Casale, Favretto: «Da quel 25 aprile è nata una nuova storia»
Questa mattina in Cittadella le celebrazioni: qualche istante di tensione e l'orazione dello storico
CASALE – Un picco di tensione si è improvvisamente innalzato pochi minuti dopo che a prendere la parola è stato il sindaco Federico Riboldi per poi scemare poco alla volta.
Crisi evitata (o gestita), fatto sta che quella del 2024 a Casale è stata una cerimonia del 25 aprile – come da tradizione svoltasi in Cittadella al termine della messa e del corteo partito da Palazzo San Giorgio – priva di particolari contestazioni e all’insegna della riflessione.
Il 25 aprile di Casale
Di riflessione ha infatti parlato il primo cittadino che ha inaugurato il giro di interventi: «Questa ricorrenza impone una riflessione sui conflitti oggi in essere in molte nazioni. Sono tanti oggi i cartelli apposti dagli studenti che citano le nazioni che soffrono, si tratta tuttavia di elenchi parziali. Spesso ci si concentra sui conflitti tra Israele e Palestina e Ucraina e Russia, ma sono tante la nazioni che devono ancora ottenere l’indipendenza e la potere di autodeterminarsi».
Ma è sul passaggio successivo che si è registrato l’unico episodio di mini-contestazione: «Come è possibile non fare una comune riflessione su come i partigiani di tutte le estrazioni presero le armi per passare da una dittatura a una democrazia, liberandosi di un alleato sciagurato (con ovvio riferimento alla Germania nazista, nda)».
È stato a quel punto che una voce dal pubblico ha esclamato: «Mussolini non era tedesco, era italiano!» scatenando un applauso scrosciante dei presenti. «È quello che ho detto. In Italia ci fu un problema doppio: una dittatura interna e a seguire un”alleanza esterna» ha parato il colpo Riboldi.
Ma a incalzarlo subito è stato Johnny Zaffiro, esponente della sinistra casalese e del Pd: «Come si chiamava la dittatura interna?!». Prontamente il sindaco ha risposto «Fascismo!», generando gesta (e suoni) di soddisfazione da parte del pubblico interrotti da lui stesso, che ha infine chiosato: «Per evitare di trasformare questo momento in un dibattito elettorale andrei avanti».
Così ha fatto, citando il film Schlinder List e rinnovando l’invito a «una riflessione su quello che successe in Italia e succede ancora oggi».
L’intervento dell’Anpi
A prendere la parola in rappresentanza della sezione cittadina dell’Anpi è stata la vicepresidente Carla Gagliardini: «Ricordare cos’è stato è importante per stimolare gli anticorpi per evitarne il ritorno». Più ‘politico’ il resto dell’intervento: «Non serve spiegare al ministro Lollobrogida cosa fosse il fascismo, ma dobbiamo spiegare perché non può definire ‘squadraccia fasciste’ gli studenti che manifestano per cessare la tragedia che si sta consumando a Gaza». A questo ha aggiunto: «Esprimiamo il ‘no’ dell’Anpi al presidenzialismo e all’autonomia differenziata, siamo davanti a una crisi conclamata delle democrazie occidentali che deve farci alzare le antenne».
L’orazione di Favretto
Quindi il momento dell’orazione ufficiale dell’avvocato e storico monferrino Sergio Favretto, come già successe nel 2023: «Sono tre gli elementi fondamentali per celebrare questa ricorrenza: la memoria storica, la partecipazione, la conferma e l’attualità dei principi costituzionali. Perché questa ricorrenza è così sentita? C’è il pensiero che da quel 25 aprile è nata una storia nuova».
Ha quindi ricordato alcuni celebri episodi della Resistenza in Monferrato, come gli eccidi della Banda Tom e della Banda Lenti, per poi spiegare: «Il Fascismo era molto radicato in zona, la Resistenza ebbe grande difficoltà a emergere. La Resistenza partì da reduci dell’esercito, come Gherardo Guaschino, alpino, che rientrato dalla Russia creò la prima brigata partigiana tra Gabiano e Mombello».
Poi uno dei passi più significativi: «Oggi c’è un tentativo maldestro di reinterpretare la storia. Ma la storia è fatta di persone, fatti, non di opportunità interpretative. Il primo tentativo di reinterpretazione è quello di dire che i partigiani non erano patrioti, ma erano i partigiani e i civili che li hanno sostenuti i veri patrioti! Il secondo luogo comune è quello per cui si parla di guerra civile. Ma come dice lo storico Claudio Pavone, furono tre guerre: l’Italia contro la Germania occupatrice, una guerra contro il Fascismo e una guerra di emancipazione sociale».
Ha poi concluso riflettendo sul significato della parola ‘guerra’: «La guerra non è solo un conflitto, è un attacco alle libertà: oggi assistiamo a un attacco della liberà d’informazione ed espressione, non servono le querele temerarie, quanto più il contrasto dialettico, a un’insufficienza della tutela della salute e un attacco alle libertà di natura economico».
