Guelfi e Ghibellini a Valenza
La storia della Città del Gioiello a cura del professor Maggiora
VALENZA – Di Valenza come terra del Monferrato abbiamo solo scarse informazioni storiche. Tuttavia, quello che segue è il quadro prevalente che è stato narrato. Sappiamo che nel 1162 il marchese Guglielmo V degli Aleramici, un grintoso leone noto anche come Guglielmo III o Guglielmo il Vecchio (circa 1110-1191), unico figlio maschio del marchese Ranieri degli Aleramici e di Gisella di Borgogna, fu marchese del Monferrato dal 1137 fino alla sua morte.
In qualità di marchese, Guglielmo V cercò di rendersi benevolo verso i sudditi e i nobili patrizi del Monferrato, e per questo motivo conferì il titolo di signori di Lazzarone (ora Villabella) ai figli di Ferdinando Sannazzaro, e il titolo di signori di Valenza ai Visconti di Monferrato. Poco dopo, nel 1164, l’imperatore Federico I Hohenstaufen, soprannominato Barbarossa (1122-1190), una delle figure più influenti e pervicaci del medioevo in lotta con il papato e i comuni italiani, in un suo diploma menzionò esplicitamente Valenza tra i territori sotto il dominio di Guglielmo V. Questo documento imperiale rappresenta una delle poche testimonianze dirette che abbiamo riguardo alla condizione di Valenza in quel periodo storico. Inoltre, sappiamo che il Monferrato in generale, di cui Valenza faceva parte, era un territorio conteso e influenzato da diverse forze politiche dell’epoca, tra cui l’impero e il papato.
La creazione di nuovi signori locali da parte di Guglielmo V può essere interpretata come un tentativo di rafforzare il suo potere e la sua influenza in una zona strategicamente importante. Purtroppo, le fonti storiche a nostra disposizione non ci permettono di ricostruire in modo più dettagliato la storia di Valenza in questo periodo cruciale del misero e spettrale Medioevo italiano.
Secondo alcuni documenti storici, nel 1207 la comunità di Pavia acquistò la città di Valenza dal marchese Guglielmo VI del Monferrato per la somma di 400 lire. Ma ci sono alcune cose che non tornano e alcuni errori in queste testimonianze che il ricercatore Majocchi ha riscontrato e che aggiungono ulteriori elementi di mistero. In primo luogo, la data della transazione non sarebbe il 15 agosto 1207, ma il 18 luglio dello stesso anno. Inoltre, il prezzo pagato non sarebbero 400 lire, bensì 4.000 lire, una cifra decisamente più elevata. Infine, il podestà di Pavia che avrebbe concluso l’affare non sarebbe Girardo de Farra ma Girardo de Fante.
Majocchi ipotizza che la ragione di questa vendita fosse legata alle necessità finanziarie del marchese Guglielmo VI, il quale avrebbe avuto bisogno di denaro per compiere un importante viaggio in Tessaglia. Qui, Guglielmo doveva assistere all’incoronazione di suo fratello Demetrio come re di quel regno, che era stato retto dal loro padre Bonifacio, eredi di storie governative sanguinarie.
Divenuta parte del territorio pavese, Valenza dovette affrontare numerose difficoltà nei primi anni. Nel 1212, la città subì probabilmente gli attacchi degli alessandrini, i quali appoggiavano l’imperatore Ottone IV ed erano in conflitto con le terre del marchese di Monferrato e della città di Pavia, che si erano schierate a favore di Federico II. Inoltre, nel 1215, Valenza non riuscì a sfuggire all’ira delle forze coalizzate di Alessandria, Milano, Vercelli e Torino, guidate dal conte di Savoia Tomaso, quando questi popoli con protervia invasero il Monferrato.
I valenzani, appartenenti alla fazione guelfa e storicamente alleati dei Torriani (capi del guelfismo lombardo), con piglio velleitario erano accorsi numerosi a Pioltello per prestare il loro aiuto nel conflitto contro i Visconti, la potente famiglia milanese schierata con il partito ghibellino. I Visconti, insieme agli Scaligeri di Verona, costituivano il principale sostegno di questa fazione politica nell’Italia settentrionale, impegnata in una lotta senza quartiere contro i loro rivali guelfi per il controllo dei territori e delle città della Pianura Padana, una deriva che malauguratamente si trascinerà per lungo tempo con intrecci di potere e malaffare.
La presenza dei combattenti valenzani a fianco dei Torriani dimostra l’ampiezza della rete di alleanze e il carattere profondamente radicato delle divisioni politiche che laceravano con poca dignità in quel periodo la regione, in cui si fronteggiavano due schieramenti inconciliabili, entrambi determinati a prevalere sull’altro nella loro incessante lotta per l’egemonia. Quest’accanita rivalità tra guelfi e ghibellini aveva coinvolto numerose famiglie e città padane, trascinandole in un vortice di conflitti e di violenze che stava mettendo a dura prova la stabilità politica e sociale dell’intera area.
