1984: ladrocinio continuo agli orafi valenzani e la rapina a Giuseppe Cova
Un nuovo tuffo nel passato a cura del professor Maggiora
VALENZA – Quella del portavalori di preziosi è una figura professionale esposta da sempre ai rischi più gravi, che, escludendo i pagamenti, sono essenzialmente tre: furto, scippo e rapina. Dal dopoguerra, molti furti sono avvenuti in circostanze piuttosto imbarazzanti, come l’asportazione della valigetta dei preziosi tramite la rottura di un vetro dell’auto, la forzatura della serratura del bagagliaio quando si è incastrati nel traffico o il trucco della gomma a terra.
I viaggiatori orafi valenzani, alcuni dei quali poco assennati sono convinti di appartenere a una specie economica superiore in cui prevaleva un borioso individualismo. Hanno sempre vissuto con il pericolo di rapine, per il quale il viaggiatore, il rappresentante o il titolare d’azienda rischiava anche la pelle. I fattori di vulnerabilità erano diversi e spaziavano dalle insufficienti protezioni dell’auto, al tipo di valigetta utilizzata, fino ad arrivare alle città in cui si viaggiava e al tipo di clienti da visitare. Inoltre, a rendere più vulnerabile il portavalori erano anche la frequenza dei viaggi, la routine e la consuetudine di avvisare i clienti prima della propria visita. Si diceva che meno ne sapeva la gente, meglio era: per agire, infatti, i criminali devono sapere, devono avere informazioni sul portavalori; era quindi utile variare gli orari di partenza, i percorsi, gli appuntamenti e gli alberghi.
Bisogna osservare che le azioni criminose verso gli orafi, soprattutto dal dopoguerra, sono state concepite e realizzate soltanto in funzione del loro rendimento, che non sarebbe stato possibile senza la figura del ricettatore, un personaggio oscuro, eternamente nell’ombra e più criminale degli stessi criminali che portavano a termine gli assalti banditeschi.
Forse, per la maggior parte delle persone che trattavano preziosi, esisteva un sistema semplice per rendere la vita dura, se non impossibile, al ricettatore: la regolarizzazione precisa della propria attività. In tal modo, se la merce rapinata fosse ricomparsa sul mercato, tramite gli opportuni controlli sarebbe stato facile risalire a chi l’aveva rimessa in giro, smascherando individui magari insospettabili, che per molti anni sono stati al centro di questo ignobile mercato, oggi non più conforme.
I primi anni Ottanta sono stati forse i più difficili per la categoria orafa, sottoposta com’era agli attacchi incrociati di malavita, costo del denaro e pressione fiscale. In un declino di legalità, si assisteva impotenti a un agguerrito e pericoloso aumento della criminalità organizzata, che continuava a colpire duramente i rappresentanti, i dettaglianti e i fabbricanti orafi di Valenza, facendoli vivere un clima inaudito di terrore; qualcuno si affidava nientemeno che a formule scaramantiche suggerite dalla tradizione popolare. Nessuna compagnia italiana accettava più il rischio di assicurarli e molti erano costretti a stipulare polizze facendo capo alla Lloyd’s di Londra, con premi altissimi. Messi da parte i danni fisici, lo sgomento e lo shock che ciascuno subiva con una rapina, era legittimo chiedersi per quanto tempo ancora la categoria potesse continuare a sostenere una simile fuga di capitali e la liturgia di frasi a supporto sentite e risentite, dove ai proclami non seguivano i fatti secondo un’abitudine consolidata. Soltanto per caso o per amicizie personali gli operatori riuscivano qualche volta a rientrare in possesso di ciò che era stato a loro rubato, anche con compromessi umilianti e affari poco leciti.
Raccontiamo adesso una rapina del Natale del 1984 in cui un altro orafo valenzano, Giuseppe Cova, fu ucciso da feroci criminali.