La chiusura di Pivetta
A chiudere la cerimonia è stato Fiorenzo Pivetta, presidente del comitato unitario antifascista e presidente del consiglio comunale: «Questa cerimoni deve farci ricordare perché è importante donare la propria vita per l’altro».
L’orazione completa di Sergio Favretto
Qui di seguito è riportata integralmente l’orazione ufficiale di Sergio Favretto:
Il 25 aprile non è una cerimonia, non è un evento celebrativo, ma molto di più.
E’ un significativo momento di verità storica, di partecipazione, di attualità costituzionale.
In molti nelle varie piazze d’Italia, giovani e meno giovani, famiglie, ma tutti convinti come sia necessario ricordare i tratti, anche duri e drammatici e poi felici, che hanno motivato la nostra Costituzione e l’attuale convivenza di cittadini.
Un grande grazie agli antifascisti e partigiani-patrioti che a Casale e nel Monferrato hanno lottato per una nuova fase di libertà, dopo decenni e decenni di violenza e di silenzio democratico.
Sono più di 500 le piazze, le vie, i giardini, i monumenti in tutto il Monferrato dedicati alla Resistenza, alle formazioni partigiane, alle vittime civili del regime fascista. La nostra gente ha vissuto quel periodo storico e ne ha voluto mantenere per sempre traccia.
L’unica e autentica
memoria storica
La storia non è mai fatta a tavolino, né si può riscrivere a tavolino con filtri e deviazioni. La storia è intessuta da persone, da eventi, da circostanze, da decisioni, da coraggio, da violenze e scaltrezza, da tensione ideale o da volontà distruttiva, ovvero innovatrice.
La storia resistenziale del nostro Monferrato è un dato certo, inconfondibile, non inquinabile.
Alla Cittadella, lungo il muro dello stallaggio, vennero uccisi 13 giovani della Banda Tom da fascisti e tedeschi; a Valenza, in un’ora soltanto vennero fucilati 27 partigiani della Banda Lenti; a Villadeati, i tedeschi con i fascisti uccisero 11 civili fra cui il parroco don Camurati; i fascisti casalesi diedero ai tedeschi gli elenchi degli ebrei per attingere i nomi dei 18 ebrei catturati e poi trasferiti e destinati a morte in Germania; ancora i fascisti catturarono e uccisero decine di partigiani e antifascisti a Ticineto, ad Ozzano, a Vignale, nelle nostre colline e pianura, a Casale città, fino al giorno della Liberazione; i fascisti incendiarono case, catturarono civili a Rosignano, Vignale, Camagna. Scontri durissimi avvennero a Moncalvo, Grana, Montemagno, Cantavenna. Le nostre strade e ferrovie furono sempre presidiate e controllate da tedeschi e fascisti. La scelta partigiana-patriota fu necessaria e non più dilazionabile. La nostra gente non poteva sopportare oltre le ingiustizie sociali dei decenni fascisti, la mancanza delle più elementari libertà di movimento e di associazione, perché tutto era obbligato e condizionato dal fascio e dalle milizie, la mancanza della libertà di espressione e di stampa.
Il ventennio fascista aveva creato una classe dirigente di notabili, di privilegiati, di aggressivi e violenti, non rispettosi delle autonomie di pensiero e di aggregazione sociale. Iniziando dalle classi più deboli e indifese, il fascismo catturò il consenso con fantasiose promesse e traguardi di successo della Nazione e dell’orgoglio italico. Poi il fascismo riuscì a connettersi con ceti forti economicamente, costruì una crescente pseudocultura ispirata e una propaganda permanente fatta di immagini, rituali, tesseramenti, messaggi, comportamenti omologanti e reti di protezione. Poi il salto nella non politica, ma nel regime e nel potere dei più forti, per giungere ad imbavagliare gli intellettuali più aperti e liberi che dovettero abbandonare l’Italia per l’America e la Svizzera.
Alla domanda come nacque il fascismo, Bertrand Russel rispose: “First, they fascinate the fools. Then they muzzle the intelligent”…inizialmente affascinarono gli stupidi, poi misero la museruola agli intelligenti…”.
Contro i fascisti egemoni, invece, vi era una popolazione debole culturalmente e socialmente, non organizzata, priva di riferimenti alti o nazionali; una popolazione genuina e solidale, ma bloccata e impedita. La guerra accentuò oltre oltre limite il divario fra violenza, arroganza e potere da un lato e gente inerme e priva di libertà.
Se osserviamo e ricordiamo come si visse a Casale la marcia su Roma dell’ottobre ‘22, si può cogliere immediatamente da quali ingredienti violenti era intrisa l’esperienza fascista.
Scorrendo le pagine del settimanale Il Monferrato del 28 ottobre e del 3 novembre, troviamo tutti gli ingredienti dell’organizzazione e dell’approccio dominante: camice nere che occupano uffici e servizi pubblici, attività di falangi fasciste, richiami alla forza virile e autorità di Passerone, le coorti fasciste in pieno assetto di guerra, le squadre avanguardiste balilla e femminili, nuclei numerosi di triari.