In questo periodo storico, Valenza, oggetto di un linciaggio strisciante, dovette probabilmente accettare l’introduzione della moneta pavese, che andò a sostituire la propria valuta locale. Infatti, Valenza disponeva di una propria zecca, come testimoniato dai ritrovamenti di monete a Casargo, in provincia di Como. Queste monete recavano sul dritto una piccola testa mitrata e nimbata, mentre sul rovescio era raffigurata una croce ornata con la leggenda «SI. AN & GE AST TUTOR – COMUNS. & LOCI VA», che significa «San Antonio e San Giorgio, protettori della Comunità e del luogo di Valenza». Altre informazioni sulla moneta valenzana sono contenute anche nel capitolo 386 degli Statuti di Valenza del 1397, che ne attestano l’emissione, probabilmente a titolo di ostentazione dei diritti della città, come sostenuto dal Bordes.
Nel frattempo, l’entusiasmo suscitato dall’arrivo in Italia, nel 1310, di Enrico VII di Lussemburgo, il cui intento era di porre fine alle discordie, spinse Valenza, insieme a Casale e ad altre località, a farsi tappetino e giurargli fedeltà. Tuttavia, a causa del riemergere delle dissensioni e delle molte trasmutazioni, Valenza era tornata ben presto schierata con i guelfi. Di conseguenza, nel 1313, Enrico VII si scatenò seminando scompiglio, con un decreto emesso a Pisa, pose al bando dell’Impero Valenza, Pavia, Asti, Casale e altri luoghi, ordinando che queste terre pagassero una multa di 1000 libbre d’oro ciascuna e che fossero distrutte dalle fondamenta, il che non era un campanello d’allarme ma una campana a morto.
È inutile sottolineare che questo decreto non ebbe alcun effetto, sia perché nell’anno 1313 lo stesso Enrico VII morì, sia perché egli si trovava lontano e la sua autorità era scarsamente riconosciuta, specialmente poiché Roberto di Napoli, capo del partito guelfo al quale Valenza si era data, inviava continuamente soldati nella nostra zona per combattere contro i Visconti.
Nel 1315, Matteo Visconti con il figlio Marco imperversava inesorabile nella zona; dopo aver sconfitto Hugues de Baux (Ugone del Balzo) a Montecastello, vicario del re Roberto in Piemonte, ottenne il dominio su Alessandria e Valenza, incarcerando a Milano molti avversari locali (20 della sola famiglia alessandrina da Pozzo), e i valenzani gli consegnarono pure il perseguitato Antonio Fissiraga, ex signore di Lodi, che avevano catturato. Matteo lo fece imprigionare a Milano, dove l’infelice stigmatizzato e discriminato nel silenzio morirà nel 1327.
Per contrastare l’espansione dei Visconti, nel 1320 papa Giovanni XXII e Roberto d’Angiò, re di Napoli, si allearono e chiesero aiuto al re di Francia, il quale concesse loro 1000 uomini d’arme sotto il comando di Filippo di Valois. Quando giunsero ad Avignone, dove risiedeva il papa, questi impose loro «di procedere in Lombardia contro i Ghibellini, come pertinaci nemici di Santa Chiesa, salvando e difendendo sempre con quanta forza avevano i suoi fedelissimi Guelfi», e promise loro «grandissimi premi», come riportato dallo storico Bernardino Corio due secoli dopo. Quest’alleanza tra il papato, il regno di Napoli e la Francia testimonia quanto fosse accesa la lotta tra guelfi e ghibellini in quell’epoca, con il papa che cercava di utilizzare ogni mezzo a sua disposizione per contrastare l’avanzata dei Visconti e dei loro alleati ghibellini in Lombardia.
L’anno successivo, nell’aprile del 1321, Filippo fece ritorno in Francia e Matteo Visconti inviò suo figlio Marco ad assediare Vercelli. I vercellesi, ridotti allo stremo, inviarono disperate richieste di aiuto in uomini e vettovaglie ai Guelfi delle città vicine, soprattutto a quelli di Valenza. Questa mossa disperata da parte dei vercellesi rifletteva la gravità della loro situazione. L’assedio di Marco Visconti stava mettendo a dura prova le loro difese e le scorte di cibo. I vercellesi sapevano che senza un aiuto tempestivo dalle città guelfe, non sarebbero riusciti a resistere ancora a lungo. Perciò si rivolsero con urgenza ai loro alleati di Valenza, città notoriamente fedele alla fazione guelfa, chiedendo rinforzi e rifornimenti.
