«Quando la nonna raccontava del giorno più bello: quel 25 aprile»
La riflessione di Max Biglia in occasione della Festa della Liberazione
CASALE – In occasione del 25 aprile, giornata in cui si celebra l’anniversario della Liberazione d’Italia, riceviamo e pubblichiamo integralmente la riflessione del monferrino Max Biglia.
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Apri gli occhi, stammi accanto in questo cammino e fammi tornare per un attimo ai giorni della fantasia, quando la nonna aggiustava il grembiule, si sedeva e indicandomi le stelle raccontava della sua vita, le sue nostalgie, i suoi desideri, della guerra e delle sue fatiche. Raccontava del giorno più bello, quel 25 aprile.
Ogni mia vena era ed è una nave d’amore. Così mi dileguo e ritorno dalle mie membra e da quelle di chi mi riconosce come folle o con un certo risentimento mi vorrebbe ammaestrato ad un sistema cafone e illusorio, mentre io mi sento avventatamente ambizioso, parodistico, talvolta struggente e, un piccolo uomo imperfetto.
Oggi anche io vorrei raccontarvi la mia giornata tipo, che scrivo con le matite colorate, che nella mia vecchia giacca nuova ho una modesta inquietudine e, fino a quando mi sarà concesso, il gusto di osservare le stagioni, la gestualità delle mani, Matilde e la meraviglia di quando spiove, per rinunciare alla perfezione.
E ancora, un abbraccio caldo, umano, un foglio bianco per scrivere e questa ricreazione per annunciare che come “ultimo cittadino sono il migliore”, esercizio che va tanto di moda. Uno di voi insomma, con la solita retorica. Utile certo, come portare ad una festa un “rappresentante del popolo” con la pistola.
Vuoi non sparare qualche colpo e poi dare la colpa ad altri? Questa è arte contemporanea. Il tema di questa sofferenza civile non è solamente un tema di giustizia ma una questione estetica.
Il “Parlamento” quotidiano
Non è la filosofia di Henri-Louis Bergson, ma il vero “Parlamento” quotidiano che ha sede negli ospedali, nelle scuole, tra le famiglie e i fragili, nelle carceri, nei musei, nelle campagne, tra le persone che si impegnano davvero, dove per comprendere, bisogna aver vissuto queste esperienze.
Luoghi in cui sono entrato ed entro per capire e incontrare la bellezza della Politica, il modo e la scienza del potere con la gente e nella gente, un processo utile per diventare persona e non un semplice eletto.
La lettura di un tempo presente nel quale bisognerebbe davvero ascoltare tutti, dire basta alle profezie, ai santoni malati di “egopatia”, alle risposte oniriche e prestare più attenzione a quelle che dovrebbero essere le giuste domande, con la dovuta decenza.
Io sto esercitandomi con il tema della cura, ma non ho ancora grandi certezze in merito. Un antidoto che renda immuni e più consapevoli dall’effimero virtuale dominante che sta narcotizzando la nostra parte femminile, il nostro intelletto, qualche diritto, la nostra presenza.
Direi che è venuto il giusto tempo per smettere di delegare, così da allontanare la politica più limitata, mediocre, semplificatrice. Uno spettacolo, a tifoseria. Non si può ridurre la figura del politico a quintali di autoritratti fotografici dove domina una dittatura dell’attualità e dell’immagine che trasformano cose ordinarie in cose straordinarie, “verità lontane dalla realtà” così come non si può ridurre un cittadino a colui che mette una crocetta sulla scheda o peggio, se ne fotte.
Un abuso dell’immagine rispetto al senso della parola. Le immagini che corrono, dilagano e ci convincono in rete ma non solo, sono immagini che mettono in circolazione le pulsioni più basse e rappresentano il bene e gli interessi di pochi a discapito dei più.
Ciò che ci rende uomini è la curiosità del sapere, la cultura, il vero rispetto delle regole, la dignità, il valore di stabilire dei limiti per stare insieme in una convivenza credibile, civile, pacifica.
Il confine
Il confine, ovvero la differenza, è tra civiltà e barbarie, modalità meravigliose che richiedono un alto senso di responsabilità.
Così la nonna mi ammoniva: “ogni gesto che facciamo è politico, apri gli occhi, stammi accanto”. Mi dileguo e ritorno dalle mie membra e da questo “davvero” che ha il gusto e le fatiche del “veramente”, una tutela dei beni dove poter coltivare un tempo di giustizia; nessuna conquista, nessuna difesa, nessuna mirabolante promessa.
È la dimensione poetica di Carver: “per un po’ non andiamo da nessuna parte, poi andiamo”. È la capacità del dubbio e il significato delle parole, senza mai ignorare questo cavo buio che sta attorno e i luccichii del proselitismo per bene.
È un’esortazione ad un’azione più riflessiva, equa, alla creazione di destini meno sbraitati, personali, e più collettivi dove poter seminare pensieri e sogni possibili. Possibili davvero. È la forza della memoria che riempie, è il riferimento di questo presente disordinato.
È davvero il tempo di una coscienza interiore che si organizza per chiudere le crepe più stucchevoli con la sfrontatezza di riportare al centro le disuguaglianze, le canzoni, i libri, le fragilità, il lavoro, addirittura le persone.
C’è una ragione per non andare contro qualcuno, per non essere indifferenti, ostentare, così come c’è un senso per muoversi insieme contro l’incongruenza di un profondo cavo buio di parole, oggettività proclamate ma non riuscite o, questioni taciute, come accade tra il re e i servitori, dove superficialmente, tutto sembra meraviglioso, eroico, erotico.
Così, muovendosi con cauta consapevolezza, si può scoprire la propria radice antropica dove la forma anche se imperfetta, sa comunque prediligere il luogo della sua fioritura.
La terra è fatta di colori e quando è possibile di scelte; scegliere di fare qualcosa di buono, provarci, non con l’impertinenza di sostenere una continua, presuntuosa orazione ma con la coscienza del “come e del poi”, senza chiederci fama ma con la fiducia di una folata di vento che scompiglia, l’aria di casa che si ricombina a cui rivolgere lo sguardo con responsabilità, ottimismo, creatività e, avventatezza.
Un luogo dove qualcosa lo possiamo salvare, qualcosa lo dobbiamo distruggere per poi ricostruire, qualche altra cosa invece abbiamo il dovere di tutelarla, distanti da questo chiasso, dai cuori imbruttiti e dalle vergogne, perché la vita è davvero imprevedibile come lo sono le onde e il tempo.
Concludo questo mio “davvero” con un refolo di speranza e, prima che sia dopo, apro gli occhi tenendo a mente le fatiche, l’aspetto severo e la faccia pulita da ragazzina della nonna, i chissà del nonno che non si è salvato ma è qui con il suo passo, in questo 25 aprile libero, fiducioso e un po’ meno coglione, in queste carezze d’amore e incombenze, per te, tra le pieghe del mondo a esercitarci in questo “forse qualcuno domani” per non essere ebeti e schiavi.