessò di vivere e tutto il materiale della bottega fu rilevato dall’ormai provetto dipendente Pietro Canti, che diventò così il secondo produttore orafo locale.
Nel laboratorio di Canti lavoravano quattro praticanti e, tra questi, sembra ci fosse il giovane Vincenzo Morosetti, che più tardi andò in America, ma non certo per affermarsi nel mestiere – per questo si andava a Parigi – né per necessità economiche che lo costringessero a emigrare. Lì Morosetti incontrò una realtà economica imprenditoriale diversa e più moderna di quella conosciuta nella natia Valenza, che, al ritorno in patria, gli servì per organizzare l’attività orafa in modo diverso.
Tornato a casa, da cui non si era mai veramente allontanato, fu lui a depositare all’Ufficio Marchi in Alessandria, nel 1838, il punzone che riportava le sue iniziali, “M.V.”, con al centro il cuore di Gesù. Prima con una propria azienda e poi, nel 1849, con la Fratelli Morosetti (Vincenzo e Maurizio), avviò una produzione di un certo pregio, servendosi di tecniche più raffinate e di una nuova organizzazione del lavoro capaci di migliorare concretamente la produzione orafa valenzana.
Morosetti ubbidì, senza dubbio, a una vocazione profonda, irresistibile e poco elitaria, un richiamo interiore che lo spinse a diventare non solo un abile artigiano, capace di plasmare l’oro in forme meravigliose, ma anche un maestro ispiratore, desideroso di trasmettere il suo sapere e la sua passione alle generazioni future. Fu proprio alla sua scuola, nel suo piccolo e modesto laboratorio, che si formò il primo gruppo di «pionieri» valenzani, una schiera di tenaci lavoratori, spesso provenienti dalle campagne circostanti, desiderosi di migliorare la propria condizione e attratti dalla promessa di una migliore fortuna, che l’oro offriva a tutti coloro che si seducevano. Nel cuore di un’epoca fervente di creatività e di trasformazioni, fioriva un’arte orafa capace di trasfigurare i doni della natura in armonie scintillanti e vibranti di vita. Queste creazioni, forgiate con maestria e passione, elevavano la materia grezza a vette inesplorate di bellezza.
Nel 1850 i laboratori accreditati di oreficeria presenti a Valenza erano tre: Giuseppe Conti, Carlo Merlo e Morosetti. Una statistica di qualche anno prima registrava già la presenza di due orologiai, due orefici e due venditori di oggetti d’oro. Prima del 1849 avevano depositato il proprio punzone, con l’intenzione di svolgere la professione, i seguenti orafi: Francesco Caramora, Pietro Canti, Pietro Conti, Morosetti, Pietro Reggio, Attilio Battaglieri, Giovanni e Francesco Porta.
Dalla scuola di Morosetti, un vero e proprio vivaio di eccellenze, emerse successivamente Vincenzo Melchiorre ( 1845-1925), una figura chiave, un pioniere che si può considerare il vero fondatore dell’industria orafa locale. Il suo compito non era certo facile: trasformare un’arte prevalentemente individuale, o al massimo artigianale, in una forma produttivistica, dotata di caratteristiche industriali, con una complessa organizzazione del lavoro e una produzione su larga scala. Un’impresa ardua, che richiedeva visione, determinazione e una profonda conoscenza del settore. Melchiorre riuscì in questa trasformazione egregiamente, con un’abilità sorprendente. Tuttavia, e questo fu il suo merito più grande, egli seppe preservare il fondamento artistico della creazione orafa, l’anima stessa che la rendeva unica e preziosa, testimonianza di un’abilità e di un gusto in un sistema economico locale nuovo strutturato su due direttrici: da un versante, la collaborazione; dall’altro, la competizione.
Melchiorre nacque a Valenza, nel 1845, un periodo storico vibrante che avrebbe plasmato profondamente la sua esistenza. La sua vita si snodò parallelamente alle tumultuose vicende del Risorgimento, assistendo e partecipando, nel suo piccolo, alla lotta per l’unificazione italiana e, al contempo, all’avvio dello sviluppo economico che avrebbe trasformato il volto del paese. Chi lo conobbe lo descriveva come uno spirito irrequieto, un animo costantemente alla ricerca di qualcosa di più, un artista appassionato e infaticabile. La sua passione per l’arte orafa era quasi febbrile, alimentata da un’insaziabile sete di perfezione. Non si accontentava mai del risultato raggiunto, spingendosi sempre oltre i propri limiti, alla ricerca del dettaglio che avrebbe fatto la differenza.
