La storia del cimitero-camposanto di Valenza
Un nuovo approfondimento del professor Maggiora
VALENZA – L’antico cimitero di Valenza si trovava nel cuore della città, nelle immediate vicinanze della piccola chiesa di San Pietro attigua al Duomo. Sebbene non particolarmente vasto, il camposanto era comunque sufficiente ad accogliere le numerose sepolture, dovute sia alle guarnigioni militari stanziate in zona, sia alle frequenti epidemie che flagellavano la popolazione in quei tempi. Tuttavia, solo coloro che potevano permetterselo ottenevano di essere seppelliti all’interno della chiesa di San Francesco o in terra consacrata (per la vicinanza delle salme alle icone e alle reliquie dei santi e dei martiri).
Verso la fine del XVIII secolo, Simone Cordara Pellizzari aveva fatto costruire il suo maestoso palazzo accanto alla piccola chiesa di San Pietro e alla parrocchiale. Evidentemente, la vicinanza del cimitero non doveva essere gradita al facoltoso proprietario, tanto che nell’adunanza del Consiglio Comunale del 22 aprile 1794, egli propose di farlo trasportare altrove a sue spese, chiedendo in cambio il terreno confinante del vecchio camposanto. Sembra che in quell’occasione la proposta non sia stata discussa né approvata. Tuttavia, il fatto non può essere confuso con un atteggiamento rinunciatario poiché, quattro anni dopo, il Pellizzari inviava al Regio Senato una supplica in cui sottolineava come il cimitero, essendo situato nelle immediate vicinanze della piazza pubblica, fosse “dannoso ai vicini per il fetore” e, pertanto, dovesse essere trasferito fuori dalla città, in ottemperanza alle Regie Patenti e al manifesto del Senato del 25 novembre e 11 dicembre 1777.
Per il Comune la realtà era ben differente. Farneticando una replica, si affannava invece a dichiarare: «Il cimitero si trova in una posizione molto vantaggiosa dal punto di vista della salubrità dell’aria. Essendo situato su un’altura, gode di una ventilazione ottimale grazie alla presenza della torre del Duomo nelle immediate vicinanze. Questa torre, essendo soggetta a quasi continui venti, funge da efficace ventilatore naturale, muovendo e agitando costantemente l’atmosfera circostante. Questo movimento dell’aria contribuisce a dissipare rapidamente qualsiasi possibile esalazione proveniente dal cimitero, mantenendo così un ricambio d’aria continuo e salutare. Pertanto, non vi sono validi motivi per temere la diffusione d’infezioni a causa della posizione del cimitero e di essere in grado di fornire adeguate attestazioni e perizie di esperti medici, le quali dimostrano che negli ultimi cinquant’anni non si è mai verificata alcuna malattia epidemica in cui possa essere sospettata una qualche responsabilità dell’aria proveniente dal cimitero. Anzi, si può affermare che le case più vicine al cimitero hanno spesso registrato un minor numero di malati rispetto ad altre zone della città. Inoltre, il cimitero esiste nel medesimo sito da secoli, senza mai aver causato alcun effetto negativo sulla salute pubblica. Per di più, vi è la possibilità di provare che nelle abitazioni prossime al cimitero si è registrato, da tempo immemorabile, un numero proporzionalmente maggiore di persone longeve rispetto ad altre aree della città. Ciò sarebbe un’ulteriore conferma della salubrità dell’aria in quella zona, favorendo il raggiungimento di una vecchiaia avanzata».
Successivamente, constatando la mancanza di fondi necessari per il trasporto delle ossa e la ricollocazione del cimitero, il Consiglio comunale decise di cercare nuovamente un accordo con il Pellizzari in conformità con la proposta da lui presentata nel 1794. Così, il 21 maggio 1798, il Pellizzari espose nuovamente alcune sue precise disponibilità. Egli s’impegnava a provvedere a sue spese per un sito più ampio dell’attuale cimitero, posizionato fuori dalla città, e a farlo circondare da un muro di altezza e spessore sufficienti. Questo nuovo luogo di sepoltura doveva però essere di gradimento non solo della città, ma anche del «Reverendissimo Capitolo». Si assumeva pure la responsabilità della manutenzione del nuovo cimitero, come già espresso nella precedente proposta del 22 aprile 1794. Si impegnava a far eseguire a sue totali spese il trasporto delle ossa e della terra dal vecchio al nuovo cimitero. Inoltre, si offriva di costruire, a sue spese, un sito all’interno della città, attiguo alla chiesa parrocchiale, dove poter collocare temporaneamente i cadaveri prima della sepoltura. Infine, accettava che il valore capitale del fondo da sostituire fosse trasferito nell’area del vecchio cimitero, in modo che il Pubblico non subisse alcun pregiudizio dai nuovi carichi.
