La vita di strada a Valenza nel primo Novecento
Un nuovo approfondimento a cura del professor Maggiora
VALENZA – Nel primo Novecento le strade di Valenza non erano ancora asfaltate, e solo quelle del centro cittadino avevano il privilegio di essere lastricate di ciottoli. Nonostante la polvere sollevata dai numerosi cavalli da tiro che transitavano, la gente, con sani umori stagionali, amava trascorrere le serate estive sulle panchine dei viali alberati, oppure seduta «’n sa’l cadreghi ‘d paja» nei piccoli cortili, all’ombra fresca dei fichi e delle piacevolmente fredde case a un solo piano, dove le parole erano tante e i fatti radi, dove la gente era quasi a disagio con le buone maniere: uno scenario completamente inverosimile ai giorni nostri.
Erano anni men che mai monotoni, toccati in sorte carichi di contraddizioni ma non ancora soffocati dalla burocrazia, eppure sono ormai per lo più relegati a ricordi scoloriti. La bicicletta era ancora un bene di lusso, e le passeggiate si compivano a piedi, godendo della brezza umida e fresca che saliva dal fiume Po, carica di profumi di terra e di erbe.
Nelle prime ore del mattino, la strada era dominata dai tipici personaggi del luogo che proteggevano i loro affari. Passava il «pe-sé», il venditore quotidiano di pesce fresco pescato durante la notte, annunciando il suo arrivo con i suoi inconfondibili richiami. Più raro era «l’spasacamì» (spazzacamino), il terrore dei bambini indisciplinati, mentre era una presenza comune «l’anciué», l’elegante venditore di acciughe in salamoia, il celebre baccalà e altre specialità (olive, sottoli, sottaceti, ecc.), sempre impeccabile nel suo abito di velluto e con il cappello piumato. Nel suo caso, non servivano particolari segnali sonori per attirare l’attenzione, poiché era sufficiente il suo inconfondibile aroma. Forse è proprio per questo motivo a Valenza si usava definire «anciué» (acciugaio) chiunque mostrasse un’eleganza soltanto superficiale, priva di sostanza. Era poi il turno della venditrice di soda e sapone.
Nelle calde mattinate estive, le vie della città si animavano anche con le ultime novità in fatto di abbigliamento maschile e finanche un cinese onirico, dalle grandi cravatte sgargianti, girava tutti i cortili con le ultime novità praticando la vendita con una certa nobiltà di modi. Non c’erano invece troppe affettuosità tra questi trafficanti concorrenti, non si usava tra questa povera gente che doveva lavorare molto avendo tanti incomodi e ambiguità.
Il triciclo del venditore di ghiaccio, prelevato dal «masatori», segnalava l’arrivo dei pani di ghiaccio, segati a misura sul momento. Questi incredibili «giasarì», sempre pieni d’acqua a causa della progressiva liquefazione del ghiaccio, offrivano un sollievo rinfrescante alla popolazione locale.
Mentre il sole raggiungeva il suo apice a mezzogiorno, non era raro assistere negli angusti cortili allo spettacolo di qualche musicista di strada, accompagnato dall’inconfondibile suono dell’organetto a manovella o con altri guizzi di fantasia. Le loro canzoni più strazianti, presentate come cantiche amare, che in un certo periodo raccontavano invece le gesta della guerra d’Etiopia, riecheggiavano anche tra le mura domestiche, commuovendo i passanti che generosamente depositavano qualche moneta nel cappello-cassa. Uno tra i più noti di loro si esibiva regolarmente con la sua scimmietta vestita di rosso e turbante.
Nel pomeriggio, il familiare suono del corno di ottone annunciava l’arrivo del triciclo del gelataio, dalle forme sinuose come la prua di una gondola. Quando il venditore apriva il suo scrigno refrigerato, una nuvola di condensazione fresca segnalava l’arrivo del tanto anelato oggetto del desiderio dei bambini. Non si poteva dimenticare il venditore di «siras» (ricotta), che conservava il suo prezioso prodotto avvolto in foglie, come un fiore. Il suo grido di richiamo, «siras!, sirass!», riecheggiava nelle strade, invitando i passanti a gustare quella deliziosa specialità locale.
Questi erano i momenti che punteggiavano le giornate dei valenzani, dove il suono, il profumo e il colore univano la comunità, creando un’atmosfera di gioia e di genuina convivialità. Dove coesistevano diverse erudizioni, senza che l’una sopprimesse l’altra.
In quel passato, la «carretta del magrò» era una specie di carretto trainato da un cavallo, che veniva utilizzato per svuotare e pulire le fosse biologiche e le latrine. Questo barroccio aveva sempre una lanterna accesa, un tentativo di mitigare il terribile odore nauseabondo, fino allo ribrezzo assoluto, che emanava durante il suo lavoro. Era un compito sgradevole ma necessario, poiché in quel periodo non esistevano ancora sistemi di smaltimento dei reflui più moderni e igienici. Nonostante il suo aspetto semplice e l’odore sgradevole, la «carretta del magrò» svolgeva un ruolo essenziale per garantire l’igiene e la salubrità delle abitazioni. Poi questa attività sarà svolta in modo più efficiente e meno impattante attraverso il «servizio spurgo pozzi neri», che utilizzerà mezzi e tecnologie più avanzate.
La festa di San Giacomo era un evento molto atteso a Valenza. Durante quei giorni di festa, la città si animava con numerose attrazioni e attività tradizionali. La fiera del bestiame era uno degli eventi principali, dove i contadini e gli allevatori del circondario potevano vendere e scambiare il loro bestiame. Ma senza dubbio, le giostre erano la vera attrazione per grandi e piccini. I «gabbioni» e «la giostra di pentalcù» offrivano un brivido di adrenalina a chi osava salire sulle loro piattaforme in movimento. Accanto alle giostre, non mancavano i classici baracconi del tiro a segno, con i fucili a tappi, dove si poteva mettere alla prova la propria mira. E per dissetarsi, c’era il banco delle angurie fresche, pronte a rinfrescare i visitatori in quelle giornate estive.
La festa non era solo divertimento e svago, c’era anche spazio per la musica e il ballo. Il «bal à palcat», con la sua orchestra di fisarmoniche, attirava i giovani valenzani più intraprendenti, che vedevano in quella occasione un’opportunità per fare nuovi incontri e conquiste amorose. Insomma, la festa di San Giacomo rappresentava un momento di gioia e spensieratezza per l’intera comunità, quando le strade non erano ancora asfaltate, il traffico automobilistico non era un problema da affrontare e il fascismo era il convitato di pietra.
Purtroppo, queste attività e tradizioni sono ormai scomparse da qualche tempo, lasciate indietro dal progresso e dalla modernità. Il ricordo di quei giorni di festa era ancora vivo nella memoria dei nostrani del secondo Novecento, come un pezzo di storia e d’identità della loro città. Oggi, per i molti sussiegosi, è quasi storia antica consunta. Ma conoscere è ricordare diceva Platone.