Il settimanale La Scolta pubblica ampi resoconti e l’appello e il saluto del console Giovanni Passerone con frasi certamente allarmanti: “La travolgente marcia del Fascismo…Dico con Mussolini che chi infanga il fascismo, infanga i nostri morti; per questo vi giuro che se anche dovessi uccidere saprei di compiere un dovere…”.
Ancora i fascisti casalesi duri e severi dopo il delitto Matteotti del 10 giugno 1924.
Simbolico e fortemente rappresentativo è il poco noto fatto della “proposta e bocciatura del telegramma di solidarietà alla vedova per l’uccisione di Matteotti”.
Nel consiglio comunale di metà agosto 1924, Giuseppe Brusasca del Partito Popolare Italiano propose di approvare ed inviare alla vedova Matteotti un telegramma di condoglianze a nome di tutta la città di Casale e della sua amministrazione. Il telegramma aveva il significato di una forte provocazione democratica per unificare il dissenso contro il fascismo dilagante.
Il sindaco di allora, Oddone, la maggioranza consigliare fascista si opposero fermamente, ritenendola una strumentalizzazione. La proposta di Brusasca venne respinta.
Ecco il testo del telegramma:
“Consiglio comunale di Casale Monferrato, interprete sentimenti intera cittadinanza, assassinio Giacomo Matteotti, porge vivissime condoglianze madre vedova figlia, con il fervido augurio vostre nobilissime invocazioni alla pace, alla concordia, all’amore siano ascoltate per il bene della Patria da tutti gli italiani”.
Di altro segno, di altra partecipazione è connotata la Liberazione a Casale, in città e nel Monferrato. Popolazione, partigiani, militari, studenti, famiglie. Entusiasmo e voglia di avviare una nuova fase.
La Liberazione a Casale e nel Monferrato
Molti dettagli attinti ai diari storici della Garibaldi, della Monferrato e della Patria, da appunti e relazioni manoscritte, da memorie e testimonianze. Una fedele ricostruzione.
L’incertezza delle prime ore del mattino del 25 aprile venne superata verso le 9 dalle chiare disposizioni del CLN e delle SAP, molto attive a Casale. Già il giorno 24, i comandi partigiani ed il CLN piemontese definirono i movimenti delle formazioni per liberare le città. Venne coniato il messaggio in codice per l’avvio della Liberazione: “Aldo dice 26 per 1”.
A Casale, giunsero, all’alba, due brigate della X Divisione Garibaldi, allora comandata da Rinaldo Ronco (Orlando Orlandi) di Mombello e con commissario politico Enzo Coppo.
La brigata Piacibello, ubicata a Casalino di Mombello e comandata da Almerino Trombin, scende verso Casale, percorrendo la strada da Ozzano. Qui incontra un drappello della Brigata Nera in fuga. I partigiani entrano da corso Valentino; disarmano alcuni gruppi di fascisti. Fra i protagonisti, vi erano il medico della brigata dott. Lino Caprioglio e Pasquale Pacello, detto Lilla.
La brigata Bigliani entrò in città, provenendo dalla strada di Pontestura-Vialarda, per raggiungere il Castello, sede del Presidio militare. Fra i garibaldini, a Casale vi erano anche Fiorenzo Vernetti, Pietro Zanzottera, Marcello Musco, Leo Garavello, Luciano Carobbi.
Fiorenzo Vernetti ricorda di essere giunto in piazza Castello, con un gruppo di partigiani e con il comandante Enzo Coppo, di cui era l’autista fidato. Verso sera ritornò alla base, fra le colline, per controllare i tedeschi raccolti nei campi di prigionia. Nei giorni successivi, dopo la resa, Vernetti vide Meyer uscire dalle scuole Ciano ed evitò, per pochi minuti di doverlo trasferire sulla propria auto nella basi partigiane. Si recò, infatti, a Milano in piazzale Loreto e poi a Torino, per un vertice fra le Divisioni piemontesi.
I partigiani della Patria, al comando di Giancarlo Venier, giungono in città e si attestano a ridosso delle scuole Ciano, sede del comando tedesco di Meyer. Giunsero partigiani della Monferrato.
Altri partigiani della Patria si erano diretti a Torino, sotto il comando di Renato Guaita.
Le brigate Matteotti, con comando a Cocconato, si diressero verso Torino; ebbero gli ultimi scontri a Gassino e Cimena. Liberarono Torino. A Casale operò, invece, il partigiano Bruno Rossi; sceso da Rosignano, si unì al gruppo che entrò nel Castello. Nel pomeriggio intervenne per tagliare i fili del minamento che i tedeschi avevano fatto ai piedi del ponte ferroviario; poi si unì ai partigiani a Chivasso e raggiunse Luigi Cappa e Renzo Bertazzoni a Torino.
Vi fu un incontro fra Triglia, Marietti, Prato, Degrandi e il vescovo Angrisani.
Verso le 10.30 il Presidio militare si arrende ai partigiani della Monferrato. Gli ufficiali erano già fuggiti; all’interno del Castello vi erano solo soldati e sottoufficiali.
I partigiani Degiovanni, Cosentino, Carriero ed il comandante Bucca Antonio (Sergio) con altri venti volontari organizzarono la difesa del Castello e la sicurezza in città, con il coordinamento del CLN locale. In poche ore piazza Castello e le vie principali furono invase da giovani, studenti, cittadini.