Il Consiglio comunale accolse con favore queste proposte, ritenendole vantaggiose per la comunità, ma aggiunse «essere indispensabile che il Cordara Pellizzari si prenda l’obbligo del trasporto giornaliero dei cadaveri al nuovo cimitero» e dichiarò che Il Comune di Valenza, responsabile di pagare per i servizi funebri, deve anche assicurarsi di fornire un luogo apposito per la sepoltura dei cadaveri, nel caso in cui la città si trovasse a essere assediata. Questa era una disposizione importante, soprattutto in tempi di conflitti e difficoltà, quando la gestione dei resti dei caduti diventava una questione cruciale: «Si deve preparare adeguatamente il tutto, individuando il sito idoneo e organizzando tutte le procedure necessarie, in modo da poter far fronte a questo evento in maniera efficiente e rispettosa». La previsione di tali misure di emergenza dimostra la lungimiranza delle autorità cittadine dell’epoca, consapevoli dell’importanza di tutelare la dignità dei propri abitanti anche nelle circostanze estreme.
In conclusione, però, si assicurava che la posizione strategica del cimitero, la sua lunga storia senza alcun impatto negativo sulla salute, e l’eventuale maggiore longevità delle persone residenti nelle sue vicinanze, dimostrava chiaramente l’infondatezza delle preoccupazioni del Pellizzari riguardo alla presunta insalubrità dell’aria in quella zona.
Anche illustri membri della Congregazione affermavano che il vecchio cimitero non solo non era di alcun danno, ma anzi doveva essere temuto il pericolo che potesse divenirlo lo spostare la terra del medesimo per trasportarla altrove. E ciò oltre ad altri riflessi che, all’occorrenza, si riservavano di rilevare con ulteriore attenzione e ponderazione.
Nonostante tutti questi attenti e prudenti “riflessi” da parte della Congregazione, che non sembrano essere servite a granché, il governo insisteva ostinatamente nel voler il trasporto del cimitero. Così il Comune, negli ultimi mesi del 1798, deliberava di acquisire un ampio campo che la Commenda Gerosolimitana di San Giovanni in Ripa possedeva fuori di Porta Alessandria, allo scopo di impiantarvi il nuovo camposanto. Tuttavia, forse a causa dei gravi avvenimenti politici di quel travagliato periodo storico, nulla di concreto fu fatto fino al 1804.
In quell’anno, per effetto delle nuove leggi emanate dal governo francese, furono ripresi i negoziati col Pellizzari, che continuarono senza sosta fino al 1806 come una palese tautologia. Fu in quest’ultima data che, finalmente, a seguito dell’abbattimento delle fortificazioni, fu individuata un’ampia spianata fuori di Porta Bassignana e non troppo distante dalla città, ben separata dall’abitato dal vallone che conduce le acque verso il fiume; la proprietà era di Vincenzo Merlani che il governo ottenne per cederla al Comune. Quest’ultimo vi fece quindi trasportare il vecchio cimitero, realizzando così il tanto agognato progetto di spostamento in auge da tempo.
Decisivo fu l’editto napoleonico di Saint Cloud del 12 giugno 1804 – applicato in Italia dal 1806 e ben noto grazie Dei Sepolcri di Foscolo – che ordinava tassativamente, per motivi igienici, che i morti fossero seppelliti in un luogo un po’ distante dalla città o dal borgo. Grazie ai governanti francesi, tentati più dall’oblio che dal ricordo e con la pretesa di correggere i sentimenti personali, nasceva così il camposanto lontano dalle abitazioni della gente, una nuova collocazione che non lo rendeva più un luogo pernicioso e solo moderatamente rispettoso del sacro culto dei morti.
Ben presto, in modo frettoloso, si procedeva al trasferimento delle salme dal precedente luogo prospiciente la chiesetta di San Pietro al nuovo cimitero consacrato che aveva una recinzione in muratura dal robusto cancello di ferro e una forma d’insieme che ricordava la pianta di una chiesa. Le botole delle sepolture nelle chiese erano sigillate e le confraternite laicali diffidate a non seppellire più alcun cadavere.
Con la caduta del regime napoleonico emergeva un risentimento generale già maturato nel vecchio clima e finiva il grottesco divieto di personalizzare tombe e lapidi e i pregiudizi al riguardo. L’emergente classe borghese valenzana, che non aveva cappelle gentilizie e che in buona parte era ammantata di finta e contraddittoria umiltà cristiana, spingeva il potere locale a concederle la libertà di realizzare edicole funerarie. Alcuni nobili proprietari di cappelle gentilizie rurali o possessori di chiese o cappelle fuori dell’abitato cittadino avevano sempre tumulato i membri della propria famiglia in quei luoghi, contribuendo a incoraggiare certe insinuazioni e rancori popolari.
In poco tempo il cimitero valenzano si trasforma così in un guarnito parco sentimentale, in un’oasi di pace e tranquillità, in un nuovo spazio sacro della memoria familiare e collettiva, in un museo a cielo aperto pieno di ricordi intimi: la “corrispondenza d’amorosi sensi”.
