La “Memoria” al tempo dei social (e della globalizzazione)
Venerdì 26 gennaio 2024, è stata celebrata (il 27 era sabato) – un po’ ovunque e talvolta anche soltanto per dovere istituzionale, condito da una buona dose di retorica – la Giornata della Memoria, a settantanove anni dalla liberazione del campo di concentramento di Auschwitz. Sì, il prossimo anno, nel 2025, saranno trascorsi ottant’anni.
I giorni precedenti alla ricorrenza sono stati accompagnati, per chi, come me, lavora a contatto con le nuove generazioni da alcune domande cruciali: ne parlo in classe? In che modo lo faccio? Lo faranno già tutti? Che cosa potrei dire loro di “nuovo”? Nel frattempo “scrollando” distrattamente le notizie finisco su un articolo qualunque che tuona contro il disinteresse dei giovani, attraverso affermazioni del tipo “non sanno nemmeno che cosa rappresenta la Giornata della Memoria e questo è scandaloso”, citando anche un non ben definito sondaggio (circolato già negli anni precedenti) che supporterebbe tale tesi, riferita in particolare alle studentesse e agli studenti che hanno tra i 13 e i 16 anni.
Il sabato (eh sì, c’è ancora chi va scuola e sopravvive pure!) ho lezione soltanto in classi di biennio – i “piccolini” – mentre altre classi di “più grandi” sarebbero state cooptate per presidiare alle celebrazioni ufficiali, con la possibilità per tutti gli altri di collegarsi a distanza per seguire le manifestazioni. Così entro in classe e ovviamente arriva subito puntuale la domanda (mia) su “che giorno è oggi?” e la risposta (loro) non tarda ad arrivare, ed è completa e precisa in quasi tutti i casi, seguita da qualcuno che prova a chiedere “ma ci colleghiamo alla manifestazione della scuola, vero?” (così perdiamo un po’ di tempo, dai!). No, nessun collegamento, rispondo fermamente io. Però ne parliamo.
Così, con innegabile timore di fallire – soprattutto all’interno di classi numerose e “impegnative” – decido di testare quello che avevo provato a elaborare nei giorni precedenti, cercando di rispondere ad un interrogativo specifico. Mi chiedo dunque se è possibile rendere “pop” – e farlo in maniera efficace e non distorsiva (esempi passati, seppur arcinoti, dimostrano che l’elemento “pop” non è di per se una garanzia. Anzi. E se state pensando, che so, al film “La vita è bella”, no, non mi è piaciuto. Dai che a distanza di anni lo si può anche dire!) – un argomento tra i più tragici della storia del Novecento, e probabilmente il più tragico della nostra memoria collettiva? Eh sì, perché storia e memoria non sono mica la stessa cosa, e non viaggiano necessariamente in parallelo. Non possono e non devono farlo. Lo storico e divulgatore Alessandro Vanoli spiega efficacemente la differenza: la storia è una successione di fatti, di avvenimenti, accaduti nel passato che spesso ci “obbligano” a studiare a scuola, e che riguarda una porzione più o meno vasta di Mondo conosciuto (dipende se parliamo ad esempio di Storia Globale oppure no). La memoria, invece, è «ciò che noi ricordiamo (o che dimentichiamo con più o meno consapevolezza). E’ una cosa personale, innanzitutto. […] Sì, perché la memoria cambia; noi crediamo di no, ma adattiamo continuamente il ricordo di ciò che abbiamo vissuto alle necessità del presente. […]».
E il 27 gennaio è uno di quei giorni in cui siamo chiamati a ricordare; uno di quei giorni in cui la storia esce dai margini della razionale narrazione dei fatti, per andare ad occupare strati emotivi del nostro pensiero e divenire memoria collettiva, in un processo di elaborazione che non dovrebbe mai perdere la sua tragicità, la sua urgenza di ricordare – di non rimuovere – il suo significato. Eppure dobbiamo prendere atto che quello stesso concetto di “memoria collettiva” cambia, si evolve e non potrà essere lo stesso per la generazione dei miei nonni e per quella dei miei studenti. Come raccontare, dunque, gli eventi della storia via via che questi si fanno più lontani e i testimoni diretti fanno sempre più fatica a raggiungere le nuove generazioni? Come coinvolgere i più giovani in questo processo di creazione e custodia della memoria collettiva, proprio in questo momento?