Ma Melchiorre non era solo un sognatore. La sua mente era acuta, chiara e profondamente organizzata. Possedeva una rara capacità di coniugare l’estro creativo con una precisa visione d’insieme, una dote che gli permise di affrontare anche le commissioni più complesse con metodo e determinazione. Già in giovanissima età, a soli 14 anni, comprese che l’insegnamento ricevuto nella scuola del Morosetti, pur valido, non era sufficiente a soddisfare la sua ambizione. La sua sete di conoscenza era insaziabile e lo spinse a compiere una scelta audace: trasferirsi a Torino, all’epoca una delle capitali culturali e industriali del Regno di Sardegna.
A Torino, Melchiorre sperava di allargare i propri orizzonti e di ricevere un insegnamento più completo e avvincente. La città, in fermento culturale e politico, gli offrì un ambiente ricco di opportunità e di stimoli. Qui, ebbe la possibilità di conoscere gli splendori delle grandi realizzazioni orafe, ammirando le opere dei maestri e affinando le proprie tecniche. Rapidamente si distinse per il suo talento e la sua abilità, guadagnandosi la stima dei colleghi e dei committenti. Nel 1868, a soli ventitré anni, Melchiorre era già un artefice provetto e apprezzato. La sua reputazione era tale che fu scelto per partecipare alla creazione di un’opera di straordinaria importanza: il dono della città di Torino per le nozze del principe Umberto di Savoia con Margherita. L’opera, commissionata alla ditta Twerembold, consisteva in un prezioso cofano di ben 14 chilogrammi d’oro fino, tempestato di lapislazzuli e di gioielli. Melchiorre si dedicò anima e corpo.
Le coppe create, veri e propri capolavori, rimasero impresse nella storia internazionale dell’oreficeria, testimonianza di un’abilità senza pari. Nel cuore dell’artista, un cuore intriso di spirito italiano e valenzano, fioriva un sentimento profondo per un’eletta gentildonna, Angelina Rolandi, nipote del rinomato Bertuzzi, sposata poi nel 1875.
In questo periodo, fu testimone silente di vicende storiche memorabili, eventi che osservò con distacco, ma che ne arricchirono l’esperienza e l’ispirazione artistica. I rovesci subiti dalla Francia durante il Secondo Impero, nel lontano 1870, lo spinsero a fare ritorno alla sua amata patria. Trovò inizialmente rifugio a Firenze, culla del Rinascimento, per poi spostarsi a Roma, le due capitali della neonata Italia unificata, scrigni inestimabili dei tesori più fulgidi della sua storia millenaria.
Quasi riusciamo a immaginarlo, intento a passeggiare davanti alle botteghe artigiane che affollano il Ponte Vecchio, lo sguardo rapito dai gioielli in filigrana, dai monili classici che sembrano brillare persino nei dipinti dei maestri, ad adornare il collo delle dame eleganti o intrecciati tra i capelli delle splendide donne fiorentine, incorniciando le loro fronti ampie e luminose. E sicuramente, a Roma, cercò instancabilmente, nei musei imponenti, nelle chiese secolari, nelle gallerie vaticane ricche di arte e storia, gli ornamenti profani e sacri, realizzati con gioielli di una bellezza stupefacente, creati per celebrare la gloria dei sovrani e l’autorità dei Pontefici, o per esprimere la profonda devozione verso le immagini miracolose delle Madonne e dei Santi.
Eppure, nonostante le meraviglie ammirate e le esperienze accumulate, sentì prepotente il richiamo del «paesello» una vocazione irrinunciabile che lo riportò alle origini. Nel 1874, fece ritorno a Valenza, trattenuto questa volta non solo dall’amore per la sua terra, ma anche dall’affetto tenero e incondizionato di una madre amorosa (Maria Piatti), desiderosa di riabbracciare il figlio lontano.