I valenzani lo visitano, portano fiori, accendono lumini sulle tombe, accarezzano furtivamente le lapidi, partecipano al rito di congedo dai loro cari, che siano parenti, conoscenti o personalità della città. Nel giorno della commemorazione dei defunti il cimitero si popola smisuratamente, anche se siamo in un’epoca di liberalismo e anticlericalismo la celebrazione è entrata nel bagaglio culturale di una buona parte della classe dirigente locale post-unitaria. Ormai, anche per loro, il camposanto resta un luogo reverenziale di osservazione raccolta e sentimentale. Le inumazioni e le tumulazioni nel decennio 1830-1840 sono quasi tremila.
A fine Ottocento, tuttavia, l’area meno nobiliare e quella delle fosse comuni di questo cimitero, gestita in modo disordinato, sono in buona parte in uno stato di abbandono e, a causa dell’eccedenza di salme, è ormai insufficiente al suo scopo. Per questo motivo nel 1893 la giunta comunale (sindaco Vincenzo Ceriana, 1892-1897), con toni aulici, delibera l’ampliamento del cimitero con l’aggiunta di una superficie uguale al primo nucleo cimiteriale e, a cavallo del secolo, si svolgono i lavori di scavo e di trasporto della terra; la ditta Giuseppe Vaccario si è aggiudicata l’incarico per 50 centesimi al metro quadro. I lavori in corso svolti da imprese diverse (Visca, Cordara e altri), danno vita a certi contenziosi difficili da sbrogliare, che rallentano il cantiere più di una volta (sindaco Ferdinando Abbiati, 1897-1905).
Con una serie di regole, divieti e qualche insulsa e fastidiosa costrizione che sarà, però, poco rispettata, viene stabilito che non si può collocare più di un cadavere nella medesima fossa, fatta eccezione per due gemelli o un bambino morto con la madre; che l’ingresso è vietato ai ragazzi non accompagnati dai genitori, agli animali e agli ubriachi. Le sepolture possono essere a cielo scoperto, isolate o contro il muro, oppure in forma di cappella; a inizio ‘900 ne sono già costruite una decina nel nuovo cimitero. L’acquisto è stabilito da un contratto con il Comune per un costo di 550 lire (circa 3.000 euro di oggi) ogni 11 metri quadri di superficie.
Nel prosieguo, la morte diventa sempre di più un business redditizio che rinuncia alla dignità e all’umana pietà. Al custode spetta la pulizia dei campi e della strada del cimitero, il controllo sull’operato del becchino o sotterratore e degli inservienti ed è il garante dell’applicazione del regolamento. Nel 1884 il custode del cimitero era un certo Francesco Ricci, che 40 anni dopo è stato sostituito per concorso dal figlio Vittorio (già secondo becchino), in modo controverso ma coerente.
Con conferme e disdette, nel Novecento ci saranno lavori di ogni genere; ampliamenti, ristrutturazioni, nuovi padiglioni con costruzioni a più piani di loculi fuori terra e imponenti costruzioni private, cappelle mortuarie osservate con sempre più disgusto da chi non se le può permettere: questo posto pubblico per il riposo eterno diventa sempre meno austero e meno sobrio.
È contro il muro di cinta del cimitero che il 12 settembre 1944 si è compiuto il tragico eccidio della Banda Lenti.
In tempi recenti, purtroppo, si è assistito a un generale deterioramento e a una profonda mancanza di rispetto nei confronti di questo importante luogo cittadino. Tali fenomeni sono stati spesso minimizzati o persino occultati attraverso discorsi opportunistici e superficiali, pronunciati a intermittenza dalle autorità competenti. Scontri e riconciliazioni tra loro ne hanno sfregiata l’epopea.
Ormai, i valenzani, un tempo noti per il loro senso civico e il rispetto per la tradizione, sembrano quasi aver perso la capacità di stupirsi di fronte a questa situazione. Nonostante ciò, non sono mai riusciti a organizzare una contestazione determinata e coesa che affrontasse questo problema nella sua interezza.
È innegabile che negli ultimi anni l’atteggiamento dell’uomo di fronte alla morte sia cambiato in modo radicale. La morte è diventata sempre più silenziosa e priva di rituali, come dimostrato dalla diffusione crescente della cremazione. Questa tendenza ha portato a una svalorizzazione di questo impianto sepolcrale, che per più di due secoli è stato il principale punto di riferimento per ritrovare le tracce del passato della città.
In questo contesto, il cimitero potrebbe anche rappresentare un luogo di riflessione sul valore e sulla durata dell’amore. Esso ci invita a chiederci se il nostro affetto per gli altri resista solo finché ci sono utili, oppure se possa andare oltre la loro scomparsa fisica. Questo interrogativo esistenziale assume un’importanza ancora maggiore in un’epoca in cui la morte sembra perdere la sua solennità e la sua carica emotiva. Si avverte che la vita ha meno senso, meno sicurezze e meno legami, una deriva difficilmente arginabile.
Il deterioramento del cimitero valenzano, dunque, non è solo un problema di decoro urbano, ma anche un sintomo di un più ampio cambiamento culturale che riguarda il nostro rapporto con la morte e con i legami che ci uniscono agli altri.
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