Militari e giovani come Mazzetta, Baù, Bruschi, Ghirardi tagliarono i fili telefonici.
Su indicazione del CLN, il colonnello Giuseppe Zorzoli assume il comando militare della Piazza di Casale; acclamato dalla gente, entra nel Castello con la divisa dell’Esercito Italiano. Zorzoli era colonnello di fanteria in SPE, nato nel 1897. A settembre 1944 si compose il CLN militare con Giuseppe Zorzoli, Duilio Jori, Carlo Corino, Ernesto Scammuzzi, Senando Conti e Giuseppe Cappa.
Zorzoli, coadiuvato da Degiovanni, Cosentino e Carriero, organizza le varie formazioni partigiane; le colloca nei punti nevralgici del potere pubblico; crea un accerchiamento attorno alle scuole Ciano, dove ancora sono ubicati i tedeschi. Nel frattempo i garibaldini della SAP cittadina attaccano l’ex caserma Muti e s’impossessano di armi e documenti; giungono al casermone, idem; si pongono a difesa del Municipio.
Altre squadre si diressero alle carceri e liberarono i prigionieri politici. Alcuni gruppi occuparono la Stipel, l’Ovesticino, l’Italgas, il Tribunale. Una ventina di partigiani e studenti attaccarono le postazioni tedesche all’altezza del ponte ferroviario e dello scalo fluviale. Il magazzino di viveri del Presidio (caserma Solaro) venne occupata da un drappello di pochi uomini. Furono catturati tedeschi austriaci e polacchi. Tedeschi e fascisti, in tutto 120 persone, si rifugiarono nelle scuole C. Ciano in Piazza Castello, sede del Comando tedesco. Li comanda il maggiore Meyer. Verso le 11, i tedeschi escono dalle scuole Ciano e attaccano il Distretto. Nello scontro viene ferito mortalmente il patriota Ghirardo Costantino, nato a Ventimiglia. Altri scontri avvengono presso il ponte ferroviario e all’altezza del traghetto dello scalo Po. La posizione era difesa dai genieri della Wehrmacht. Un gruppo di partigiani li costringe al fuoco, dopo ennesimi tentativi di resa: nel combattimento muore Orlando Gioacchino (nativo di Agrigento).
Alla stazione ferroviaria, due garibaldini fanno credere ai quattro tedeschi di guardia di essere in molti e ottengono la resa. Vengono requisite le chiavi dei magazzini. S’ispeziona tutto il Cavalcavia. Si tagliano i fili che collegano gli ordigni. Ad alcuni ferrovieri venne affidata la difesa del bottino e di tutto lo scalo ferroviario.
Verso le 14, una delegazione capeggiata dal Carrieri si reca al comando tedesco, sito nelle scuole Ciano. Si chiede, a nome della città, la resa del maggiore Meyer. Nel frattempo giunge il vescovo Angrisani, chiamato in veste di mediatore. Meyer non si arrende. Ma dopo il colloquio di un’ora si giunge al seguente accordo: i tedeschi s’impegnano a non far saltare le opere già minate in precedenza, il presidio tedesco non attaccherà, né verrà attaccato fin quando non giungerà dal comando di Alessandria l’ordine di arrendersi alle forze partigiane.
Alcuni rappresentanti del CLN si installarono a Palazzo S. Giorgio.
Per le strade della città si moltiplicarono le manifestazioni di esultanza e patriottismo. In via Paleologi, un tedesco che non voleva arrendersi viene ucciso a raffiche di mitra. Più tardi, da un’automobile contrassegnata da una croce rossa, alcuni tedeschi sparano su un gruppo di partigiani; muore Giovanni Lupano, giovanissimo. Forse l’ultima vittima dei tedeschi in città.
Nei dintorni di Casale, i partigiani catturarono molti tedeschi e li condussero nelle prigioni di Verrua Savoia e di Moncalvo. In Val Cerrina, il 27 aprile, venne ucciso Evasio Battiston, detto Fulmine, impegnato in un’operazione di cattura di residue forze tedesche.
Nell’area includente Castelletto Monferrato, San Salvatore, Lu, Quargnento, Fubine, Cuccaro e Vignale, operava la 107a brigata Garibaldi, comandata dal tenente Masala (figlio del calzolaio di Castelletto) e con commissario politico Carlo Caniggia. Il ricercatore Piero Raiteri ha raccolto significative testimonianze orali da giovani protagonisti di quelle vicende, come Dario Natta, Dino Caniggia, il maestro Luigi Ratta, Giovanna Rastelli, Giovanni Cattaneo. Le interviste, curate anche da Eleonora Mazzucco, da Enrico Taccori e Sarah Karen Guzzon, hanno permesso di ricostruire alcuni fatti di violenza fascista compiuti nella frazione di San Michele di Alessandria e a Castelletto Monferrato.
