L’epidemia di spagnola a Valenza
Un nuovo approfondimento sulla storia della Città del Gioiello
VALENZA – La pandemia influenzale denominata impropriamente “spagnola” fu causata da un virus influenzale chiamato H1N1. Fu la Spagna la prima a dare notizia dell’influenza, ma tutti i ricercatori sono d’accordo sul fatto che la pandemia sia stata portata in Europa dai soldati statunitensi.
Essa fu una delle più devastanti pandemie della storia dell’umanità per numero di contagiati e di morti. Contagiò circa un terzo della popolazione mondiale, composta da 2 miliardi di persone, facendo tra i 50 e i 100 milioni di morti, con una letalità superiore al 2,5%. Gli italiani vittime dell’epidemia furono circa 600.000, e il numero complessivo di malati oscillò tra i 5 e i 6 milioni. A Valenza, i malati furono più di un migliaio e le vittime circa 150. Iniziata nel 1918, la spagnola andò poi a esaurirsi nei 2-3 anni seguenti per conseguita immunità di gregge.
Nelle prime fasi del contagio, il diffondersi della spagnola fu probabilmente agevolato dalla Prima guerra mondiale, ancora in corso, raccontando al popolo beatamente il contrario. A Valenza, inizia nel maggio-giugno 1918, si scatena nella tarda estate e, con effetti drammatici, durante l’autunno e l’inverno del 1918-1919, andando avanti con decremento fino ai primi mesi del 1920. Nel gennaio del 1919, quando ebbe inizio una terza ondata, la malattia era ormai meno letale e il tasso di mortalità calò progressivamente. Non c’è stata famiglia valenzana che non sia stata interessata da questa epidemia.
Quando giunse la prima ondata influenzale e la guerra era in corso, ne furono colpite le truppe di entrambi gli schieramenti. Furono circa un migliaio i poveri fanti valenzani strappati alla vita operaia e contadina mandati a soffrire o a morire per Trento e Trieste, in trincee spettrali, tra gas letali e con cariche alla baionetta contro mitragliere impietose che produssero un’inutile strage. Tra i militari valenzani partecipanti ci furono 139 morti (129 nati tra il 1876 e il 1899) e 36 mutilati e invalidi; molti sono stati feriti e altri sono deceduti per le conseguenze delle ferite e per la pandemia.
Quando scoppiò la spagnola, i sentimenti più diffusi tra la popolazione locale furono la costernazione e la paura. Molti la vedevano come una nuova piaga d’Egitto, un castigo apocalittico, la fine del mondo, la punizione divina, come la guerra, per i peccati dell’uomo. Ma molto estesa è anche la rassegnazione a ciò che si ritiene inevitabile. Fu un pericolo che si rilevò quasi più letale e spaventoso del conflitto.
La maggior parte dei valenzani contagiati dal virus guarisce in una settimana, ma alcuni muoiono entro 24 ore dall’infezione. I sintomi della spagnola sono identici a quelli del Covid-19: tosse, febbre alta, mal di testa, dolori muscolari, diarrea, nausea e insufficienza respiratoria. Nella fase acuta, subentrava una patologia simile a quella della polmonite. Gli ammalati sviluppavano rapidamente gravi difficoltà respiratorie e sugli zigomi apparivano macchie scure di colore bluastro dovute alla mancanza di ossigeno (cianosi), che, nel giro di poche ore, si estendevano da un orecchio all’altro. Nei pazienti più gravi, l’insufficienza respiratoria si manifestava acutamente, poiché i polmoni erano invasi dall’essudato, e compariva una febbre altissima. Il malato peggiorava vistosamente e cessava di vivere per soffocamento in poco tempo, dopo essere stato in preda al delirio e aver perso conoscenza.
In un clima tra l’esagitato e il surreale, nessuno era in grado di dare risposte certe. Si percepiva che non era un batterio la causa della malattia, ma, pur sospettandone la natura virale, si brancolava nel buio. L’impotenza era grande, crescente l’inebetimento. Si tentarono terapie con preparati a base di olio di ricino e l’uso vasto e disinvolto di aglio, di tinture di iodio, di acido fenico, l’aspirina, il chinino, la canfora, la cannella, il salvarsan, il bicarbonato di sodio o il citrato di sodio, ma tutte risultarono vane.
Nel clima di disperata ricerca di una terapia risolutiva, pullulavano messaggi ingannevoli su presunti rimedi efficaci, che andavano da pillole per la tosse, a disinfettanti di ogni tipo, fino a clisteri con olio di ricino. Dalle colonne del Popolo d’Italia, Benito Mussolini invitava a impedire “a ogni italiano la sudicia abitudine di stringere la mano e la pandemia scomparirà nel corso di una notte”.
Come sempre, i soggetti fragili con malattie rilevanti (tubercolosi, malattie di cuore, ecc.), erano più predisposti a un’evoluzione infausta della spagnola, ed erano spesso abbandonati. L’impressione generale era che il sesso femminile fosse più colpito rispetto a quello maschile e non si sapeva rispondere a un’altra evidenza: la malattia risparmiava gli anziani o li colpiva in modo meno grave, mentre si accaniva sui giovani. Il tasso di mortalità più elevato si registrò, infatti, tra gli individui di età compresa tra i 20 e i 40 anni e il 99% dei decessi si verificò tra persone con meno di 65 anni.