Ma la storia di Vincenzo Melchiorre non sarebbe completa senza un omaggio alla sua compagna di vita, Angiolina Rolandi, una figura di rara intelligenza e sensibilità artistica. Angiolina non fu solo una moglie devota, ma una collaboratrice esperta e attiva, un’ispiratrice di bellezza che con il suo acuto intuito era in grado di suggerire le armonie perfette per un monile o di correggere un dettaglio che ne avrebbe altrimenti compromesso la grazia. La sua influenza fu determinante per il successo dell’impresa familiare, un’influenza che si estese anche alla successiva generazione.
Grazie all’eredità spirituale di Angiolina, i sei figli conservarono a lungo la tradizione familiare, animati da un profondo amore per l’arte orafa. Impararono dalla madre a sentire il lavoro non come una semplice occupazione, ma come una vera e propria missione d’arte, un’occasione per esprimere la propria creatività e lasciare un segno indelebile nel mondo. Tra questi figli, ricordiamo Camillo e Celeste, affettuosamente soprannominato “I’ Celestì”, entrambi figure di spicco nell’azienda di famiglia. E poi Mario, silenzioso e laborioso, e Bice, il cui ricordo merita di essere incastonato tra le gioie più belle della casa Melchiorre. Nel 1921 la «Melchiorre & C.» cambierà ragione sociale in «Fratelli Melchiorre». Nel 1933 la storia della manifattura Melchiorre si chiuderà, il suo fondatore si era spento otto anni prima.
Del tempo è doveroso ricordare anche Francesco Zacchetti (nato in Alessandria nel 1829), una figura chiave nella storia dell’industria orafa valenzana, egli rappresenta un esempio lampante dello spirito pionieristico che animava la zona in quegl’anni. Chiamati da Alessandria dal Morosetti nel 1850 lui e Carlo Bigatti (nato in Alessandria nel 1834) si sganciarono dall’azienda di Morosetti e aprirono in proprio un nuovo laboratorio orafo «Bigatti e Zacchetti», una decisione che si sarebbe rivelata fondamentale per lo sviluppo del distretto orafo, Mentre il Bigatti nel 1857 si ritirò nella sua Alessandria, la carriera di Zacchetti proseguì in ascesa e nel 1858 riaprì il laboratorio consolidando ulteriormente la sua reputazione nel settore.
Nel 1884, forte della sua consolidata esperienza, compì un passo decisivo, associando alla ditta il figlio e denominando l’azienda orafa «Francesco Zacchetti e Figlio Leopoldo», dando così inizio a una dinastia di orafi. Il figlio Leopoldo ereditò la passione e l’abilità del padre, continuando con successo la tradizione di famiglia. I discendenti di Leopoldo perpetuarono l’arte orafa, portando avanti l’eredità di Francesco e contribuendo in modo significativo alla crescita e alla fama di Valenza come centro orafo di eccellenza.
Qualche tempo dopo accanto ai nomi già rinomati di Morosetti, Melchiorre e Zacchetti risuonava quello di Giuseppe Gillio (1867-1964), artista torinese e poi valenzano dal talento formidabile, un maestro del cesello e un artista orafo di levatura europea. Un talento forgiato alla scuola del ginevrino Fournet, un vero maestro nell’arte della gioielleria. Il suo ingegno lo condusse fino a Parigi, dove nel 1889 partecipò all’Esposizione Mondiale, un evento che celebrava l’eccellenza e l’innovazione. Qui si manifestò in tutta la sua grandezza, tanto da suscitare l’interesse e l’ammirazione dei più grandi orafi d’Europa, che ambivano ad averlo nelle loro file.
La sua fama lo portò a collaborare con il leggendario Cartier, il gioielliere dei re e dei principi, un nome sinonimo di lusso e di eleganza senza pari. Ma non solo, Gillio lavorò anche nelle botteghe più prestigiose di Piccadilly a Londra, dove il suo talento come cesellatore era particolarmente apprezzato, grazie alla sua maestria nel modellare e decorare i metalli preziosi con una precisione e una delicatezza straordinarie.
Nel 1931 lasciò definitivamente la Francia e, dopo una breve esperienza a Torino, dove lavorò con il fratello Carlo, accettò l’offerta della ditta Illario e si trasferì a Valenza. Alla fine del 1963, esausto dai molti anni di lavoro con le aziende valenzane, si ritirò presso la casa di riposo di Valenza. Qui la sua salute peggiorò e, il 5 febbraio 1964, all’età di 96 anni, si spense.
