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La cena del 7 marzo 2020 andò particolarmente per le lunghe.
Era un sabato. Si stava tra colleghi. Forchetta in una mano, cellulare nell’altra e occhi distratta dal televisore che, raccontando l’impensabile, mandava immagini che sapevano di irrealtà.
Eppure era tutto vero. Incredibile ma vero. Faceva impressione la gente che prendeva d’assalto le stazioni dei treni per fuggire da Nord a Sud, ma anche viceversa, desiderosa di tornare a casa al più presto, sapendo che, di lì a qualche ora, non avrebbe più potuto farlo.
Il Covid, quel morbo di cui si parlava con sempre più insistenza da almeno un mese, non era più un’esclusiva di Codogno o di circoscritti territori della Lombardia, ma si stava spaventosamente diffondendo attraverso la cosa più umana possibile: i contatti fra persone. Che, dunque, si sarebbero dovuti evitare, chiudendo l’Italia.
Ciascuno a casa propria, prigioniero di un termine inglese pronto a diventare famigliare: lockdown (traduzione più appropriata: clausura).
La cena del 7 marzo andò per le lunghe perché i cronisti fanno cronaca anche tra una portata e l’altra.
Bisognava informare, aggiornare il sito web, sperando pure di soddisfare chi, utilizzando i social, poneva domande alle quali non sempre si riusciva a dare risposte, perché mai, a noi, avevano imposto di rintanarci in casa.
Sì, a noi, gente che credeva che il contagio causato da un pipistrello in un mercato di Wuhan, in Cina, fosse tutt’al più roba da film con sceneggiatore particolarmente fantasioso.
In realtà, le antenne le avevamo alzate già a gennaio. E a febbraio, giorno 22, abbiamo dato notizia di 15 casi di Coronavirus (battezzato Covid soltanto dopo) in Piemonte.
Anche una coppia di Pozzolo Formigaro era tenuta “sotto osservazione”. Pare si trattasse di gente frequentante Codogno, la località degli inconsapevoli “untori”. Qualcuno, inoltre, era pure andato a ballare alla Cometa, il dancing di Sale.
Tant’è che, a inizio marzo, le autorità invitarono a recarsi dal medico curante “tutti quelli che erano stati in quel locale dal 17 febbraio in poi” e che avessero accusato sintomi influenzali.
Nel frattempo, per precauzione, erano stati rinviati spettacoli teatrali e i ristoranti cinesi venivano (erroneamente) dipinti come luoghi dal contagio garantito.
Durante la cena di quel 7 marzo, questo si diceva. Di Pozzolo e di Sale. Dello show sospeso, dello stop a ravioli al vapore e riso alla cantonese. Dei controlli a cui erano stati sottoposti, in aeroporto, amici reduci dall’estero.
Delle testimonianze di persone più o meno informate. Di come l’ospedale di Alessandria si stava preparando ad affrontare un’emergenza mai conosciuta nell’ultimo secolo (la febbre spagnola venne debellata nel 1920). Dei negazionisti che, al tempo, consideravano null’altro che ottimisti a oltranza.
La cena del 7 marzo si concluse con un arrivederci e nessun appuntamento preciso. Continuavamo a sfornare notizie per come le si apprendeva, senza sapere quando ci saremmo (ri)visti e come sarebbe andata.
A cinque anni di distanza, facendo la conta dei morti, dei malati divenuti cronici, ragionando con medici, infermieri, operatori sanitari, lavoratori delle case di riposo… ecco, a cinque anni di distanza possiamo dire che è andata peggio.
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