Cascina Spiotta, l’ex Br Azzolini: “Mara si era arresa e urlava non sparare”
La confessione inattesa di uno degli imputati cambia il corso del processo (e della storia) su ciò che accadde durante la liberazione dell'imprenditore Vallarino Gancia
ALESSANDRIA – Davanti alla Corte d’Assise presieduta da Paolo Bargero, è iniziato il processo che dovrà far luce sullo scontro a fuoco avvenuto tra brigatisti rossi e carabinieri alla Cascina Spiotta di Melazzo, nell’Acquese, ovvero il covo in cui le Brigate Rosse nascosero l’imprenditore vinicolo Vittorio Vallarino Gancia dopo il sequestro.
Gli imputati sono tre ex brigatisti di rilievo, Lauro Azzolini, Mario Moretti e Renato Curcio.
Era il 5 giugno 1975: ”Un giorno maledetto, che non dimenticherò mai”, ha sottolineato ieri in aula uno degli imputati, l’ex Br Lauro Azzolini, che, spontaneamente – dopo 50 anni – ha ammesso di essere lui il brigatista X.
Un colpo di scena inatteso, che cambia il corso del procedimento azzerando, di fatto, tutta quella parte in cui l’accusa, davanti alla Corte, avrebbe dovuto cercare di dare un nome e un volto all’uomo che riuscì a scappare dopo il conflitto a fuoco.
Perché l’ex Br Azzolini ha consegnato alla storia, ai giudici alessandrini e ai famigliari del carabiniere ucciso, Giovanni D’Alfonso, quella che è la sua versione dei fatti. Affermando, ‘alla Spiotta c’ero’.
Ma per le parti civili e la Procura, il procedimento dovrà dare ancora molte altre risposte.
Per i famigliari di D’Alfonso, poi, questo processo non deve diventare un convegno di sociologia o di memoria storica perché ci sono imputati e parti offese, vittime del terrorismo. Bruno D’Alfonso e le sorelle Cinzia e Sonia, tutti figli di Giovanni, il militare ucciso, cercano la verità.
‘Un minuto in cui tutto precipitò’
E’ nel silenzio di un’aula gremita che Lauro Azzolini ha iniziato il suo racconto, in 9 minuti ha raccontato la sua verità.
‘C’ero quel giorno, cinquant’anni fa alla Spiotta – ha pronunciato davanti ai giudici – In un minuto breve di cinquant’anni fa, quando tutto precipitò. Un inferno che ancora oggi mi costa un tremendo sforzo emotivo rivivere, al termine del quale sono morte due persone che non avrebbero dovuto morire. Un padre, di Bruno D’Alfonso, mi dispiace (Azzolini pronuncia quelle parole volgendo lo sguardo verso il figlio del carabiniere ucciso, ndr) e Mara (Cagol, moglie di Renato Curcio, ndr). Mara, una donna eccezionale , una compagna generosa….’.
‘Un giorno maledetto’
‘Un giorno maledetto, che non dimenticherò mai – ha continuato – ma visto che a distanza di 50 anni si è deciso di portarmi in un processo pubblico, oggi, che di anni ne ho 82 , e tutto intorno a me è cambiato rispetto a quando ne avevo meno di trenta, quando, nel contesto delle lotte di classe, nel duro conflitto sociale, insieme a tanti altri compagni pensavamo di poter fare la rivoluzione. Perché allora il mondo che ci circondava era molto diverso da quello di oggi, seppur in questo presente quotidiano assistiamo a violenze… ho deciso di raccontare quello che quel giorno è successo. Prima che questo processo abbia inizio e prima che lo facciano altri, perché io sono l’unico che ha visto quello che quel giorno è davvero successo...’
‘Non avrebbe dovuto succedere’
‘Quel giorno è successo quello che avevo scritto allora, in quella ricostruzione fatta per tutti gli altri compagni delle Br trovata dai carabinieri a Milano (Azzolini si riferisce al memoriale, ora agli atti, ndr) perché è stata nominata più volte dalla pubblica accusa’.
‘Poi la leggerete – precisa – io non ci riesco, neppure a distanza di 50 anni, perché mi fa rivivere i dettagli e la prolungata sofferenza. Per cui vi dirò quello che oggi ricordo di quel giorno di così tanti anni fa, e che non avrebbe dovuto succedere’.