Cofanetto in argento cesellato da Giuseppe Gillio
Da queste radici, germinate grazie all’ingegno e alla dedizione di questi pionieri, sono poi germogliati numerosi continuatori, figure che hanno saputo raccogliere il testimone e portare avanti, con intelligenza e capacità professionali, l’eccellenza valenzana nel mondo. Possiamo ricordare con ammirazione i Cavalli, i fratelli Scalcabarozzi, maestri nell’arte della lavorazione dei metalli preziosi; Pietro Camurati, innovatore nel design e nella tecnica; i Porta, noti per la loro precisione e cura del dettaglio; i Bonafede, custodi di antiche tradizioni; i Genovese, pionieri nell’internazionalizzazione del marchio Valenza.
Si hanno notizie certe che nel 1896 erano presenti in Valenza le ditte: Melchiorre, Della Valle, Vecchio, Bonafede & Visconti, Marchese & Gaudino, Cunioli Francesco, F.lli Scalcabarozzi, Cavalli, Peroso, Nicola Raselli, Balzana e Bonzano, Leopoldo Bissone, Angelo Prato, Mattaccheo e altre minori.
E poi, a poco a poco, si aggiunsero centinaia di nomi, un esercito di talentuosi artigiani e imprenditori che hanno dato vita a industrie fiorenti, fabbriche artigianali, laboratori specializzati, eccetera. Un’intera filiera, un ecosistema produttivo che ha dato lavoro a diverse migliaia di operai, molti dei quali appartenenti a una categoria particolare: quella dei lavoranti a domicilio, spesso specializzati in lavorazioni specifiche, come incassatori, incisori di precisione, cesellatori di rara abilità e altri artigiani che contribuirono a rendere unico il gioiello valenzano. Al vertice di questa piramide, spiccarono i fratelli Illario (fabbrica fondata nel 1919), Carlo, Vincenzo e Luigi, che possiamo considerare, a buon diritto, tra i continuatori più apprezzati.
La fama della competenza gemmologica dei fratelli Illario si tramandò come un’eredità celata, un dono innato e quasi sovrannaturale, simile a quello che un tempo contraddistingueva i Melchiorre. Era un’epoca in cui la scienza gemmologica, come la conosciamo oggi, era ancora in fasce. Anzi, prima ancora che l’istituto di gemmologia della rinomata scuola valenzana I.P.O. aprisse le sue porte, l’occhio infallibile di Carlo Illario rappresentava l’unica garanzia di purezza per le pietre preziose che transitavano nelle sue mani. Con uno sguardo penetrante, Carlo era in grado di svelare i difetti più nascosti, di valutare con precisione il pregio e di stimare con accuratezza il valore di ogni singola gemma.
Questa straordinaria attitudine, questa capacità di discernimento quasi magica, rese gli Illario figure leggendarie, particolarmente rinomate nel frenetico e competitivo mercato internazionale dei diamanti. Anversa, la capitale mondiale del diamante, e Amsterdam, la città dei canali scintillanti e delle antiche case commerciali, erano i luoghi dove si recavano per scovare e acquistare le gemme più rare e preziose. La loro ricerca non era casuale ma guidata da un’esperienza decennale e da un’intuizione che rasentava la perfezione. Nessuno, nemmeno il più scaltro degli acquirenti, avrebbe mai potuto trovare, nel loro scrigno favoloso, un diamante opaco, tendente al paglierino, macchiato o imperfetto nel taglio. Ogni brillante, ogni rubino, ogni smeraldo brillava di una luce intensa e pura, frutto di una selezione severa e spietata, che non ammetteva compromessi. Dietro ogni gemma si celava una storia di passione, di ricerca e di un’esigenza di perfezione quasi maniacale.
Questo racconto necessita, però, di essere completato, arricchito con ulteriori profili che, per la loro dedizione e maestria, meritano di essere ricordati. Pensiamo, ad esempio, a Pietro Carnevale (noto come Barisini), un uomo operoso fino alla vecchiaia, la cui passione non conobbe limiti temporali. La sua formazione iniziò presso la rinomata ditta Marchese e Gaudino, fucina di talenti e custode di antiche tradizioni. Divenne in seguito un cesellatore sommo, raggiungendo l’apice della sua arte nel suo laboratorio, dove collaborò con il fratello Enrico. Con generosità e spirito di condivisione, Pietro Carnevale trasmise la sua conoscenza e la sua abilità a numerosi giovani apprendisti, plasmando le nuove generazioni di orafi valenzani.
