“Il muro che Basaglia voleva abbattere tra sani e folli resiste”
Il 13 maggio 1978 entrava in vigore la Legge che cambiava il mondo della psichiatria. La testimonianza di Anna Pacchioni e Patrizia Santinon
ALESSANDRIA – Il 13 maggio 1978 entrava in vigore la Legge Basaglia. Ha i miei stessi anni e l’incontro con i Matti da slegare, film documentario del 1975 di Bellocchio, Agosti, Rulli e Petraglia. L’istituzione negata ha profondamente segnato lo sguardo della nostra generazione sull’altro e anche una decisa assunzione di responsabilità individuale e sociale.
Mi torna in mano un libro dell’aprile 2022, “Altro nulla da segnalare” di Francesca Valente, testo che ha vinto all’unanimità il Premio Italo Calvino 2021. “Un testo corale che incrocia storie di pazienti, psichiatri, infermieri di uno dei primi reparti aperti di un grande ospedale italiano” come si legge in copertina.
“Altro nulla da segnalare” è una nota che ricorre nei “rapportini” che gli infermieri del Spdc dell’Ospedale Mauriziano di Torino compilavano a fine turno perché tutti “fossero a conoscenza di tutti gli accadimenti e le preoccupazioni che riempivano quelle stanze”. Luciano Sorrentino, psichiatra che abbracciò Psichiatria Democratica fino ad entrare nel Direttivo Nazionale, vi lavorò dal 1980 al 1984 per poi spostarsi al centro di salute Mentale di Via Monti.
Basaglia, un lungo percorso
È nella sede del Lungo Dora Savona che lo conobbi, richiedente asilo nel suo Dipartimento di Salute Mentale Franco Basaglia per completare un dottorato sul rapporto tra relazioni intergenerazionali, pratiche transnazionali e costruzioni identitarie di adolescenti e giovani adulti in situazione transculturale. D’altra parte lui, migrante a sua volta di terza generazione in Italia, dal sud al nord, e di seconda generazione in Usa, da Torino al New Jersey, non poteva che accogliere questa domanda con curiosità e apertura.
Sorrentino conservò per trentanni quei quaderni con i rapportini, delizioso diminutivo come quello che ingentiliva il Spdc con il nome di repartino. Ben consapevole del fatto che non avrebbero avuto altra destinazione alternativa al macero: “Dentro quelle pagine c’erano un sacco di storie che aveva conosciuto e un mucchio di storie che ancora gli giravano nella testa. Persone e storie come fantasmi che gli facevano compagnia”. Fu possibile riaprirli solo in presenza di un altro, sufficientemente generoso e distante da quelle storie per poterle ascoltare.
Solo qualche mese fa, nel contesto del master Ccw sul welfare culturale, ho conosciuto Pino Fiumanò, infermiere dell’A.O. Ordine Mauriziano dal 1987. Il cui ruolo di manutentore del gruppo negli anni è stato riconosciuto proprio da una delibera aziendale. Un infermiere dunque che, facendo tutt’altro, dalla rianimazione al teatro sociale e di comunità, esprime perfettamente ciò che oggi noi decidiamo sia cura e cultura.
Un sogno interrotto
Fiumanò ci mostrava il Giardino parlante del Mauriziano con l’albero di ulivo piantato nel periodo pandemico del 2020. “Un albero del quale prenderci cura tutti insieme (perché) noi siamo la terra che abitiamo, siamo gli altri con i quali la condividiamo”, come si legge nel Manifesto del gruppo “salutearte”.
Qui, nel repartino abbandonato da Sorrentino nel 1984 perché gli sembrava tradita la sua visione della salute mentale, chiuso dal marzo 2020 nel corso del Covid e mai più riaperto, è passato Carlo Colnaghi nel modo che all’epoca era consentito agli ospiti. Potevano i pazienti entrare ed uscirvi allenando, una volta dimessi dall’Ospedale psichiatrico, la capacità di stare fuori, con qualche ricaduta, stortura e patimento. Qualche volta con successo.
Così si legge in uno dei rapportini: “Questa sera il signor Pautasso che utilizza il Repartino a suo piacimento come albergo diurno o notturno ha coinvolto tutto il reparto in scene di violenza sino a dover chiamare il 113”.
Carlo Colnaghi, un tempo attore al Piccolo di Milano poi perdutosi nella nebbia della malattia, arriva alla porta dello studio di Daniele Segre, regista alessandrino. E non perché lo manda lo psichiatra, ma perché ci vuol finire lui.
Segre accetta di lavorare con Carlo, anzi è costretto a farlo perché quell’uomo è “un precipitato nella sua testa, gli ronza intorno per settimane”. Daniele accetta di costruire qualcosa con quel “ours mal léché, un orso leccato male, misantropo e maleducato”.