Ma chi sapeva del viaggio di Cova? Era stato deciso quello stesso giorno quale ultimo spostamento di lavoro prima della chiusura natalizia. Solo i familiari ne erano al corrente e alle momento della rapina nessun cliente era ancora stato visitato. Nei soli due mesi antecedenti le festività natalizie, erano state almeno una decina le rapine nei confronti dei viaggiatori e dei rappresentanti valenzani, con un danno ingentissimo, coperto solo in parte dall’assicurazione. Erano danni a cui il singolo riusciva a far fronte solo con lunghi anni di lavoro e che la stessa collettività fatica a sostenere.
La rapina a Cova fu un agguato teso con la probabile complicità di informatori e per il quale venne usata una Maserati rubata a Torino, un delitto assurdo, una ferocia gratuita, senza alcun nesso con il comportamento passivo dei rapinati, che è costato la vita di un altro esponente della città dell’oro, Giuseppe Cova, 47 anni, residente in strada Roccadaglio, a poca distanza dalle Terme di Monte Valenza.
È accaduto tutto in un baleno, in corrispondenza di un semaforo in località Scaparoni, una frazione del Comune di Alba nel Roero, nel punto in cui lo svincolo si innesta sulla statale per Bra Cuneo. L’orafo, che viaggiava sulla Citroen guidata dal figlio, ha visto apparire quattro malviventi, scesi da una Maserati Turbo che li seguiva, e non ha fatto nulla per contrastarli. Non ha potuto, però, evitare la rottura del vetro anteriore sinistro e quel colpo di pistola, sparato probabilmente per intimidazione, che l’ha colto al femore sinistro, troncandogli di netto l’arteria femorale. Mentre i banditi si impadronivano delle borse di gioielli custodite sul sedile posteriore, Giuseppe Cova è morto dissanguato e inutili sono stati i soccorsi e il trasporto all’Ospedale San Lazzaro di Alba.
Era un uomo tranquillo che amava il suo lavoro e la sua famiglia, totalmente estraneo alla violenza da proibire al figlio Massimo di portare la pistola durante i viaggi di lavoro, sebbene quest’ultimo non avesse difficoltà con le armi avendo terminato il servizio militare svolto in qualità di carabiniere nel mese di maggio. In più, Giuseppe Cova aveva fatto sistemare sul cruscotto un gancio al quale appendeva le chiavi del bagagliaio per evitare di fare mosse brusche nell’eventualità di essere affrontato da malviventi. Era una scelta logica, dettata dai metodi attuati dalla malavita, che, al minimo cenno di reazione, colpisce senza pietà. Ma non è bastato: gli hanno sparato prima ancora che aprisse bocca, che esprimesse la volontà sua e del figlio che guidava l’auto di non opporre resistenza. Qualcuno potrebbe dire che è stata una fatalità che quel colpo alla gamba abbia troncato l’arteria femorale facendolo morire dissanguato, un colpo sparato da un delinquente che ha ucciso un orafo valenzano che, come altri colleghi prima di lui, ha pagato con la vita il suo diritto al lavoro.
L’informazione, però, è quasi sicuramente partita da Valenza. Qualcuno, magari via radio, ha dato precise istruzioni ai malviventi, che hanno dapprima seguito la Citroen del Cova e, poi, fatto il loro attacco. Lo prova il fatto che Massimo Cova, nel ripensare a quei tragici avvenimenti, ha ricordato di aver notato una Maserati Biturbo 2.000, la macchina rubata a Torino sulla quale viaggiavano i rapinatori, già nei pressi di Asti. Dunque, tutto combinato e curato nei minimi particolari, tranne uno: la vita della vittima. Così, alla categoria orafa e alla cittadinanza, non è rimasto altro che manifestare tutto il proprio sdegno e il proprio cordoglio partecipando in massa alle esequie. Se ne sono visti pochi di funerali simili a Valenza, a dimostrazione di quanto pesasse sul cuore di tutti la tragica sorte di Giuseppe Cova.