Non possiamo dimenticare Giuseppe Martinengo, valenzano non per nascita, ma per adozione, un uomo che scelse di legare il suo destino a questa terra e alla sua arte. La sua fedeltà al lavoro fu incrollabile, tanto che, dopo una breve pausa nel 1930, non riuscì a resistere al richiamo della sua passione. Presto si stancò del riposo forzato e riprese l’attività nella fabbrica dei suoi nipoti, creando, forse, le creazioni più preziose e raffinate della sua già notevole produzione.
Un altro nome che risuona con forza negli annali dell’oreficeria valenzana è quello di Pietro Cavallero. Egli, animato da una forte intraprendenza, iniziò il suo percorso quasi appartato, superando ostacoli e difficoltà con tenacia e ingegno. Da artigiano indipendente, si trasformò in un vero e proprio industriale, arrivando a dirigere un’azienda con oltre trenta operai. La sua intuizione più significativa fu quella di concentrarsi sulla produzione di gioielli a basso titolo, introducendo l’ornamento aureo anche tra le classi meno abbienti. In questo modo, Cavallero democratizzò l’accesso alla bellezza e al lusso, contribuendo a diffondere il gusto per l’eleganza e la raffinatezza.
Non si può neppure dimenticare Mario Genovese, affettuosamente soprannominato «al fiò d’Tulì». La sua formazione da ragioniere, unita a un innato senso degli affari, lo rese un amministratore oculato e prudente. Prima di dedicarsi all’oreficeria, Genovese aveva dimostrato il suo valore come combattente valoroso nella Prima Guerra Mondiale (1915-18), un’esperienza che lo temprò nel carattere e gli insegnò il valore del sacrificio e della perseveranza. Tuttavia, il fascino irresistibile dell’oro lo catturò, spingendolo a trasformarsi in fabbricante, in società con Pietro Camurati. La loro collaborazione diede vita a creazioni originali e di grande successo, che contribuirono a consolidare la reputazione di Valenza come centro di eccellenza orafa.
Lo spazio a disposizione non ci permette di rendere omaggio a tutti i pionieri che hanno contribuito a plasmare l’industria orafa valenzana. Tuttavia, è doveroso sottolineare come questa industria, grazie all’ingegno e alla dedizione di questi artigiani, abbia rapidamente conquistato i mercati internazionali in una nube di profumo di successo. La notorietà di Valenza nel settore orafo non è solo un motivo di orgoglio per la città stessa, ma rappresenta un tributo all’eccellenza italiana nel suo complesso. L’industria orafa valenzana incarna un ramo produttivo che si distingue non solo per la sua capacità di creare valore economico, ma anche per l’alto pregio artistico dei suoi manufatti. L’attenzione ai dettagli, la ricerca della perfezione e l’utilizzo di materiali preziosi si fondono per creare gioielli unici, espressione di un’arte raffinata e di una maestria ineguagliabile.
La storia dell’oreficeria valenzana si rivela così anche come storia di uomini, di questi artigiani abili e appassionati che hanno dedicato la loro vita all’azione produttiva locale e alla creazione di gioielli senza tempo, in un mix di vitalità pionieristica fatta di ottimismo operativo e impeto futurista. Hanno dovuto lavorare spesso con quel che c’era, spesso superando se stessi, senza una necessaria selezione qualitativa ma con la capacità di scovare i migliori e con il rischio crollo sempre in agguato. Hanno visto i loro figli spaccarsi la schiena quando quelle dei padri erano ormai curve, ma è un’altra storia.
Con questo scritto si è voluto porre in risalto alcune delle figure che hanno segnato, in modo particolare, il primo percorso dell’oreficeria valenzana, illuminando il loro contributo affinché la discrezione e il tempo non offuschi il ricordo di questi pionieri che meritano un posto d’onore nella memoria di questa città che, purtroppo, procede ormai a vele spiegate verso i lidi dell’oblio di ciò che fummo.