Intrighi e inganni nella Valenza del Trecento
Un nuovo approfondimento sulla Città del Gioiello del professor Maggiora
VALENZA – In Italia il Medioevo trecentesco è dominato da passioni e partigianerie più forti che mai, ove alla cronica debolezza del potere imperiale si aggiunge la latitanza del Papato, sottomesso nella corte avignonese. È una civiltà poco pragmatica e violenta.
Verso la metà del Trecento, Valenza, con un’arte del governo non troppo rigorosa, possiede un’assemblea comunale, il giudice, il podestà e un palazzo comunale sito nella piazza principale la quale è il centro commerciale, politico e religioso della città. A ben vedere, però, più che sedi d’etica pubblica sono luoghi per diverse oscure macchinazioni in cui le norme sono applicate a discrezione – venerate quando conviene e profanate quando impicciano o impediscono la custodia di privilegi. Valenza è sede di Vicariato generale del vescovo di Pavia per i territori posti a sud del Po e quindi gode di una posizione di gran rilievo anche dal punto di vista religioso. Domina il memento mori, del quale l’abbondante e catastrofico clero valenzano, mediante la cruda rappresentazione della morte, si serve per rafforzare nei fedeli la determinazione a farsi trovare degni di fronte all’imminente giudizio divino.
Il 19 giugno 1347, Valenza (in molti scritti Valentia), dopo il ritorno dei Visconti, che l’hanno occupata nel 1342 durante la lotta contro i Paleologi, si sottomette nuovamente alla confinante e turbolenta signoria del Marchese di Monferrato Giovanni II Paleologo (1338-1372), con un accordo benevolo che esclude ogni tipo di tassazione, una specie di partenariato strategico. Il giuramento di fedeltà e dedizione (pacta sunt servanda) avviene nella chiesetta di San Giorgio di Monasso, situata fuori Valenza, ad opera dei governanti locali; sensale del “matrimonio” è il giureconsulto sindaco Francesco de’ Denti, un’austera immagine del passato dal piglio tosto – per qualcuno è un genio, per altri un prezzolato. Sagge tartarughe presenti all’inciucio e rappresentanti il marchese sono Pietro di Zamoreis (vicario del marchese), Ottone di Brunswich, Giacomo Provana, Ottobono da Cocconato, Valenzano di Tilio e Girardo di Brolio, mentre gli ambasciatori di Valenza sono Andrea Aribaldo, Lancia Bombello, Giacomo Stanco, Francesco Dina, Giacomo Carena, Pietro di Vassallo, Michelino di Bellone ed Enrico di Monte. Questi facoltosi gentiluomini locali, disgiunti nelle loro controversie, si trovano in crescente agitazione e in competizione per imporre il proprio dominio sulla città, con aggressioni personali e condotte sconvenienti. Lontani dalla gente meno abbiente, assolutamente uguali, sono pronti a tutto.
Con l’accordo artificioso tra Valenza e Giovanni II di Monferrato si stabilisce che il marchese eserciti la sua giurisdizione per mezzo di un vicario, senza protervia e senza poter trarre alcun reddito o sostanza. È un pasticciaccio abilmente confezionato percepito come autolesionista da molti, che ne avrebbero fatto volentieri a meno, ed ha acuito certe spaccature, ma una parte dei valenzani è favorevole ai Visconti milanesi oltraggiando i termini dell’intesa; una trasformazione positiva non è da escludere a priori, ma dipende da come reagiranno i Visconti.
Con il patto, certe stabilità vanno a farsi benedire e solo pochi prendono l’accordo per vero e sincero. La politica, purtroppo, è sempre l’area dei bugiardi e degli opportunisti, è qualcosa in cui l’obiettivo dei più non è conseguire l’autonomia ma il compromesso, salvarsi anche a costo di vendersi.
Anche Monte, infeudato dai Paleologi ai Cattanei nel 1305, viene definitivamente consegnato al Distretto di Valenza nel 1347, durante il breve periodo monferrino; mentre con Lazzarone, un’altra piccola terra conficcata ai limiti, sorgeranno sempre liti e difficoltà. La tormentata e screditata signoria monferrina durerà solo pochi anni, in questa terra di facili cospirazioni permeata da influenze lombarde. L’editto valenzano, infatti, sarà interpretato dai Visconti come un palese atto di belligeranza ed essi cercheranno in tutti i modi di riottenere la città.
In questi strani tempi, in città si sviluppano anche altri briosi drammi e pericolose trame amorose, che sembrano nate da qualche mente diabolica, ma potrebbero anche essere narrate dal Boccaccio, con talami bollenti e vedove inconsolabili. Gli adulteri sono frequenti a causa dei molti matrimoni combinati, piuttosto che voluti da entrambi i partner, ma spesso l’uomo tradito non denuncia l’adultera per mantenere la propria reputazione e non divulgare i problemi e le disgrazie della sua vita matrimoniale. L’odio trionfa anche tra i sedicenti guardiani della morale, scopritori di verità nascoste, che non perdono occasione per esibirsi in ammonimenti e sermoni. C’è anche chi vede Satana ovunque, ma la carne è debole e l’avidità è immensa, e queste sono comiche, senza sobrietà e senso della misura, che non sempre fanno ridere.