Giovanni Cattaneo, ad esempio, ha ricordato quando i militi della Brigata Nera e della G.N.R. piombarono all’osteria Britannia; lo prelevarono assieme ad altri mentre giocavano a carte. Li caricarono a forza sul camion tirandoli per i capelli. La squadra fascista passò da San Salvatore, da Mirabello. Gli arrestati salirono a venti. A Casale vennero rinchiusi in prigione con l’accusa di essere partigiani. Furono condotti poi in via Cavour, alla sede del Fascio. Qui gli arrestati vengono terrorizzati, minacciati, con la promessa di torture (cerchio alla testa) e di bruciature ai polpastrelli. Un ragazzo cede alla paura: si ritira in bagno e s’impicca. Dopo attimi di autentico terrore, un gerarca fascista si mette ad inveire, a provocare cantando Bandiera rossa, pronto a sparare. L’intero gruppo venne trattenuto per dieci giorni a Casale. Poi vennero costretti a scegliere: o l’invio in Germania o l’adesione alla Brigata Nera. Alcuni giovani simularono l’adesione al Fascio e poi si diedero alla fuga, si nascosero fino alla Liberazione, sostenendo le formazioni partigiane.
A Castelletto, per una fase del periodo bellico, vi era un piccolo ospedale militare. Con l’occupazione tedesca, la Wehrmacht si stabilì a San Salvatore (Villa Rossi) e a Castelletto (Villa Poma). Le due postazioni dipendevano dal Comando di Piazza tedesco di Alessandria e poi di Valenza. Paradossalmente, i fatti più cruenti a Castelletto e San Salvatore avvennero proprio il giorno della Liberazione. Luigi Ratta, dopo aver compiuto alcuni azioni fra Vignale e Quargnento, ritornò a Castelletto e cercò di raccordarsi con i dissidenti locali per affrontare i tedeschi. Mario Aceto portò armi e bombe; li nascose. I partigiani Gustavo Bisoglio (nato nel 1921) di S. Salvatore ed Egidio Suanno (di anni 23), calabrese, rimasto fra le colline monferrine dopo l’8 settembre, vennero uccisi dai tedeschi, assieme a due partigiani di Castelletto Monferrato: Libero Bensi, di anni 35 e Mario Aceto, di anni 31. Alla vigilia della Liberazione, i tedeschi, forse avvertendo la fine imminente, attuarono un controllo casa per casa, alla ricerca dei ribelli. Un convoglio di tedeschi sale da Alessandria. Giunto in paese mitragliando all’impazzata si scontra con alcuni partigiani all’altezza di Villa Pona. Interviene un secondo gruppo armato di tedeschi, forse paracadutisti, diretti verso Casale o Valenza, per raggiungere la sponda lombarda del Po. Era già 25 aprile.
In quest’area, fra Alessandria, Asti e il Casalese, operava anche la Divisione Giustizia e Libertà, comandata da Ernesto Pasquarelli, di Monte Valenza. Era articolata nella Brigata Lenti, guidata da Filippo Callori (Ranieri) nella zona di Lu, Vignale e Fubine; nella Brigata Pasino, comandata da Carlo Garbarino (Eolo) nella zona di Castelletto Monferrato e di San Salvatore.
I tedeschi, in disimpegno o fuga verso la Lombardia, da Alessandria verso Casale, attraversarono Occimiano. Era il pomeriggio del 24 aprile.
Una cinquantina di uomini in uniforme, camions ed auto con il simbolo della Croce Rossa, ma dotati anche di mitragliatrici, procedevano lungo la strada provinciale, in colonna.
“All’altezza del cimitero – raccontano Olimpia Casalone e Mariuccia Figazzolo – intercettarono due partigiani, dotati di fucile, mentre si nascondevano nei campi. Vedemmo la scena; i due partigiani, uno molto alto e l’altro più piccolo e giovane, affrontarono due tedeschi; un’improvvisa mitragliata colpì il più giovane, il secondo riuscì a fuggire verso la collina. Il ferito venne lasciato a terra, in una pozza di sangue.” I tedeschi procedettero verso Casale.
“Giunsero nella mia cascina, a cinquecento metri dal cimitero – ricorda Luigi Guaschino -. Mi dissero che avevano appena ucciso un partigiano e che avrei potuto andare a recuperarlo. Presi subito un carro, un cavallo; recuperai il ferito, tentammo di portarlo all’ospedale militare tedesco di Borgo San Martino, ma nel tragitto morì fra le mie braccia. Aveva uno squarcio alla gola. Dopo averlo riportato all’obitorio del cimitero, nella notte, i parenti ci chiesero di trasferirlo a Casorzo. Così feci. Seppi poi che si chiamava Luigi Lusona ed era nato a Grazzano Badoglio.”