Secondo i dati diffusi dal Corriere della Sera sono 245mila gli ebrei sopravvissuti alla Shoah ancora in vita oggi, ma il 56 per cento dei sopravvissuti all’epoca dei fatti aveva meno di 10 anni. L’età media dei sopravvissuti è di 86 anni, con testimoni sparsi in 90 Paesi (Israele, Stati Uniti, Europa Occidentale). Queste persone sono le ultime ad aver vissuto in prima persona le persecuzioni e, se è vero che la storia contemporanea smette di essere tale nel momento in cui scompaiono gli ultimi testimoni, eccoci (quasi) arrivati a quel fatidico passaggio. La differenza tra noi (adulti, docenti e genitori) e loro (giovani e studenti) è che noi – anche chi non ha memoria diretta di ciò che è accaduto – abbiamo avuto a disposizione i testimoni, li abbiamo avuti accanto per anni, talvolta per decenni, e abbiamo potuto ascoltare direttamente da loro gli avvenimenti.
Che cosa fare, invece, adesso? E che cosa potranno fare i “nostri” giovani quando si troveranno a raccontare quegli stessi fatti, magari ai loro di nipoti? Impossibile prevedere le conseguenze di tutto ciò: forse dovremmo solamente prendere atto che accade per ogni momento storico. Il tempo passa, e tutto si allontana. Ma in questo caso stiamo parlando della “nostra memoria”, quella più tragica, più dolorosa, più inaccettabile. Un fatto inedito, insomma. Che dobbiamo attrezzarci ad affrontare, a partire dai linguaggi che dovremo sempre più utilizzare, efficacemente, e consapevolmente, per parlare prima di tutto con gli studenti.
Oltretutto, all’ormai urgentissimo problema generazionale, va ad aggiungersi pure una più profonda questione identitario-culturale: viviamo una progressiva incapacità di connettere la nostra esistenza (rapidissima) con il passato, che avvertiamo sempre più lontano, in generale, con un corrispondente dilatarsi del presente. A ricordarcelo molto bene è ancora una volta Vanoli. Si tratta di un fenomeno almeno europeo, se non occidentale, e ha molte cause, tra cui l’avvento delle tecnologie digitali e l’allargarsi vertiginoso dei nostri confini (vogliamo dire la “globalizzazione”?) restano probabilmente le principali. Il fenomeno variatamente definito anche come “mondializzazione” sta inevitabilmente intaccando anche il senso della storia, che siccome ci è stata quasi sempre proposta come quella “regionale”, abbiamo spesso confuso con la memoria, parlando della “nostra storia” e non, appunto, della “nostra memoria”.
Che cosa fare, invece, adesso che la memoria collettiva dovrà essere tramandata alle nuovissime generazioni – che non solo non c’erano e non hanno conosciuto alcun testimone – ma che magari neppure sono nate qui, in questa parte di Mondo, o che se ci sono nate non ne sono “cittadine”, nello specifico del caso italiano, non certo per loro volontà. Quindi, forse, di “problemi” negli anni a venire ne avremo almeno due. Dovremo essere capaci di spiegare una delle più grandi tragedie dell’Umanità, avvenuta quasi un secolo fa, a chi vive in un mondo globale e digitale, e non potrà più, per ragioni anagrafiche, incontrare i testimoni. Che fare allora, dopo aver preso consapevolezza della realtà e della “normalità” del tempo che passa e della società che cambia, che va avanti, credendo di lasciarsi alle spalle stragi simili, mentre allo stesso temo accadono, ad una velocità incomprensibile, fatti non certo meno tragici?
Possiamo iniziare da almeno tre tentativi, aiutandoci con qualche recente esempio virtuoso. Il primo: partiamo dall’oggi, dalla realtà quotidiana, e non per forza dal passato. Al passato poi si può arrivare lo stesso, con altrettanta efficacia. Le nuove generazioni vanno coinvolte nella costruzione della memoria collettiva, di una “nuova” memoria, che è meglio chiamare “condivisa”, dove proprio loro devono sapere di essere attori e non spettatori. Partecipare alla memoria richiede, infatti, la presenza di soggetti attivi, non semplicemente dei contenitori di nozioni cristallizzate nel tempo, di gruppi-classe che “si comportano bene” durante una qualche celebrazione. La memoria, per restare tale, cioè viva e non diventare “rimozione” deve essere un’azione critica e partecipativa.
Per discutere di discriminazioni, di violenza, di paura, di intolleranza, guardiamoci prima di tutto intorno, seguiamo l’attualità (quella che poi diventerà storia, ed eventualmente memoria condivisa). Discutiamo di immigrazione, di quello che avviene durante gli sbarchi, o ancora prima, in mare. Ad esempio, lo avete visto il film “Io capitano”? Soltanto qualche giorno fa una collega lo ha fatto vedere (e poi discutere) agli studenti, sempre quelli “piccolini”. L’esperienza è stata totalizzante per tutti, così come l’efficacia del dibattito. Oppure, chiediamoci più spesso, criticamente, che cosa sta succedendo a Gaza, e magari prendiamo spunto dalle parole del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che proprio durante la Giornata della Memoria ci ha ricordato che è possibile condannare fermamente i crescenti episodi di antisemitismo, non dimenticando che «Coloro che hanno sofferto il turpe tentativo di cancellare il proprio popolo dalla terra sanno che non si può negare a un altro popolo il diritto a uno Stato».