Furono consigliate alcune precauzioni sanitarie palesi molto simili, se non identiche, a quelle che sono state adottate recentemente per il Covid-19: uso delle mascherine, coprifuoco serale, evitare contatti ravvicinati (oggi si chiama “distanziamento sociale”), evitare di viaggiare sui treni se non strettamente necessario, non salutarsi con strette di mano, stare il più possibile all’aria aperta, evitare di recarsi in ospedale o in altri luoghi che ospitano i malati, disinfettarsi le mani prima di mangiare, fare sciacqui alla bocca e gargarismi con acqua e tintura di iodio mattina e sera e lavare il pavimento con disinfettanti. Non mancano tentativi di esorcismi e di banali vaneggiamenti tra profeti di sciagura.
Anche in duomo il parroco monsignor Giuseppe Pagella, seguito dal suo vice don Giovanni Grassi più avanti parroco e monsignore, adottarono misure emergenziali nelle cerimonie e nei funerali. Soprattutto, brancolando nel buio dei rimedi, si preoccuparono delle anime nelle corsie dell’ospedale e all’ospedalino.
Nei piccoli laboratori orafi, la vicinanza nei banchi di lavoro favoriva la diffusione del contagio, che però era in parte rimosso dall’utilizzo di certe sostanze (acidi e composti vari) e dalle fiamme utilizzate per la saldatura e la fusione, letali per il virus. La resistenza alla diffusione era più debole nei calzaturifici e nella filanda, dove abbondava la manodopera femminile.
Nell’ospedale Mauriziano in via Pellizzari, diretto dal cav. Bollo, sovraffollato e particolarmente inadeguato per una pandemia, s’intrapresero iniziative per l’igiene degli ambienti e la disinfezione della biancheria dei malati, vennero acquistati numerosi strumenti medicali, furono aperti nuovi spazi dedicati a questi malati e s’introdussero regole e modalità specifiche riguardanti le visite ai malati da parte del pubblico.
Medici e infermieri furono tra le categorie più colpite dalla spagnola, pagando a caro prezzo l’impegno a favore dei contagiati, come accaduto anche durante la prima ondata di Covid-19. Per indicare le cause dei decessi, pochissime volte fu scritto “febbre spagnola o spagnuola”; qualche volta “febbre endemica”, più spesso “broncopolmonite” o “edema bronchiale”.
All’ospedalino, con elevato dovere morale e umanitario, le cordiali nove suore, restate per sempre nei ricordi, assistettero senza sosta gli anziani contagiati. Molti contadini locali non fecero mancare all’ospizio uova fresche, latte appena munto, verdure e frutta di stagione, L’intervento pubblico era finanziariamente fuori portata, ma furono molte le offerte provenienti dai privati, dimostrando una marcata sensibilità dei valenzani per anziani e non autosufficienti. Molti ospiti vestivano secondo le donazioni ricevute.
Nel 1918, il medico valenzano Vincenzo Gandini, tornato alla sua funzione di ufficiale sanitario nella sua città, sostenne la grande battaglia contro l’evento pandemico, meritandosi un encomio.
Accanto a una certa classe medica che osservava e aspettava, anche quella politica fu spesso bersaglio dello scontento popolare dei valenzani durante l’epidemia, a causa di certe narrazioni sanitarie formali che, mentre erano proposte, diventavano fonte di dubbio per gli stessi che le proponevano e avevano il solo effetto di accentuare il terrore e lo scontro sociale, confezionando anche la fuga dalle responsabilità e il rimpallo delle attribuzioni.
L’entusiasmo dei valenzani per la vittoria militare e per la scomparsa della terribile spagnola si dissolse presto, mentre i malumori, la lotta sociale, i contrasti politici-sindacali, le agitazioni e gli scioperi divennero sempre più numerosi. Gli ingredienti furono sempre gli stessi: aumenti salariali e riduzione dell’orario di lavoro, forte enfasi e tanta arroganza politica. Il diffuso benessere locale dovuto al rilevante sviluppo industriale dell’oreficeria e delle calzature, in contrasto con il resto del Paese, in altri luoghi avrebbe probabilmente smorzato tante velleità ribelli, rendendo assurda e anacronistica la propaganda e l’azione della politica più irruente. A Valenza, invece, per quanto possa sembrare paradossale, questa propaganda e quest’azione, per di più permeate di accenti radicali ed emergenziali, trovarono vasto consenso popolare, tanto da caratterizzare l’indirizzo politico della città nel Primo Dopoguerra e assicurare un’amministrazione comunale socialista fino al 1921: sindaci della città sono Luciano Oliva, dal 1911, e, dopo le elezioni del settembre 1920, Giuseppe Marchese, quasi per caso, nell’instabilità crescente e in una situazione di debolezza estrema. Poi, rapidamente, la realtà non farà sconti a certe utopie.
La rimozione generale ha presto cancellato il ricordo comune della terribile spagnola, che, però, abbiamo dovuto riesumare durante questi ultimi anni horror trascorsi in compagnia – assai indesiderata – del Covid-19. Ma gli esseri umani non possono imparare da certi propri penosi errori, altrimenti sarebbero dèi.