Occimiano ebbe così, alla vigilia della Liberazione, uno degli ultimi partigiani uccisi dalla follia tedesca. Il paese, già allora, costituiva un riferimento per tutta l’area di pianura, da Alessandria verso Casale. Vi erano aziende agricole di medie dimensioni, alcune attività artigianali, un discreto commercio abbinato all’agricoltura; le scuole elementari, la polveriera militare verso Giarole, la fornace per la cottura di vasi e mattoni. Nel paese coesistevano le diverse sensibilità politiche; vi erano i liberali monarchici, i repubblichini, i fascisti nostalgici, ma anche i cattolici dissidenti dell’Azione Cattolica, gli aderenti alla Patria di Giovanni Sisto, i vecchi socialisti, alcuni comunisti. Vi furono delle accentuazioni, anche violente, appena dopo la Liberazione. Alcune donne che si erano dimostrate allineate al Fascio, vennero derise e furono oggetto di pubblico scherno.
Ritorniamo alla sera del 25 aprile, il maggiore Meyer ed i fedelissimi erano ancora nelle scuole Ciano di Casale. Nelle due giornate successive alla Liberazione, le posizioni rimasero inalterate. Il Comando tedesco e alcuni fascisti restarono nelle scuole Ciano. A Palazzo S. Giorgio i rappresentanti del CLN casalese organizzarono il primo governo di Casale libera.
Le formazioni partigiane puntarono ad annientare la debole resistenza che ancora esisteva nei piccoli presidi militari della zona. Nel pomeriggio del 27 aprile, il comando tedesco di Alessandria fece pervenire al CLN di Casale una richiesta di passaggio di un treno blindato diretto a Milano e di alcuni reparti del Corpo d’Armata Lombardia. Dopo una ponderata valutazione dei rischi, i rappresentanti del CLN decisero di aderire alla proposta, a condizione che il passaggio avvenisse nelle ore notturne in modo da non provocare attacchi aerei, che i tedeschi non si fermassero in città e che i fascisti rifugiatisi alle scuole Ciano fossero consegnati ai partigiani.
Dopo poche ore, il Comando Tedesco di Alessandria mutò opinione e scelse la via di Valenza. Le truppe tedesche e il treno blindato non passarono per Casale. Il clima in città divenne più sereno, dopo la tensione sorta alla notizia del passaggio dei tedeschi. Si ripresero le trattative con il maggiore Meyer. Intervennero anche alcuni rappresentanti del Comando della VII Zona Militare del Piemonte.
Meyer per tutto il giorno 26 non si arrese, adducendo come motivazione l’incertezza sul potere che avrebbe dovuto accettare la resa. Una delegazione di partigiani, guidata da Carlo Corino e Rinaldo Ronco, tentò un approccio con il maggiore. Fallì.
Ci fu, infine, un incontro a casa dell’industriale Sinaccio Carlo, in piazza Dante. Meyer, dopo aver tergiversato, sostenendo di attendere ordini dal colonnello Becker di Valenza, consegnò la pistola nelle mani del tedesco Franz, già passato ai partigiani.
Meyer fece vedere una fotografia; vi era ritratta una donna ed un bambino. Il maggiore si era reso disponibile alla resa.
Le ultime ore di Meyer a Casale sono state oggetto di differenti ricostruzioni, comprensibili in giornate tese e frenetiche. Anche la partigiana Dea Rota Melotti era presente in piazza Castello e nella delegazione che trattò con Meyer. La Dea, così veniva comunemente chiamata fra le formazioni partigiane, era giunta a Casale con la formazione guidata da Tek Tek (Luigi Acuto). La banda del Tek Tek operava fra Casorzo e Grana ed era aggregata all’8ª Brigata Grana della 2ª Divisione Langhe. La formazione fu presente nell’Astigiano e nel Cuneese, molto poco nel Monferrato. Con Dea vi era anche il fratello Firmino Rota, detto Nick. Quest’ultimo partecipò alle trattative ed interloquì con Meyer e i gerarchi fascisti Barbano, Iannuzzi e Fornero.
Il giorno dopo, un folto gruppo di tedeschi venne condotto nel campo di prigionia a Camino e poi ad Asti. Fra essi, vi era Meyer.
A Palazzo S. Giorgio, sede del Municipio di Casale, si era nel frattempo insediata la prima Giunta Comunale, il primo sindaco. Il liberale avvocato Vittorio Dardano fu il primo sindaco della Liberazione, con vice-sindaco il socialista G. Milani. Gli assessori furono: C. Bosco, socialista; C. Bruno, comunista; G. Falabrino, comunista; G. Moffa del Partito d’Azione; G. Sirchia, democristiano; F. Triglia, democristiano.
Partigiani perché patrioti
L’antifascismo e la Resistenza crebbero e si consolidarono a costi molto alti, lottando in modo impari con un avversario agguerrito e assoluto. Non fu mai una partita con regole pari, ma una salita durissima fatta di coraggio e morte, di ideali e azione, di tenacia e progressivo coinvolgimento.
Nel biennio ‘43-’45 non vi fu solo una guerra civile, ma come correttamente analizza e interpreta lo storico Claudio Pavone nel suo saggio sulla moralità della Resistenza, vi furono tre guerre: una guerra patriottica di liberazione dall’esercito tedesco invasore; una guerra civile contro la dittatura fascista; una guerra di classe per emancipazione sociale. Questo è il paradigma esatto per comprendere la portata radicalmente rivoluzionaria e distintiva della nostra Resistenza.