La dichiarazione è stata anche trasmessa ufficialmente dal Quirinale tramite il profilo X (ex Twitter). Oppure ancora, ricordiamo alle nuove generazioni che nei campi di concentramento non sono stati deportati “solamente” gli ebrei: con loro, a condividere quella tragedia, c’erano anche comunità Rom e Sinti, Testimoni di Geova, portatori di handicap, persone omosessuali, oltre che altre minoranze etniche e/o religiose, e oppositori politici del regime. Molte tra queste categorie di essere umani vivono ancora oggi una condizione di discriminazione, che non lascia certo indifferenti i giovani, che dentro all’integrazione ci vivono, magari, più o meno, inconsapevolmente. Sul tema è ancora molto efficace – e altrettanto social – l’illustrazione di Mauro Biani del 2014, dove appaiono stese alcune “card” che riprendono le varie insegne dei prigionieri dei lager.
Veniamo, così, al secondo punto: in un mondo che è sempre più globalizzato e interconnesso, dovremmo provare ad allargare i nostri orizzonti, studiando di più e meglio la storia degli “altri” (questo approccio ha un nome e si chiama “World” o “Global History”) e condividendo esperienze legate alla “nostra”, di storia, scoprendo magari esperienze comuni. Lo ha fatto, proprio in questi giorni, l’agenzia Chora Media, attraverso una puntata del podcast “Fuori da qui”, curata da Simone Pieranni. Il giornalista ci racconta che tra il 1933 e il 1941, a Shanghai, in Cina, trovarono rifugio 20mila ebrei. La maggior parte erano viennesi: partendo dai porti di Trieste e Genova si imbarcarono su navi italiane dirette in Oriente. Il salvataggio è ancora ricordato con molto orgoglio dagli abitanti della metropoli cinese. Gli ebrei, in quegli anni, strinsero rapporti di solidarietà con i cinesi, condividendo le avversità alla resistenza all’invasione del Giappone, alleato della Germania. Molti al termine della guerra tornarono in Europa, altri, invece, restarono: sono circa 2mila quelli che attualmente vivono ancora a Shanghai, dove si trova il quartiere ebraico di Tilanqiao Circa 1.200 ebrei fuggirono, invece, a Manila, nelle Filippine, tra il 1937 e il 1941.
Eccolo, il ruolo dei social (X o i podcast), e l’interconnessione: così arriviamo al terzo punto, forse il più ampio e complesso. Cambiare i linguaggi per comunicare, per raccontare, la Shoah e più in generale i tragici fatti legati alla storia del Novecento, non è solamente necessario, ma doveroso nei confronti delle nuove generazioni. Abbiamo il difficile compito di raccogliere questa sfida, e di non lasciarci sopraffare dalla retorica, nascondendoci dietro inutili banalità assolutorie (“dove andremo a finire? I giovani non hanno più memoria…”).
Domandiamoci piuttosto quali strumenti abbiamo in mano, e quali li hanno loro. Prima di arrenderci, e dare la colpa a qualcuno, non importa a chi, proviamo ad agire proprio attraverso la comunicazione (tra l’altro buona parte dei miei studenti frequenta proprio il “Liceo Economico-Sociale della Comunicazione). E se volete la risposta alla domanda di prima, dico di sì. Nel suo piccolo la cultura pop (così come il mondo digitale) può fare molto per comunicare, efficacemente, anche su questi temi. Anzi è proprio sul terreno del virtuale che si deve porre la maggiore attenzione: quello resta il luogo più fecondo ai nuovi linguaggi, ma ovviamente anche il più pericoloso.
Il web in generale, e i social in particolare, sono territori dove regna il cosiddetto hate speech (un ottimo spunto per la tanto sbandierata Educazione Civica) e i temi legati all’olocausto non ne sono certo immuni. Anzi. Lo ricorda, con un accattivante post la pagina Instagram @sociologia_unipd, così come il profilo dell’agenzia di comunicazione YouTrend, che pubblica una serie di dati relativi ad un report Unesco (2021), dove si dice che il 16 per cento dei contenuti presenti sui social network relativi all’Olocausto ne parlano in maniera distorta o addirittura lo negano.
