La rinascita della Camera del Lavoro di Valenza
L'approfondimento del professor Maggiora
VALENZA – Nel 1921, in un clima politico sempre più teso e conflittuale tra forze fasciste e movimenti sindacali, a Valenza, occorsero episodi di violenza da parte di squadre fasciste provenienti dai comuni limitrofi. Nell’aprile di quell’anno, queste squadre fecero irruzione e diedero alle fiamme la locale Camera del Lavoro, sede dell’organizzazione sindacale. Quest’atto di forza rientrava nella più ampia strategia del movimento fascista, tesa a soffocare le voci critiche e le forme di rappresentanza autonoma dei lavoratori. Un vento tanto violento quanto percepibile che trascinava tutto.
Quattro anni dopo, nel 1925, il processo di fascistizzazione dei sindacati subì una svolta decisiva con la firma dell’accordo di Palazzo Vidoni, siglato a Roma tra la neonata Confederazione delle corporazioni fasciste e la Confindustria. Questo patto sanciva il riconoscimento esclusivo delle corporazioni fasciste come unici rappresentanti legittimi dei lavoratori, decretando, di fatto, la fine dei sindacati liberi. Contestualmente, furono abolite le Commissioni interne, storici organismi di rappresentanza nei luoghi di lavoro.
Nel 1926, il quadro normativo fu completato con l’approvazione della legge istitutiva del sindacato unico obbligatorio, che privava definitivamente i lavoratori di ogni forma di autonomia organizzativa. Iniziava così un lungo e doloroso periodo di subordinazione del movimento sindacale al regime fascista, che sarebbe durato fino alla Resistenza e alla Liberazione.
Solo nel maggio 1945, a guerra terminata, la Camera del Lavoro di Valenza poté riprendere la propria attività, ricostruendosi faticosamente sotto l’egida del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN). Questo avvenne quindi dopo un lungo periodo d’interruzione, non dovuto a una perdita di legittimità o di consenso da parte delle classi lavoratrici, ma piuttosto al regime politico fascista che si era imposto.
L’edificio in via Pellizzari, che un tempo aveva ospitato la Società Operaia di Mutuo Soccorso e poi le Brigate nere fasciste, fu nuovamente riaperto come sede della nuova Camera del Lavoro, l’organizzazione territoriale della CGIL. I promotori di questa rinascita sindacale, persone con passione e prospettive concrete, furono alcuni esponenti del movimento antifascista e del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) valenzano, tra cui Vittorio Ferraris e Giuseppe Balossino. Il comitato interpartitico locale formatosi subito dopo l’armistizio rifletteva la coesistenza di due «resistenze» ideologiche: da un lato quella di matrice occidentale, rappresentata dai cattolici, dagli azionisti e dai liberali, e dall’altra quella di orientamento comunista e socialista, che guardava all’Unione Sovietica – alcuni sono passati dall’elogio di Mussolini a quello di Stalin. Questa duplice anima del movimento antifascista, pur nella sua diversità, convergeva nell’obiettivo comune di ricostruire e riaffermare il ruolo del sindacato e delle organizzazioni dei lavoratori, in contrapposizione al ventennio di repressione e di soffocamento delle libertà sindacali imposto dal regime fascista. La riattivazione della Camera del Lavoro rappresentava pertanto un segno tangibile della rinascita democratica e della volontà di riscatto delle classi popolari, rintronate da vent’anni di dittatura.
Nei primi anni di attività, la Camera del Lavoro di Valenza è guidata dai socialisti De Michelis e Boris, che hanno anche la loro sede di partito all’interno dello stesso edificio, insieme alla cooperativa e a una sala da ballo. Sebbene la loro linea direttiva sia ancora piuttosto informale e casuale, essi cercano di imprimere una certa impronta alla Camera, pur intrecciandosi con le vicende politiche. L’incarico di segretario è affidato a Oscar Angeleri, un giovane e concreto operaio orafo comunista di Valenza, reduce dall’impegno antifascista. Angeleri, con il suo piglio deciso e le sue rapide decisioni, si fa presto notare nella conduzione della C.d.L.
Nella ristretta struttura organizzativa, spiccano le figure inclusive della giovanissima Ilde Bagna e di Luigi Buzio (1915-1996) il quale sostituirà presto Angeleri alla segreteria, mantenendo tale ruolo fino alla scissione del 1949 – sarà poi senatore dello PSDI. In quella circostanza, nuovo segretario diventerà Aldo Emanuelli (1915-1959), un calzaturiero della ditta F.lli Re, che, indiscutibile e indiscusso, guiderà con determinazione ecumenica l’istituzione fino alla prematura scomparsa nel 1959. Durante questo periodo, emergono diverse figure di sindacalisti valenzani in tutto il territorio. Nel 1945, il segretario della Camera del Lavoro provinciale è il comunista di origini valenzane Ercole Ferraris, mentre l’esponente più in vista del socialismo valenzano, Francesco Boris, fa parte della segreteria provinciale della CGIL.
Valenza si conferma come un centro industriale di rilievo, con circa 1.500 lavoratori iscritti al sindacato la maggior parte dei quali appartiene al settore calzaturiero, un’attività produttiva di primaria importanza per l’economia locale. Questa solida base sindacale e la presenza di figure di spicco nel movimento operaio contribuiscono a rafforzare il ruolo e l’influenza della C.d.L. sul territorio.