Intanto, si sta apparecchiando uno scenario da incubo: sopraggiunge una terribile catastrofe, la peste nera del batterio Yersinia pestis, che cambierà il corso della storia. Si è diffusa in tutta l’Italia dal 1348 – in tutta l’Europa dal 1347 al 1351 – e anche la nostra città ne è pienamente coinvolta. La medicina non sa opporre alcun rimedio, si combatte con salassi e purghe o con preghiere e penitenze. Uomini, donne e bambini, ricchi o poveri, vengono spazzati via da questa dolorosa, contagiosa e inguaribile pandemia.
Addentrandoci nella selva oscura governativa, tra i più loschi disegni spicca lo spudorato e plateale tradimento consumato nel 1358 dal valenzano Lancia Bombelli/o e suo figlio Franceschino e da Pieruccio Arribaldi/o, nipote di Giovanni, finanziatore della costruzione della chiesa di San Francesco a Valenza.
Secondo il racconto di Bonaventura di San Giorgio, nel 1358 i tre sono indotti, con la lusinga di una possente quantità di denaro pari a 6.000 fiorini d’oro, dai guelfi alessandrini Giovanni e frate Simone della famiglia Dal Pozzo e da Matteo (Roberto) de Franzola capitano di Alessandria (creato da Galeazzo II Visconti), a vendere la loro città ai Visconti. Per fomentare meglio la congiura, i due furbacchioni fratelli alessandrini organizzano dei ricevimenti in una loro proprietà situata nei pressi di Montecastello e in tali circostanze tentano di convincere gli invitati a prestar orecchio alle loro proposte o allucinazioni; sembra, tuttavia, che le subdole idee dei Dal Pozzo trovino pochi consensi e qualche delazione, poiché di questi tempi certi pensieri è meglio non farseli venire proprio.
Altri personaggi implicati nella trama sono Guglielmino Stortiglione, Aimerico Tallone, Giovanni Tibaldo e i capi del guelfismo alessandrino, come i Guasco.
Il piano prevede che il giorno stabilito Bombelli/o, il figlio Franceschino (dottore in legge) e Pieruccio Arribaldi/o debbano istigare la popolazione valenzana a ribellarsi contro la signoria ghibellina del Marchese di Monferrato e, una volta raggiunto l’obiettivo, spalancare le porte della città alle soldataglie dei Visconti. Ciò viene realizzato in parte, ma, nel mese di ottobre, all’apparire delle truppe rivali la rocca valenzana, invece di consegnarsi al nemico, con sprezzo del pericolo, dà mano alle armi e ai numerosi soldati aggressori non resta che ritirarsi.
I traditori cercano la salvezza con la fuga, ma sono arrestati dalle milizie monferrine e imprigionati ad Asti. Il processo nei loro confronti, sotto la guida del temibile magistrato Albertino De Gustonibus, vicario del Marchese di Monferrato, durerà parecchie settimane e si concluderà con la pena di morte per decapitazione, condanna che sarà eseguita nel 1360. Per sottrarsi alla cattura, gli ispiratori del piano Giovanni e Simone Del Pozzo cercheranno protezione presso l’autorevole ordine religioso degli “Umiliati”, di cui Simone era un eminente rappresentante, scoprendosi predicatori e teologi di se stessi.
I Visconti mostreranno gli artigli e strapperanno la città ai monferrini con un terribile assedio che durerà 10 mesi, nel 1370. Galeazzo II Visconti, con un fortissimo contingente di soldati e munito di armi formidabili, lancerà violentissimi attacchi alla rocca valenzana che opporrà una tenace resistenza. Ci saranno scontri e accerchiamenti devastanti, per quasi un anno, uno stallo di guerriglia cronica disastrosa, e il tifo con i suoi fratelli (peste, colera, ecc.) saranno decisivi per l’esito finale. Violenze e tradimenti saranno all’ordine del giorno. In città il clima di sospetto e di diffidenza sarà incrementato dalle numerose defezioni in campo avverso. Valenza monferrina, che conta quasi tremila dimoranti, piegata e piagata, rassegnata e sospinta dalla paura e dagli stenti, al termine di questo primario e vero ignominioso storico assedio della durata di dieci mesi, dovrà assoggettarsi ai Visconti di Milano, cosa che ne segnerà profondamente la storia futura. Dopo le continue scorrerie nelle abitazioni di campagna – prese con la forza e bruciate, il bestiame portato via e i contadini malmenati o costretti a riscattarsi – Valenza, oppressa dalla fame e con un forte rischio di epidemie, il 14 novembre 1370, è costretta ad arrendersi affidandosi alla speranza. Nel 1375 signore del luogo è nominato Gian Galeazzo Visconti, figlio emancipato di Galeazzo, malvagio a prescindere.
Nella perenne ricerca di un nemico, gli uomini non cambieranno e la storia pure.