“Barbie” di Greta Gerwig: contro estetica di un mito
«Lei può essere tutto ciò che vuole. Lui è solo Ken».
(dal film “Barbie” di Greta Gerwig)
Commedia fantasy, live action, instant cult: tutte queste definizioni (e altre ancora, tra le molte escogitate per sintetizzare, in qualche modo, l’essenza di “Barbie”) esprimono con grande evidenza l’incertezza critica riguardo all’oggetto filmico a cui ci troviamo di fronte con quest’ultima pellicola di Greta Gerwig, classe 1983, esponente di spicco – insieme al compagno Noah Baumbach (“Frances Ha”, 2012; “Storia di un matrimonio”, 2019; “Rumore bianco”, 2022) – del cinema indie americano degli ultimi anni.
Non è, in fondo, semplice – nel tempo del #MeToo e dei discorsi sul rispetto dell’identità di genere e/o del superamento della stessa – cogliere il senso più profondo di un’opera che sembra rispolverare la caratterizzazione più esteriore, pop, colorata e caramellosa, di un surrealismo patinato e modaiolo, della celebre bambola-icona con fattezze adulte da pin-up coniata nel lontano 1959 dalla casa di giocattoli statunitense Mattel, su modello europeo.
Un’operazione puramente commerciale?
Trattandosi della Gerwig e di Baumbach (qui in veste di co-sceneggiatore), espressioni di una cinematografia low budget attenta e sensibile alle tematiche sociali, ambientali, umaniste, diremmo proprio di no: anche perché, per quanto riguarda la Gerwig nello specifico, “Barbie” può venire inteso come il più recente capitolo di un percorso di esplorazione – non femminista ma orientato al femminile, alle sue lotte, ai suoi problemi, alle ansie, all’idea di futuro – specialmente delle più giovani tra le generazioni di donne che si sono avvicendate negli ultimi decenni, tra la fine del secolo scorso e l’oggi (vedi, a questo proposito, la stessa Frances protagonista del film di Baumbach, co-sceneggiato e interpretato dalla Gerwig; come la Christine di “Lady Bird”, 2017, e le tre sorelle che animano il remake del classico ottocentesco “Piccole donne” di Louisa May Alcott, 2019).
Concluso dopo anni di ritardi e controversie (il progetto originario, del 2009, era stato affidato dalla Mattel alla Universal, che in seguito lo cedette alla Sony nel 2014, sino ad arrivare – tra ipotetici nomi di attrici papabili per il ruolo di Barbie, da Amy Schumer ad Anne Hathaway – al 2019 dell’ulteriore passaggio alla Warner e al conseguente reclutamento di Gerwig-Baumbach, funestato l’anno seguente dalla pandemia), il film della cineasta californiana è già campione al box-office italiano nella prima settimana di programmazione.
Nel mondo ha, invece, dato origine – grazie a un ben orchestrato battage pubblicitario – al cosiddetto fenomeno “Barbenheimer”, il cui nome deriva da un incrocio nato sui social media tra i titoli dei due blockbuster usciti in contemporanea lo scorso 21 luglio negli Usa e in altri Paesi del mondo (il secondo titolo è “Oppenheimer” di Chris Nolan, sugli schermi in Italia a fine agosto).
Gerwig racconta, dunque, il processo di affrancamento di Barbie (Margot Robbie) e delle sue amiche/colleghe dalla schiavitù della perfezione, l’allontanamento da Barbieland sulle tracce della vita reale.
L’accompagna un Ken (un Ryan Gosling in versione biondo platino che – al pari della Robbie – riesce con sagacia a rimanere sul filo della credibilità attoriale senza cadere più di tanto nella dimensione grottesca in cui è costretto a muoversi insieme alla sua partner) più che mai plastificato e irrigidito nella sua mascolinità luminosamente artefatta, insulsa e senza particolari variazioni né sorprese.
A riprova del fatto – pare voler sottolineare la regista – che è sempre l’elemento femminile quello che problematizza, che si mette in discussione, anche quando parte da una condizione di apparente superiorità. A livello visivo la Gerwig stessa ammette di essersi ispirata alla tradizione del musical classico in Technicolor – sia americano che europeo – in voga tra la fine degli anni 40’ e la metà degli anni 60’, con le sue coreografie artificiose e l’uso antinaturalistico del colore.
Proprio questa scelta in funzione del rafforzamento del senso di finzionalità del plot, alla lunga riesce a inficiarne il discorso di fondo, che è, invece, tremendamente realista, collegandosi – come si è detto – alla riflessione sulle trasformazioni del femminile iniziato dalla Gerwig sin dagli esordi della sua carriera di attrice e regista.
Un azzardo, quello di “Barbie”: il complesso lavoro di racconto e messa in scena di ‘un’icona controversa’, come la definisce la cineasta nel corso di un’intervista a Extratv rilanciata da Coming Soon lo scorso 27 luglio: «Onestamente abbiamo passato un sacco di tempo a rimuginare su come avremmo potuto impostare la storia: cosa volevamo raccontare? Come affrontiamo proprio la cosa in generale? Voglio dire, Barbie è stata inventata nel 1959 ed esiste ancora, ha cambiato aspetto così tante volte. A mia madre Barbie non piaceva, quindi avevo ben presente queste cose, il fatto che fosse un’icona controversa. E allora invece di respingere tutto questo abbiamo deciso in un certo senso di correre incontro a queste complicazioni, a tutte le cose che potevano essere spinose. Ci siamo detti: partiamo proprio da lì. […] È una cosa molto umana quando le cose intorno a te cominciano a franare e dici: <Oh no, no, no, non voglio, voglio che tutto rimanga come sta!> Ma se ti opponi non ottieni nulla, devi lasciarti andare. Se tutto crolla, devi dirti: <Va bene così>. Barbie è l’emblema della perfezione plasticosa. Mi son detta: <quale miglior viaggio potrebbe affrontare se non quello che le dà umanità, che le concede di andare in pezzi?>».
Barbie (id.)
Origine: Usa, 2023, 114’
Regia: Greta Gerwig
Sceneggiatura: Greta Gerwig, Noah Baumbach
Fotografia: Rodrigo Prieto
Montaggio: Nick Houy
Musica: Alexandre Desplat
Cast: Margot Robbie, Ryan Gosling, America Ferrera, Kate McKinnon, Issa Rae, Rhea Perlman, Hari Nef, Alexandra Shipp, Emma Mackey, Michael Cera, Sharon Rooney, Kingsley Ben-Adir, Dua Lipa, John Cena, Will Ferrell.
Produzione: Heyday Films, LuckyChap Entertainment, Mattel Films
Distribuzione: Warner Bros.