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Libri, dieci consigli per ‘chiudere’ le feste
Tante le idee che possono tenervi compagnia in questi primi giorni del 2024
Consigli su quali libri leggere durante gli ultimi giorni di festa e (si spera) di riposo?
Dai romanzi ai saggi, passando per la poesia. Tante le idee. Sperando possano tenervi compagnia in questi primi giorni del 2024.
Libri e consigli
- Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel e altri scritti (La tartaruga). Il titolo è geniale e basterebbe già da solo a raccontare la dirompenza della voce di Carla Lonzi. Una voce fatta per decostruire tutti i costrutti e poi demolirli ancora, per ricominciare. Da Hegel, al capitalismo, passando per Freud. Tutto è dominato da un modello maschile, patriarcale, persino il capitalismo è arrivato dopo. Il saggio uscì per la prima volta nel 1970 e rappresenta una presa di coscienza: dove sono le donne nella storia? E perché, per definirle, deve esserci sempre il paragone con l’uomo? Nessun punto d’arrivo nel percorso filosofico di Lonzi, ma pagine dalle quali partire. Un manifesto, un ponte, un tassello fondamentale del mosaico.
- Roberto Calasso, L’animale della foresta (Adelphi). L’acume, l’eleganza e la sottigliezza di Roberto Calasso sono qualcosa di prezioso. Qualcosa che tuttavia sfugge e si dilata, per mescolarsi a quelle che furono le letture e le fascinazioni di uno dei più grandi editori del nostro Paese. In questo meraviglioso saggio breve, Calasso entra dentro le pagine di Kafka. E lo fa in una maniera labirintica e a tratti oscura, irrisolta, ma anche lapidaria. È il frutto di un attraversamento che richiede agli occhi un ulteriore sforzo. Saper vedere nel buio. E interpretarlo.
- Lawrence Osborne, Java Road (Adelphi). Un thriller che, senza troppi spoiler, vede al centro una parallela ricerca. Quella della verità e quella di una ragazza scomparsa da parte del giornalista inglese Adrian Gyle. Che si trova in una Hong Kong pericolosa, violenta e al collasso. Le pagine corrono veloci e la scrittura di Osborne prende le sembianze di una lama. Ma anche di un affresco sociale ai limiti del vivo.
- Cormac McCarthy, Stella Maris (Einaudi). Il 2023 ha visto andarsene uno dei più grandi autori statunitensi del nostro tempo: Cormac McCarthy. Mancherà molto. Poco prima di morire, e subito dopo la sua scomparsa, ci ha lasciato rispettivamente due libri che sono l’uno la eco dell’altro, Il passeggero e Stella Maris. Manicomio, fuga, matematica, l’intensità del dialogo, che è poi un atto più filosofico e terapeutico di quanto non si creda. Dentro queste pagine c’è l’instancabile andare, fra allucinazione e speranza.
- Vanni Santoni, Altre stanze – Other rooms, (Le Lettere). Un labirinto di stanze che si susseguono, l’una dopo l’altra. Nell’impossibilità fisica e tattile di poter sostare davvero in ognuna di queste asfittiche e immense rooms? Le opzioni sono potenzialmente infinite, perché squisitamente personali. Siamo certi che qualcuno potrebbe sentirsi un po’ come doveva sentirsi il capitano Torquemada, protagonista di un certo romanzo di Mari. Immobilizzato e per di più nel mezzo di una maledetta bonaccia, lì a farsi raccontare ‘il fuori’. Che è poi il dentro di qualcun altro, in base a come te lo (de)scrive. Non c’è un nocciolo della questione, la poesia – qualsiasi forma tu voglia darle – è qualcosa di potente se ami generare scorci per il tuo dentro. Un’illusione prospettica dopo l’altra ed ecco che, come chiamati a raccolta, i ricordi, i linguaggi, gli autori morti&viventi, gli spettri e gli immaginari danno vita a un intreccio nuovo, come a dire: scegli una stanza e apriti dentro.