Nella città di Valenza, si radunarono numerosi Guelfi provenienti dai luoghi vicini, in particolare da Pavia, e 600 di loro si mossero alla volta di Vercelli. Ma il Visconti, avvertito della loro venuta dagli esploratori, si armò per riceverli e i Guelfi, accecati dalla superbia, trovarono nelle truppe di Marco un così forte intoppo, che in luogo di soccorrere la città minacciando sfracelli dovettero volgere in fuga precipitosa incalzati da nemici che ne fecero una spaventosa strage. Una vicenda impregnata di dolore, in pratica un disastro con l’addio alle armi per Valenza.
In seguito alla sconfitta dei Guelfi a Vercelli, il Papa, Roberto di Napoli e Filippo di Valois decisero di inviare in Lombardia il cardinale Bertrando del Poggetto (Bertrand du Pouget o Poyet) noto per la sua abilità e cautela. Papa Giovanni XXII gli concesse «tutte quelle grazie apostoliche che dar poteva» e gli ordinò di «estirpare del tutto i Ghibellini» con l’aiuto dei Guelfi.
Giunto in Lombardia, il cardinale stabilì la sua sede a Valenza, considerata uno dei bastioni del guelfismo. Qui, ammantando di sacralità la propria causa, il 14 marzo 1322, riunì un tribunale inquisitoriale composto da frate Aicardo da Camodeia, arcivescovo di Milano, frate Barnaba, frate Pasio da Vedano, frate Giordano da Mantecucco e frate Onesto da Pavia – tutti domenicani abituati a considerarsi tesorieri della veridicità e unti da qualche entità celestiale – nella Chiesa di Santa Maria, che diventerà più avanti il duomo di Valenza.
Non deve stupire che il processo sia stato celebrato in un edificio sacro. Nel Medioevo, le navate delle chiese erano utilizzate quali aule di tribunali e aule universitarie ed erano ambienti in cui si riunivano anche gli amministratori della città: il pensiero di assumere decisioni importanti al cospetto di Dio in un luogo reso sacro dava all’uomo medievale la consapevolezza che la scelta presa lì fosse la più giusta che si potesse prendere. Le testimonianze rilasciate durante il processo, giurate alla presenza di Dio, non potevano essere false: in caso contrario, ci si trovava nella condizione di essere nel peccato mortale.
Questo inflessibile tribunale, per molti una vera e propria trappola partigiana, pronunciò solennemente la scomunica contro Matteo Visconti e i suoi figli, accusandoli di orribili crimini come se fosse comparso l’anticristo. Gli inquisitori si fermarono a lungo in Valenza, continuando i lavori fino al 30 gennaio 1324 in questa guerra fredda cristiana fra il trono e l’altare, tra il potere temporale e quello spirituale. A confronto di loro un fariseo diventava un individuo franco e leale. Mentre i frastornati valenzani, privati dei diritti più elementari, a differenza di questi signori, restarono a guardare senza fare il tifo per l’una o per l’altra bandiera, avendo ben altra guerra da combattere: quella quotidiana contro la fame.
La scomunica era un atto di fondamentale importanza politica e religiosa, in quanto privava i Visconti del sostegno della Chiesa e legittimava l’azione degli avversari Guelfi. Il cardinale Bertrando del Poggetto, rappresentante diretto del Papa, dimostrava così la ferma volontà della Santa Sede di contrastare l’ascesa della potente famiglia milanese e di ristabilire l’autorità pontificia in Lombardia. Tuttavia, i Visconti non si piegarono facilmente a questa condanna e continuarono a mantenere il loro forte dominio sulla città di Milano e sui territori circostanti. La lotta tra Guelfi e Ghibellini in Lombardia sarebbe continuata per molti anni a venire, con alterne vicende e scontri cruenti, in un periodo di grande turbolenza politica nella penisola italiana dove, per sopravvivere, molti avevano bisogno continuamente di nemici, ineluttabili per abitudine.
Il Papa guascone da Avignone – i pontefici restano in esilio ad Avignone dal 1309 al 1378, nella Francia succube dei Capetingi e devastata dalla guerra dei Cent’anni – decise di ricorrere anche alle armi temporali, inviando in Italia Raimondo di Cardona di Tarascona, gentiluomo aragonese già comandante al servizio di Roberto d’Angiò, con un esercito e denaro, nominandolo gran siniscalco e vicario generale in Lombardia.