L’età media dei partigiani-patrioti del Monferrato fu di 21 anni, con la presenza di giovani di 18 e 19 anni. Renato Morandi, ucciso a Valenza, apparteneva alla Banda Lenti: aveva 18 anni. Nelle varie formazioni si unirono socialisti, comunisti, liberali, azionisti, laici indistinti; si unirono agricoltori, operai, commercianti, studenti, cattolici e clero, ex militari e carabinieri, alpini, ebrei.
I partigiani erano giovani e coraggiosi, convinti da ideali; i fascisti della RSI erano invece degli arrivati al potere, dei privilegiati e deboli al tempo stesso, bisognosi di simboli e sovrastrutture della Milizia o della nostalgia per celare la inesorabile fine corsa. I fascisti non esprimevano il futuro. La Resistenza fu animata da giovani e dalle famiglie.
A Casale, il 9 settembre ‘43, durante l’arrivo dei tedeschi a Casale, gli studenti del liceo vennero costretti a pulire e preparare le caserme per ospitare le SS e le truppe tedesche. Nei giorni a seguire, gli studenti scioperarono e lasciarono la scuola per protesta, allarmando il preside e il provveditorato. Da quella settimana, altri studenti scelsero la collina e la montagna, per formare le prime formazioni partigiane.
Dobbiamo usare o unire sempre concettualmente il termine partigiano-patriota perché così si denominavano i partigiani nelle varie bande o gruppi, così si qualificavano nei messaggi e report, nelle lettere e nelle disposizioni dei comandi; così venivano rappresentati nelle relazioni stese dagli Alleati o dai servizi segreti del SOE e dell’OSS; perché così sempre vennero indicati anche dai fonogrammi tedeschi o fascisti. Il termine patriota lo si trova nei vari tesserini e lasciapassare del CLN o del CLNAI, nelle schede di riconoscimento dell’attività e meriti partigiani; nelle tessere partigiane delle brigate Matteotti, Garibaldi, Patria e Monferrato. Solo i partigiani erano i patrioti, i fascisti erano la negazione della Patria e della società italiana. Ancor oggi il periodico ufficiale dell’ANPI si intitola Patria.
Riscatto sociale con la libertà
Vi è un’analisi storica conducibile in parallelo che bene ci aiuta a capire quale grande fenomeno fu la nostra Resistenza e perché in Europa si abbia ancor oggi grande stima e apprezzamento.
L’analisi verte il binomio inscindibile fra libertà e giustizia sociale.
La libertà non è un concetto astratto o un pio desiderio, ma è un diritto che innerva l’individuo e la società che più individui realizzano.
La Resistenza ha voluto e combattuto per la libertà, condizione singola e collettiva che il fascismo, prima a tentativi e poi a sistema, ha violato e negato. Durante il ventennio la libertà non esisteva, ma tutto era programmato e imposto, tutto era sorvegliato speciale, tutto era indotto da miraggi espansionistici, autarchici e poi bellici. La cultura era referenziale e edonistica per privilegiati; ancora la cultura, era educativa a senso unico, nelle scuole e nei licei anche la letteratura antica era piegata alle finalità del regime, al miraggio del colonialismo e dell’impero. Il lavoro e l’economia erano dominio dei poteri e degli assetti del fascio corporativo; il mondo dell’agricoltura e della terra come palestra di indottrinamento; l’assistenza e la sanità erano espressione di populismo e insufficienti alla reale domanda della gente; il muoversi sul territorio era sempre condizionato, fu poi impedito con l’occupazione tedesca e la collegata presenza della RSI. Il regime era propaganda integrale, operava forme di illusionismo diffuso; la giustizia era un appannaggio per i forti. Ecco, è questa la serie di mancate libertà, dei fabbisogni di giustizia sociale.
La sete di libertà nasce dal singolo e poi deve permeare l’intera società. Ed ancora, la libertà non deve essere imposta o regalata, ma raggiunta e resa viva perché conquistata e tradotta in azione quotidiana.
Tre pensieri emblematici.
Luigi Einaudi, quale esule in Svizzera, salutando il figlio Giulio partente per la Resistenza in Italia, così si espresse: “Nessuno sa quale sia la verità vera; sappiamo solo che essa non è quella che è comandata. Qualunque sia in avvenire la costituzione della nostra società, procura coll’opera tua d’oggi di preservare, nella lettera e nello spirito, nelle idee ispiratrici e nelle convinzioni giuridiche ed economiche dell’attuazione di queste idee, il bene supremo della libertà di negare la verità ufficiale.”
Più recentemente, ad Alba nel 2022, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ricordando lo scrittore e partigiano Beppe Fenoglio, disse: “L’epopea della Resistenza, vissuta e narrata da Fenoglio, è parte costitutiva della vostra identità, del vostro essere italiani, e l’avete recata alla Repubblica. Alba fu zona “libera”. Anello di quelle repubbliche partigiane che hanno segnato la volontà di riscatto del popolo italiano”.