Così Sorrentino parlava di Carlo ai colleghi, cercando di interrogare quel loro fastidio per il paziente, per rivelarne il violento controtrasfert, un preciso affondo per un basagliano puro. Il film Manila Paloma Blanca è nato da un soggetto scritto a due mani, da Daniele Segre e Carlo Colnaghi, in seguito al loro primo incontro avvenuto nel 1983: un lavoro abbastanza lungo, come un’analisi, visto che il film è stato girato solo nel 1992.
La presentazione
Carlo e Luciano, il suo psichiatra, l’hanno presentato a Venezia e poi a New York, insieme. Di questo resta testimonianza in una foto (e questo libro è pieno di foto che sono citate e non si vedono. Come un adattamento a questi tempi di moltiplicazione ed eccesso del patrimonio iconografico in cui verrebbe da chiedersi se l’immenso lavoro di Berengo Gardin avrebbe avuto oggi lo stesso effetto di allora, di denuncia e produzione di scandalo).
Luciano aveva criticato l’organizzazione dei servizi di salute mentale nel New Jersey dove si era trasferito insieme ai genitori e aveva pensato di togliersi dalla lordura di una guerra inutile in Vietnam iscrivendosi a Medicina. Lo ha fatto in Italia, a Torino, città di migrazione dei suoi nonni dove il primo nucleo, la casa del ritorno, era nella periferia oggi cuore della movida torinese, “Porta Palazzo, tenuto come una reliquia impolverata, umile e verde come Itaca”.
La foto del 1993 di cui l’autrice ci parla senza mostrarcela, l’anno di Paloma Blanca a New York, “immortala due uomini che hanno condiviso un lungo periodo e un progetto, e li rende più simili e vicini di quanto si possa immaginare di un dottore e il suo paziente. Forse, di un dottore e i suoi pazienti, tutti, dal primo all’ultimo”.
I medici del manicomiaccio, quelli vecchia maniera prima di Paolo Henry a Torino e di Franco Basaglia a Gorizia, ancora negli anni Sessanta entravano in scena-dell’Ospedale Psichiatrico-come in una lezione di Kraepelin sub specie theatri , inconsapevolmente imprigionati in una parte specifica dello spettacolo offerto dalle loro visite-prestazioni-performance.
La loro parte fissa era quella del medico, sfuggiva loro del tutto quella di narratore complessivo della scena in cui erano coinvolti (l’attore deve anche vedersi per cogliere la sua interazione con gli altri). La follia è per definizione il fuori posto, l’esperienza spostata: essa è fuori, oltre, diversa, aliena (outré , rende il concetto di eccedere fuori, trasgressivo e perturbante). Freud ha dimostrato i limiti della narrazione biografica della clinica psichiatrica e l’insufficienza intrinseca dell’anamnesi tradizionale e dell’apparato osservativo e diagnostico che le corrisponde. Non ci si può fermare all’apparenza clinica quale si può determinare con un esame di superficie mediante gli strumenti semeiologici tradizionali. Oggi questo è ancor più vero.
Indagare i sintomi
In questa prospettiva i sintomi non hanno alcun carattere essenziale, non possono essere a rigore mostrati in modo ostensivo a terzi. Ad esempio agli studenti di Psichiatria nel corso di una lezione senza modificare il quadro stesso dell’osservazione, il campo relazionale implicato.
Così con lo stesso metodo ostensivo, il 7 novembre 1954 il signor Borgese, personaggio citato nel libro di Francesca Valente, poteva condurre la moglie in via Carlo Ignazio Giulio, presso l’Ospedale dei Pazzerelli perché Libera era stata spesso “ghermita dalla malinconia per la vita casalinga che conduceva e che non sembrava darle gioia”.
Dallo stato di agitazione in via Cernaia dove in sottoveste aveva “infastidito diversi uomini esibendosi in un atteggiamento erotico”, era passata al ricovero in camicia in via Giulio e poi a Collegno. Aveva fatto seguito una lobotomia transorbitale, il transito nel 1980 nel repartino del Mauriziano, poi Villa Rosa a Grugliasco e nel 1985 la comunità il Fiordaliso.
I luoghi di cui parliamo sono diventati altro nel tempo, e la loro trasformazione segna il passaggio dal manicomio come hortus conclusus, contrapposto allo spazio della cultura, a luoghi in cui si produce anche con l’arte benessere: via Giulio si riaccende di musica nella porzione che è un Arci, la Cricca. Poco distante c’è lo studio di un analista che, non so se è riuscito a farlo e se si può fare con una valutazione puntuale come quella che determinava l’ingresso in manicomio, avrebbe dovuto decifrare la mia sofferenza perché potessi diventare analista a mia volta.
Fare i compiti con la follia non è solo un compito dello psichiatra ma una questione che investe il gruppo umano in generale.