- Paolo Zardi, La meccanica dei corpi (Neo Edizioni). Si tratta di una raccolta di cinque racconti. Che ruotano intorno alle relazioni umane e alle implicazioni che queste hanno all’interno del nostro sistema nervoso e sociale. Con più di una citazione all’interno. Dagli amanti ai figli, passando per un misterioso viaggio nel tempo. Che è possibile solo attraverso la mente, colei che custodisce il ricordo e la suggestione. Siamo materia destinata a perire, ma una manciata di sentimenti sembra sopravvivere a noi. Se è un bene o un male, non è dato sapere…
- Danielle Evans, L’ufficio delle correzioni storiche (minimumfax). I personaggi dei sette racconti di Danielle Evans, giovane e acclamata autrice statunitense, già inclusa nella selezione dei migliori giovani scrittori della National Book Foundation. Sono (quasi) tutti femminili, sono donne che hanno subito, e a volte anche dolorosamente introiettato, le conseguenze di una cultura che le ha escluse, spezzate, stordite, idealizzate. Che ha in ogni caso tolto loro qualcosa, in maniera più o meno diretta. Sono donne il cui colore della pelle ha fatto in qualche modo la differenza nelle relazioni. O sul posto di lavoro, o all’interno delle più sottili e inaspettate dinamiche sociali e familiari. Discriminate o sessualizzate, giudicate o trasformate in performance artistica. Polarizzate, a prescindere. Ogni storia che l’autrice presenta ai lettori cova qualcosa di irrisolto e sospeso, qualcosa di inafferrabile, almeno a parole. E la sensazione è quella di volerne sapere di più di queste donne, sorelle a cui credere, ma non è possibile, è questo il gioco.
- Gabriella Parca, Le italiane si confessano (nottetempo). Gabriella Parca è stata la prima giornalista a indagare il rapporto fra i sessi nell’Italia del dopoguerra. Tanto che nel 1959 pubblicò “Le italiane si confessano”, un testo che raccoglieva tutte le lettere considerate (secondo un bias patriarcale) più scabrose e compromettenti. E quindi impossibili da pubblicare sui settimanali femminili ai quali erano indirizzate. Testimonianze ancora pulsanti, storie di vita autentiche, specchio di un’intera società troppo spesso escludente. Il libro, oggi considerato un manifesto femminista, è ritornato in libreria dopo anni di oblio.
- Régis Messac, Quinzinzinzili (Tlon). È la prima volta che appare qui da noi in Italia questo inquietante e disilluso romanzo post apocalittico di Régis Messac. Scritto e pubblicato nel 1935, a un passo dal baratro, a un passo dal secondo conflitto mondiale. L’autore, pacifista militante, era già stato ferito durante la Prima guerra mondiale. Per poi essere arrestato dai tedeschi nel 1943. In una parabola discendente che lo vedrà deportato e confinato in diversi campi di concentramento in Germania. Fittizia la data della sua morte, più certa la potenza evocativa della sua penna. Specie per quel che riguarda proprio questo libro, tradotto per Tlon da Michele Trionfera. Che si regge sull’unica prima persona singolare possibile, quella del narratore. Ovvero Gérard Dumaurier, l’unico testimone, l’unico sopravvissuto. A dire il vero non l’unico in quanto essere vivente, l’unico in grado di rielaborare quella che è stata la storia dell’umanità sino alla sua distruzione. Il mondo è finito, è finito con un ghigno disperato, a causa di una guerra. È esplosa un’arma chimica che ha avvelenato l’aria, l’acqua, devastato l’intero ecosistema. Sono morti tutti. Tranne un uomo, otto bambini e una bambina. Si sono salvati per caso – e non per fortuna – solo perché poco prima dello scoppio della bomba si trovavano in una grotta. Erano usciti in comitiva, nel cuore di una natura incontaminata, per rinvigorire i bambini, alcuni dei quali malati di tubercolosi.
- Michael Bible, L’ultima cosa bella sulla faccia della terra (Adelphi). Romanzo d’esordio del giovane scrittore statunitense Michael Bible, tradotto in Italia per Adelphi da Martina Testa. È un romanzo breve, con un incipit che potrebbe essere un epitaffio: Eravamo innocenti. Convinti di essere speciali. Sbronzi tutti i weekend al centro commerciale. Il mondo era nelle nostre mani. Non ci importava del tempo. L’amore era una cosa scontata. La morte aveva paura di noi. Adesso abbiamo il grigio sulla barba. Il cielo è un livido viola. Il centro commerciale è morto. Siamo i vecchi che avevamo giurato di non diventare mai.
In queste poche righe iniziali la eco di una voce lontana traccia i profili di una cornice narrativa asfittica. Come asfittico è il luogo fisico e rurale in cui si intrecciano le trame di vite disorientate. Quasi rassegnate a un principio di svuotamento interiore dettato dall’impossibilità di autodeterminarsi. Di andarsene davvero una volta per tutte.
Chi ci ha provato ha scelto il fuoco, ma le fiamme non hanno cancellato né il dolore né il senso di inettitudine perenne e latente. Hanno solo acuito la rabbia e il disprezzo. E trasformato la morte sociale di un uomo nella sconfitta di un’intera civiltà attraverso la pena di morte inflitta a lui, a Iggy, che un giorno si decide. Vuole uccidersi e sceglie la chiesa.