La realtà valenzana di questi primi anni del dopoguerra è pertanto caratterizzata da una vivace attività politica e sindacale, dalla compresenza di diverse forze politiche e da un intenso e discordante dibattito ideologico rivoluzionario e conservatore. In questo contesto, la somma di distinte traduzioni dottrinali esploderà soprattutto dopo le elezioni e le scissioni del 1948-1949. Molti lavoratori valenzani mostrano ben presto una posizione chiara e senza ambiguità, appartenendo contemporaneamente alla Camera del Lavoro e, soprattutto, ai partiti politici di sinistra, senza che vi sia alcuna collisione tra militanza di partito e sindacale. Questa situazione riflette la forza e la capacità di mobilitazione del movimento operaio locale, guidato per lo più dal gruppo socialcomunista, con nuovi partigiani a scoppio ritardato e con un abbondante armamentario antiamericano e antipadronale.
Nell’estate del 1946, questo movimento promuove una dura battaglia su alcune rivendicazioni di respiro nazionale, come il blocco dei licenziamenti, la ricostruzione post-bellica e l’aumento della produttività.
In parallelo a questa vivace attività politica e sindacale, il 20 giugno 1945 nasce l’Associazione Orafa Valenzana, un’organizzazione imprenditoriale composta inizialmente da circa 150 aziende del settore orafo locale. Quest’associazione si pone l’obiettivo di tutelare e promuovere lo sviluppo delle imprese orafe della città, rivestendo un ruolo essenziale per questo importante comparto produttivo.
Questo quadro multiforme e complesso, fatto di conflitti e di sinergie tra diverse forze sociali e politiche con comizi, scioperi e demonizzazioni delle controparti, caratterizza il panorama valenzano negli anni iniziali del secondo dopoguerra, in cui si delineano gli scenari futuri del movimento operaio e dell’apparato produttivo locale.
Le rivendicazioni sollevate in questo periodo, che brandiscono i lumi del Settecento come surrogato della piazza, sembrano, tuttavia, avere uno scopo principalmente strumentale, mirate più a creare un clima di malcontento generale che a reali problemi occupazionali o salariali e per questo sono ridicolizzate con un ghigno di supremazia da tanti imprenditori, che leggono la realtà solo con le lenti dei vantaggi economici con tendenza al dispotismo e all’antagonismo tra capitale e lavoro.
Sebbene sia vero che nel settore orafo di Valenza ci siano state alcune criticità in passato, la situazione appare decisamente migliorata. I dati mostrano come i livelli occupazionali e retributivi siano in costante crescita, ben sopra le medie nazionali, confermando il buon andamento del comparto e il solido stato di salute delle aziende locali. Ovviamente non mancano alcune sacche d’irregolarità, soprattutto per quanto riguarda gli oneri contributivi e fiscali in alcuni laboratori artigianali, ma nel complesso il quadro è positivo.
Allo stesso modo, anche il settore calzaturificio, altro cardine dell’economia valenzana, sta vivendo una fase di rilancio dopo il periodo difficile legato al conflitto. Certo, il ritmo di crescita non è ancora paragonabile a quello dell’oreficeria, ma l’impegno del movimento sindacale in questa filiera appare certamente più incisivo e partecipato rispetto ad altri comparti. Basti pensare all’elezione della commissione interna della Lega CGIL valenzana delle calzature, avvenuta nel maggio 1946, in cui il candidato Emanuelli è il più votato, diventando segretario della lega. Questo testimonia la vivacità del sindacalismo in questo settore e la capacità di rappresentare adeguatamente le domande dei lavoratori.
Insomma, pur non nascondendo alcune criticità residue con la coazione a ripetersi, il quadro complessivo dell’economia valenzana sembra essere notevolmente in ripresa, con una dinamica occupazionale e retributiva positiva, soprattutto nel settore trainante dell’oreficeria. Le rivendicazioni sindacali, spesso asservite ad altri scopi – guardano a sinistra, da tutti i punti di vista – non paiono quindi trovare pieno riscontro nella reale situazione del territorio, che mostra invece segnali incoraggianti di ripresa e sviluppo.
Nonostante non si avverta particolari difficoltà occupazionali, i calzaturieri di Valenza riescono a portare a termine con successo una serie di scioperi tra settembre e dicembre del 1946, finalizzati all’ottenimento di aumenti salariali e al miglioramento delle condizioni di lavoro. Decisivo è il sostegno fornito dal sindacato locale, il quale riesce a coinvolgere nella mobilitazione quasi la totalità dei lavoratori del settore.
Nei primi mesi del 1947, in occasione delle nuove elezioni per le leghe sindacali locali, viene adottato il criterio della rappresentanza politica, un guazzabuglio ideologico che suona di vagamente surreale e vistoso con parecchio strabismo o sceneggiata. Sono così presentate liste elettorali in contrapposizione, divise su tutto, ma unite soltanto dall’incapacità di camminare insieme, d’ispirazione comunista, socialista e democristiana. Ai seggi si recano complessivamente 1.238 iscritti, il cui voto si riparte nel modo seguente: per il settore orafi, il PCI ottiene 186 voti, il PSI 167 e la DC 64; nell’ambito dell’agricoltura, il PCI conquista 207 preferenze, il PSI 206 e la DC solamente 5; infine, per quanto riguarda gli enti locali, il PCI raccoglie 29 voti, il PSI 53 e la DC 36. Vi sono inoltre altri risultati minori in altre categorie professionali.
Questa tornata elettorale segna dunque l’affermazione di una netta divisione politica all’interno del movimento sindacale locale con la fine di una storia d’amore (istituzionale) mai nata e una transumanza verso altri pascoli di tanti accoliti, che trova la più manifesta conferma nelle principali forze politiche presenti nel panorama italiano del dopoguerra. “Alea Iacta Est”.