Come Basaglia dichiarò a Bruno Orsini, che gli indicava la difficoltà a realizzare certe idee: “Solo una società più giusta garantirà una psichiatria più giusta”.
Cos’è la Psichiatria?
Priorità assoluta al problema del potere, dunque alla distruzione del potere psichiatrico e rovesciamento della posizione usuale del clinico come esponente ipersicuro della norma, solidale con il sistema dei poteri costituiti.
Cos’è la Psichiatria?, parafrasi di “Cos’è la letteratura?” di Sartre, comparve nel 1967 con copertina di Hugo Pratt e prefazione del ministro socialista Mariotti, che l’anno prima aveva definito “lager nazisti e bolge dantesche” i manicomi.
In quel testo c’è la fenomenologia, cara a Ennio Piantato, ma anche un riconoscimento del ruolo della comunità terapeutica e del pensiero psicoanalitico.
Mi sembra che il detrimento dei servizi di salute mentale abbia anticipato di un decennio almeno la sorte degli altri servizi che su quel modello straordinario si erano strutturati. Per oscena scarsità di risorse, per disattenzione politica e amministrativa, ma anche per il prevalere di nuove istanze oggettualizzanti e istituzionalizzanti. Alcune conquiste si sono rivelate illusioni, in specie l’idea di liberare completamente la cura dalla contaminazione con l’antico mandato di protezione sociale che è perfettamente rappresentato dalla porta chiusa dei reparti.
Nel libro emerge anche il tradimento originario insito nella 180, che si consumò nel giugno 1999 con la chiusura definitiva degli ex OP di Collegno e Grugliasco, ove ancora risiedevano 524 pazienti: “Non si era tenuto conto di un concetto chiave, cioè della libertà di scelta del paziente. Quello che si verificò allora nel 1999 fu il tradimento di una promessa: un patto tra medici, assistenti e pazienti per il quale il luogo in cui gli ex internati avevano scelto di vivere dopo un lungo e faticoso lavoro di restituzione e di riacquisizione di fiducia in se stessi sarebbe stato la loro casa per sempre: da lì non se ne sarebbero mai andati . La dottoressa Bianca ricorda quell’evento come una deportazione”.
Lo smarrimento
E delle donne di cui l’autrice racconta smarrimento e disperazione, scrive che“ non avevano immaginato neanche per un secondo che a distanza di decine di anni dalla prima volta potesse verificarsi una nuova sparizione della casa, una sottrazione che avrebbe segnato l’ennesima interruzione dell’esistenza, relegando la manciata di anni trascorsi in comunità nello stesso quadro nebbioso di ciò che era stato prima dell’internamento”.
Una piccola storia alessandrina mi appare riprendendo in mano il libro di Luciano, di Tornior, “un camminatore, un contadino, un cacciatore”. Infermiere che lasciò il repartino nel 1984 insieme a Sorrentino per l’avventura costitutiva del Csm di Via Monti, dei tanti uomini e donne che hanno attraversato i diversi muri che hanno preso forma nella storia con le loro storie coraggiose.
Mirna, qualche anno prima di essere ricoverata nel repartino, aveva ricevuto “una lettera di una donna di Alessandria, per lei una sconosciuta, che includeva una fotografia di suo padre. Diceva di essere una professoressa e di essere entrata in possesso di documenti e materiale fotografico che stava usando per una ricerca su Alessandria negli anni dopo la guerra”.
La mamma di Mirna aveva lavorato come infermiera al Teresio Borsalino. “Una struttura circondata da un grande parco verso Valmadonna e l’aveva incontrato lì il suo futuro marito Giuseppe che andò alla guerra. L’ospedale era un sanatorio. Come potesse essere un posto per asmatici o tubercolotici non si capisce, trovandosi ad appena un tratto di parco dal Tanaro. Giuseppe andava a tagliare il prato e taglia l’erba una volta, taglia l’erba due volte, mise incinta Lea”.
Giuseppe, che aveva aiutato i partigiani ospitandoli nell’osteria di proprietà in Santa Maria di Castello, finì riempito di botte e calci e trascinato “dall’altra parte del fiume, dove c’era una struttura in cui i partigiani rinchiudevano i sospetti traditori. Nel tempo trascorso in quella prigione Giuseppe ebbe modo di innamorasi di una collaborazionista, una carogna, l’opinione che Mirna ebbe di lei. Da bambina la detestò, da grande la definì”. E Mirna bambina ha vissuto con una matrigna, donna di una stolta ferocia, autrice di piccole cattiverie che la divertivano, “come mangiare ridacchiando davanti a lei l’ultima fetta biscottata rimasta”.