Quando nel 1321 il Cardona giunse a Valenza, dove si trovava anche il cardinale Bertrando del Poggetto, sempre pronto a sacrificarsi per il più elevato del momento, il condottiero proclamò con veemenza la guerra contro i nemici della Chiesa e cominciò a menare la gente della zona, decisa a non capitolare, senza soluzione di continuità e inutilità. Allora il Papa citò dodici principali cittadini di Milano a comparire alla presenza del suo rappresentante, e questi blasonati ghibellini milanesi, temendo più la disapprovazione divina che l’ira di Matteo Visconti, decisero di recarsi in forma ancillare dal legato a Valenza. Durante il viaggio, uno di loro, Francesco Visconti, spaventato dalle ritorsioni di Matteo, tornò indietro, ma gli altri, nudi e impotenti, proseguirono e giunsero nella città. Qui Bertrando tenne loro un discorso, esortandoli a riconciliarsi con la Chiesa, deponendo Matteo Visconti e permettendo ai Torriani e ai loro seguaci guelfi di fare ritorno in patria dopo una lunga serie di umiliazioni.
A Valenza, il cardinale cercò soprattutto di convincere i tremebondi milanesi a separarsi dal potente padrone Matteo Visconti e a rientrare nell’orbita del Papato, utilizzando sia argomenti religiosi che politici per indurli a sottomettersi all’autorità pontificia. I membri del governo di Milano non esitarono ad allinearsi e a minacciare apertamente Matteo, dichiarando di essere pronti a destituirlo anche con la forza e, tornati a Milano, fecero sapere chiaramente al Visconti che non erano più disposti a mettere a repentaglio il benessere del Comune per i suoi interessi personali. Un atto di sudditanza ai vecchi nemici, o quantomeno di ignavia, atteggiamento molto più letale di chi lo criminalizzava, seguendo la regola, anche allora abbondantemente diffusa, di dire pesta e corna degli altri.
Matteo Visconti, con una mente offuscata in bilico tra santità ed eresia, fu così spaventato da questa ferma presa di posizione che decise di riunire attorno a sé le forze dei ghibellini della Lombardia, sperando di poter mantenere il suo potere vestendo i panni del perseguitato. Tuttavia, in quei giorni concitati, egli morì, gettando nell’incertezza il suo progetto di consolidare il dominio ghibellino sulla regione. La morte di Matteo I Visconti (24 giugno 1322) fu accolta con sollievo dai suoi oppositori, che videro in essa l’opportunità di ridefinire gli equilibri di potere nella città e nella regione.
La sua scomparsa improvvisa lasciò così un vuoto di potere che gli avversari politici si affrettarono a riempire, cercando di approfittare della situazione per espandere la loro influenza e confondendo ancor più le acque.
Mentre il processo era in corso, con quasi tutti gli imputati in contumacia, Marco Visconti, detto Balatrone, fratello di Galeazzo I il nuovo signore di Milano dopo la morte del padre, e quella stella della sciagura del capitano di ventura aragonese Raimondo de Cardona, si fronteggiarono a Bassignana per il controllo della rocca e, quindi, del Po.
Il 6 luglio 1322, Visconti, con 2.200 cavalli e 10.000 fanti, attaccò i papalini inferiori di numero con solo 1.200 cavalli e 2.000 fanti. La battaglia durò per diverse ore e il Visconti fu respinto e buttato più volte giù dal ponte sul Po con i suoi uomini, perdendo ben 300 cavalli contro 150 del nemico in due suoi attacchi di cavalleria. Alla fine, però, riuscì a prevalere, catturando 600 cavalli e 400 fanti pontifici, oltre lo stesso Cardona, il quale, però, riuscì a fuggire nella notte e a ripararsi a Valenza dal cardinale Bertrando del Poggetto, che, per la sua capacità manovriera, il suo carattere non propriamente irenico e le sue capacità divinatorie, concertò immediatamente nuovi piani per la continuazione della guerra. Sono due uomini da battaglia che bramano dettar legge ben oltre le loro effettive supremazie, tarpando le ali con disumanità a chi si contrappone, dimenticando il sacro e la fede con capricci individuali spacciati per giustizie in perfetto stile efferato. Non c’è niente di più pericoloso di istrioni che possiedono il Potere, che si ergono a giudici in processi in cui dovrebbero essere coimputati.
E siccome la giustizia frequentemente è utilizzata come un randello per punire gli avversari e le sentenze vanno rispettate, specie quando a onorarle devono essere gli altri, vanificando quanto solennemente decretato, e a rendere il tutto paradossale e quasi meritevole d’oblio, la dura sentenza promulgata a Valenza nel 1322 contro i milanesi sarà revocata nel 1341 da un altro papa, Benedetto XII, in cambio di 50.000 fiorini. Rasentando il ridicolo, anzi andandoci dentro oltre ogni soglia del grottesco.