Pietro Chiodi, ricordando Fenoglio:
“Questo è il Beppe ‘Johnny’ come lo ricordo…Non partigiano, ma ribelle, ribelle a tutto ciò che gli appariva illogico, ingiusto, immorale, illegittimo, conformista o pericolosamente e presuntuosamente dilettantistico. Combattente per la libertà nel senso più limpido della parola, pronto a stare con tutti o contro tutti, pur di battersi contro il sopruso”.
Chiarissima l’endiadi fra libertà e giustizia sociale ieri e ancora oggi. Non c’è vera libertà se non vi è autonomia dai bisogni sociali, se l’uomo necessita di tutto, se la società è sperequata e discriminatoria. La nostra Costituzione è sulla carta il prodotto migliore in risposta alle attese resistenziali, ma nella realtà non assicura gli obiettivi assunti alla sua approvazione se non attraverso una vigilanza e battaglie continue.
Gli attacchi alla libertà di oggi
Viviamo in un tempo delicatissimo e incerto, in una società aperta e articolata, con mille rischi e opportunità. La conquista di ieri non è certezza oggi, talvolta è posta in crisi.
La libertà, obiettivo dei nostri resistenti, subisce nuovi attacchi.
La Resistenza vide il generoso contributo di siciliani, calabresi, sardi che raggiunsero il nord e combatterono i tedeschi con i partigiani, anche fra le nostre colline. Alla Resistenza si unirono gli Alleati con agenti delle missioni inglesi del SOE o americani dell’OSS. Tutti lottarono per la libertà.
In Italia, oggi, invece, proibiamo e vincoliamo la libertà agli immigranti, agli stranieri che da anni vivono in Italia, discriminando negli accessi alle scuole. Bambini cinesi, mussulmani, italiani che per anni nella società e nelle scuole dell’infanzia vivono in perfetta sintonia, vengono poi discriminati alla scuola primaria. E’ un attacco alla libertà, come lo è pure il sostenere e agevolare con la pubblicità ossessiva e persuadente comportamenti selettivi o privilegi.
Il più pesante attacco alla libertà è certamente la guerra, il sostenere la guerra. Le guerre, anche se scoppiate altrove, creano vincoli e blocchi alla libertà di tutti perché congelano lo sviluppo e il progresso civile e sociale di uno Stato e del contesto degli Stati.
Ancora sono attacchi alla libertà le misure protezionistiche e antistoriche assunte in economia, misure che ledono la libertà del mercato aperto e competitivo. É attacco alla libertà, il tollerare e causare scientemente l’arretratezza del sistema sanitario, le sue disfunzioni, quando colpiscono i deboli, gli anziani, tutti coloro che per reddito non hanno la possibilità di pagarsi le visite e gli interventi.
E’ attacco alla libertà la ripetuta e grave demolizione di protagonisti e simboli della cultura italiana, nel tentativo di sostituirli con surrogati culturali. Sono attacco alla libertà i ripetuti interventi e analisi per riscrivere in modo errato e tendenzioso capitoli della nostra storia, anche e soprattutto quella dell’antifascismo. E’ attacco alla libertà il ricorrere alle querele facili e temerarie, alle slapp nei confronti di intellettuali e giornalisti, solo per demolire la rilevanza culturale e fare strumentale consenso. La storia è unica, non è riscrivibile a scelta. La ricerca storica è fatta di rigore scientifico, di impegno, di metodo, di studio per anni, di capacità critica e di obiettività ricostruttiva.
Sono questi i rischi alla libertà di oggi. Ricordare la Resistenza, i valori costituzionali della libertà, della cultura alta e vera, della salute, del lavoro, della dignità umana, della stampa e dell’informazione, della crescita sociale per tutti: è questo l’impegno di oggi. La nostra presenza è pacifica, allegra, solidale fra tutti, spontanea. Ben diversa dal silenzio, dall’assetto paramilitare e ombroso con organizzati saluti romani di altre manifestazioni avvenute negli scorsi mesi a Varese, ad Acca Larenzia.
Qui ricordiamo un momento felice, la Liberazione per l’Italia e per tutti gli italiani.
Il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, a Parigi durante la Conferenza di Pace il 10 agosto 1946, sostenne con forza: “ho il dovere innanzi alla coscienza del mio Paese e per difendere la vitalità del mio popolo di parlare come italiano; ma sento la responsabilità e il diritto di parlare anche come democratico antifascista, come rappresentante della nuova Repubblica che, armonizzando in sé le aspirazioni umanitarie di Giuseppe Mazzini, le concezioni universaliste del cristianesimo e le speranze internazionaliste dei lavoratori, è tutta rivolta verso quella pace duratura e ricostruttiva che voi cercate e verso quella cooperazione fra i popoli che avete il compito di stabilire”.
Tina Anselmi, partigiana e prima donna ministro della Repubblica, in una intervista resa a Castelfranco Veneto nel 2006, disse: “ La nostra Costituzione non è solo una carta e un documento da leggere, ma una serie di obiettivi da raggiungere. I partigiani lottarono perché la vita e la libertà che erano allora negate da tedeschi e fascisti, venissero difese e esaltate dalla democrazia”.
Ecco perché il 25 aprile è memoria storica, è conferma dei valori e principi costituzionali, è partecipazione di tutti.