Il filo rosso
Ecco che in queste settimane abbiamo ripreso ad abitare il giardino: nel giorno di Fili rossi per la pace alla fine del settembre 2023 i pazienti guardavano la performance di Brera consumarsi dalle stanze del repartino. Oggi il filo rosso s’intreccia, si snoda e s’inguaia come fu prima del covid portandoci e portandoli fuori e dentro.
Sono entrata un giorno mentre i colleghi erano fuori in coppie miste di due, pazienti e operatori: siamo spesso roboanti nel portare fuori il disagio nostro e dei nostri pazienti, non siamo né sobri né silenziosi. Pensiamo che uscire fuori sia un modo di combattere la rassegnazione indolente cui ci eravamo abituati, comodamente indovati nella nostra lamentazione per i ricoveri lunghi come internamenti col vuoto intorno. Per le evacuazioni all’interno del reparto chiuso che rispondono ancora a logiche di esclusione.
Pensiamo come Luciano di dover uscire (dal repartino) in tutti i modi che conosciamo per farlo. Tra questi luoghi che immaginiamo e il fuori si disegna una soglia che definisce lo spazio dell’incontro, dell’ascolto, dell’aiuto, della terapia che contrasta il rischio della sottomissione e dell’assoggettamento implicito quando c’è la malattia, la fragilità, il bisogno.
Riporto una ultima nota dei rapportini del 29-5-1980: “La signora Agosta veniva subito riaccompagnata in reparto dalla propietaria (della pensione ove era ospitata) dopo averla prima però portata a votare nella scuola dove ha la residenza, in San Donato: per fortuna dice di aver votato Pci. Altro nulla da segnalare”.
La testimonianza di Anna
Anno 1982, 16 anni: momenti iniziali del primo anno di corso della “Scuola Regionale per Infermieri Professionali”. Il tedio di dover studiare normative e codici è scosso dalla conoscenza di due leggi promulgate pochi anni prima: la 833 e la 180 del 1978.
Insegnanti illuminati ci hanno trasmesso la fierezza con la quale noi avremmo potuto e dovuto contribuire all’attuazione di queste due rivoluzionarie norme: “Nulla sarà più come prima, rimbocchiamoci le maniche, e lavoriamoci su”!
Anno 2024, 58 anni e alle soglie della pensione, dopo gli ultimi 18 anni di servizio prestati in Spdc.
Ricordiamoci da dove siamo partiti:
- LEGGE 13 maggio 1978, n. 180. Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori. Art. 6: Gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione relativi alle malattie mentali sono attuati di norma dai servizi e presidi psichiatrici extra ospedalieri […] I servizi speciali obbligatori negli ospedali generali […] che non devono essere dotati di un numero di posti letto superiore a 15, al fine di garantire la continuità dell’intervento sanitario a tutela della salute mentale, sono organicamente e funzionalmente collegati, in forma dipartimentale, con gli altri servizi e presidi psichiatrici esistenti nel territorio.
- LEGGE 23 dicembre 1978, n. 833. Istituzione del servizio sanitario nazionale. Art. 2, g) la tutela della salute mentale, privilegiando il momento preventivo e inserendo i servizi psichiatrici nei servizi sanitari generali in modo da eliminare ogni forma di discriminazione e disegregazione, pur nella specificità delle misure terapeutiche, e da favorire il recupero ed il reinserimento sociale dei disturbati psichici.
Quel muro ancora tra noi
Con amarezza, mi sento di affermare che il nostro lavoro non è andato propriamente a buon fine. Il muro che Basaglia voleva abbattere tra sani e folli è purtroppo metaforicamente ancora tra noi. Non perdiamo però la motivazione e lo slancio di “rimboccarci le maniche e lavorarci su”.
La realizzazione dell’obiettivo Basagliano di “restituire la soggettività” al malato psichiatrico sta richiedendo più tempo del previsto. Ha percorso e sta percorrendo strade tortuose, ma non dobbiamo permettere che la L. 180 venga oggi spacciata come lontana dalle esigenze del presente.
C’è bisogno di rileggerla, di re-interiorizzarla, di declinarla correttamente, per fare in modo che venga applicata. Per “restituire la soggettività” al malato psichiatrico serve tuttavia la collaborazione di più attori, anche – e soprattutto – al di fuori dell’urgenza dove noi operiamo quotidianamente.
Concretamente, quindi, noi sanitari, imbrigliati come siamo nel contesto lavorativo ospedaliero, cosa possiamo fare? Dobbiamo continuare ad impegnarci per far sì che il luogo di cura sia lo spazio nel quale chi ha un disagio psichico ritorni in grado di riappropriarsi – sia pure magari per il solo tempo di permanenza in reparto – della propria dignità e del proprio status di essere umano. E non si senta “solo un malato psichiatrico”.
Questo sì che è nelle nostre possibilità di azione, lo stiamo facendo e dobbiamo continuare a farlo per non perdere la speranza di un futuro più abitabile per tutti, folli e “sani”.