Il report prende in considerazione i contenuti pubblicati sulle principali piattaforme in inglese, francese, spagnolo e tedesco, e mostra che su Telegram questa percentuale sale addirittura al 49 per cento: dunque, circa la metà dei contenuti sul tema, che sono presenti sulla piattaforma sarebbero destinati a distorcere o negare quanto accaduto (il 19 per cento su Twitter/X e il 17 su Tik Tok; percentuali più basse su Instagram e Facebook).
Per cercare di elaborare strategie di contrasto a questo fenomeno inquietante, già lo scorso anno, è stato avviato il progetto “Countering Holocaust distortion on social media. Promoting a positive use of Internet social technologies for teaching and learning about the Holocaust”, che ha coinvolto anche varie realtà italiane (tra cui il CNR) ed è risultato vincitore di un bando promosso dall’IHRA. Dopo una prima presentazione nella sede della Fondazione Museo della Shoah di Roma l’iniziativa resta rivolta principalmente a due categorie, giornalisti e responsabili di musei. L’obiettivo primario del progetto è di “diffondere le conoscenze più recenti sul tema della rappresentazione distorta della Shoah, con particolare riguardo per le forme distorsive e di abuso rintracciabili sui social media”.
Infine, a utilizzare ottimamente i social per trovare nuovi strumenti per trasmettere la memoria, è il content creator Luis Sal, che insieme al Corso in Design della Comunicazione dell’Università di San Marino (curato dalla professoressa Lucia Roscini), ha messo in piedi nei mesi scorsi il progetto “Vapore”. Un laboratorio dedicato proprio a individuare nuove modalità di rielaborazione, esposizione e comunicazione delle immagini dell’Olocausto in chiave espositiva, per interrogarsi sul potere comunicativo delle immagini (rispetto talvolta alle parole) nei riguardi del passato, e nei confronti delle nuove generazioni. «Foto di archivio, viste centinaia di volte, appesantite da stratificazioni di ricordi, testimonianze, riflessioni, rischiano di diventare trasparenti e perdersi, annullate dai meccanismi di fruizione dell’informazione dei nuovi media», hanno spiegato i promotori.
Nel 1970 Albe e Lica Steiner curarono una delle più importanti esposizioni dedicate alla memoria della deportazione nei campi di sterminio nazisti. Il materiale fotografico era scioccante e rivelatore: raccontava qualcosa che non riusciamo ad accettare come parte della natura umana. Molti non avevano mai visto quelle immagini, raramente diffuse negli anni immediatamente successivi alla guerra, periodo in cui nella mente di tutti c’era solo dolore, stanchezza e voglia di ricostruzione. Quelle stesse foto, che sortirono un enorme effetto negli anni Settanta e Ottanta, hanno perso oggi gran parte del loro potere. Appaiono ormai usurate e abusate, ricontestualizzate centinaia di volte, parificate ad altri eventi storici di persecuzione e distruzione.
Sono diventate incapaci di portare a galla un senso e una reazione. Così gli studenti del corso di design hanno creato una “mostra portatile”, fatta di cartoline e installazioni digitali, promossa attraverso una serie di trailer, diffusi con diversi canali social (Instagram, Tik Tok, You Tube), dove si invita a visitare l’esposizione itinerante. L’iniziativa mira, più in generale, a far riflettere sulle tematiche della discriminazione e deportazione, tristemente attuali, e altrettanto tristemente ignorate, spesso proprio a causa di un’incapacità di intercettare un target giovanissimo, e profondamente condizionato da nuovi stimoli, con modalità efficaci di comunicazione.
Se siete arrivati fino qui a leggere e volete davvero arrivare a conoscere meglio la storia della Shoah attraverso due linguaggi pop per eccellenza (e magari arrivare anche a studenti ancora più piccoli dei miei “piccolini”), date un’occhiata alla mostra “I fumetti e la Shoah”, che è stata inaugurata il 27 gennaio a Rimini, e che sarà visitabile fino al 10 marzo. Si tratta di oltre 2mila fumetti, manga e albi illustrati, ispirati alla persecuzione degli ebrei sotto il Terzo Reich. L’esposizione, già passata per Francia e Belgio, è stata curata dal Mémorial de la Shoah di Parigi; e guardate anche il cartoon (è disponibile in streaming) “Anna Frank e il diario segreto”, uscito lo scorso anno in Italia, dopo la presentazione al Festival di Cannes, e firmato dal regista israeliano Ari Folman. Un piccolo capolavoro di animazione, per andare sempre nella solita direzione: quella della condivisione, tra culture e tra generazioni diverse.