‘Da pochi mesi ero arrivato a Torino, e da operaio mi ero impegnato al lavoro di coordinamento dell’avanguardia nelle fabbriche torinesi. Con l’arresto di due compagni della colonna torinese entro anch’io nella clandestinità. Proprio nel momento in cui c’è necessità di autofinanziamento, l’organizzazione decide di sequestrare un ricco imprenditore’.
‘Era la prima volta, e io vi partecipai. Il tutto avrebbe dovuto concludersi in pochi giorni, senza conseguenze né per il sequestrato né per noi’.
‘Invece, già il giorno stesso del sequestro venne arrestato il nostro compagno che si dichiarò prigioniero politico. L’indomani successe l’impensabile, che stravolse tutto. Perché a causa del fato e della nostra impreparazione ci facemmo prendere alla sprovvista’.
‘Mara e io avremmo dovuto controllare a turno l’unico viottolo d’accesso alla cascina, all’improvviso sentimmo dei colpi forti alla porta e guardando dalla finestra ci accorgemmo della presenza di un carabiniere’.
‘Ad entrambi ci cadde il mondo addosso, e ci prese il panico. Ho sentito dire che saremmo stati istruiti e addestrati per cosa fare in quei casi, e altre cose del genere. Non è vero, non sapevamo assolutamente cosa fare, perché non era mai successo. Vi fu un’improvvisazione di tutto sul momento, quel che ricordo è che decidemmo di fuggire abbandonando l’ostaggio’.
‘La confusione era assoluta’
‘La confusione era assoluta, sapevamo che fuori ad attenderci c’erano i carabinieri, ne avevamo visti due, forse tre. Ma quanti di preciso fossero non lo sapevamo. Raccogliemmo carte e bagagli, frastornati. Cercando di capire come uscire. Si decise di usare le due piccole ‘srcm’ ( bomba a mano, ndr) quelle cosiddette di addestramento. Lanciate senza mira alcuna avrebbero provocato un’esplosione tale da disorientare gli stessi carabinieri, e così avere lo spazio necessario per aprirci la fuga verso le nostre due auto che erano appena fuori’.
‘Ma tutto precipitò. Sentimmo colpi d’arma verso di noi, rispondemmo con qualche colpo, nel caos. In una frazione di secondo, prese le nostre auto pensammo di esserci riusciti, ma la carreggiata era sbarrata dall’auto dei Cc. Io e Mara ci urtammo finendo la corsa sotto il tiro di un altro carabiniere che era spuntato all’improvviso’.
‘La nostra resa’
‘Vi fu la resa nostra. Uscito dall’auto mi affacciai e Mara era già sul prato, notai che sanguinava da un braccio, le chiesi se era ferita, mi disse di sì ma che non era niente, e che se c’era l’occasione bisognava tentare ancora di fuggire‘.
‘Risposi che avevo ancora una ‘srcm’. d’accordo, al suo cenno la lanciai e mi misi a correre verso il bosco convinto che Mara mi avrebbe seguito’.
Raggiunto il bosco mi accorsi che lei non c’era, e allora guardai verso il prato della cascina, e l’ultima immagine che ho di Mara, che non dimenticherò mai, è di lei ancora viva che si era arresa con entrambe le braccia alzate, disarmata. E urlava ‘non sparare’. Ho continuato a correre a piedi senza guardarmi indietro per raggiungere una zona distante, quando sentii due spari’.
‘Mara, distesa su quel prato dove l’avevo lasciata viva’
‘Continuai a correre per ore, cercando un nascondiglio sicuro per aspettare la notte. Ero solo. Il giorno dopo, quando raggiunsi un paese, sulle prime pagine dei giornali seppi di feriti e vidi che Mara era morta, distesa su quel prato dove l’avevo lasciata viva’.
‘Lo sconcerto, il dolore mi ha attraversato la carne come una lama. Poi il bilancio finale, un’altra morte come tragico epilogo di quella giornata’.
‘Col rispetto dovuto, e anche di quei due morti che non avrebbero dovuto esserci, che non ho più potuto tornare indietro’.
‘Capisco che oggi questa sembrerà paradossale, ma allora, per la mia coscienza di classe, ha significato assumermi la responsabilità della scelta fatta’.