In pensione primario che divenne medico grazie a un telefilm
Il congedo di Paola Franzone, radioterapista specializzata in pazienti oncologici. «I ‘grazie’ sono la benzina che ci fa andare avanti». Decisiva la tivù svizzera
La gratificazione sta spesso in un sorriso. O magari nei biglietti d’auguri, puntali a ogni Natale e a ogni Pasqua, come quelli che ancora riceve Paola Franzone da chi a lei deve la vita. «E tutte le volte che ci penso, mi commuovo» dice il medico, confermando lo stato emotivo mentre di questo racconta.
È radioterapista, spesso costretta a confrontarsi con casi oncologici.
Album dei ricordi: ne affiora uno. «Io, per quanto di ma competenza, e il mio collega chirurgo Giuseppe Spinoglio intervenimmo più volte su una donna il cui quadro clinico era molto complesso. Fu difficile tanto decidere quanto agire. Andò tutto per il meglio. La signora ancora adesso mi ringrazia, a distanza di anni».
È quella che manda gli auguri in prossimità delle feste comandate e che, ogni volta, fa commuovere la dottoressa, classe 1956, laureata nel 1981, genovese che dal 2004 lavora all’ospedale di Alessandria.
Dipartimento articolato
Se sapessimo che questo articolo lo leggerete da domani in poi, dovremmo scrivere “ha lavorato”, perché quella odierna, per lei, è l’ultima col camice bianco. Poi Franzone farà rima con pensione, non solo per modo di dire.
Ha un curriculum senza squarci di noia. Quando arrivò nella nostra città, vincitrice di concorso, di primari donne ce n’erano solo 3. Lei ora è l’unica (fino a oggi, s’intende) a dirigere un dipartimento, peraltro articolato perché spazia dal Laboratorio analisi, alla Microbiologia, dalla Radiologia alla Radio Terapia, dal Centro trasfusionale alla Medicina nucleare. Lo fa dal 2016. Il suo vice è il dottor Alfredo Muni, che assumerà l’incarico. In Radioterapia, invece, sarà Laura Berretta a rilevarne i compiti.
Evoluzione tecnologica
«L’Ospedale può contare su uno staff molto preparato» dice, come a voler sottolineare che se ne va in pensione tranquilla. «Non farò la professione privatamente, ma mi dedicherò a progetti di volontariato e terrò lezioni all’Università delle terza età, sempre a Genova, città in cui, io novarese, sono stata trapiantata».
Tornerà ad Alessandria di tanto in tanto per la necessità di mettere in funzione un acceleratore lineare acquistato di recente: «È un macchinario fondamentale per il nostro reparto, il terzo acquisito in vent’anni – racconta – È anche la testimonianza di come ci sia voglia di investire e di stare al passo con l’evoluzione tecnologica, che ha compiuto passi da gigante anche nel nostro settore. Pensiamo alla robotica che consente interventi chirurgici mirati, con pochissimi effetti collaterali».
«Ospedale in crescita»
Né bisogna dimenticare le terapie biologiche o con anticorpi monoclonali, o la biologia molecolare attraverso la quale si possono impostare cure personalizzate e mirate a seconda dei casi.
«Certo è che l’aggiornamento resta fondamentale – aggiunge – e che la Radioterapia di Alessandria, ormai, non ha nulla da invidiare a quella di altri ospedali di città molto più prestigiose. Ma è tutto il Santi Antonio e Biagio a essersi evoluto. Vent’anni fa era già un hub importante, ora è in rampa di lancio con la candidatura a Irccs e ad Azienda ospedaliera universitaria. Il prossimo anno, inoltre, avremo i primi laureati della Scuola di medicina che cominciarono il percorso di studi qui. Potrebbe essere un bell’antidoto alla carenza di medici».
Televisione fatale
Però, spulciando nella biografia di Paola Franzone, forse più che un ateneo potrebbe essere utile una fiction.
«Avevo 10-11 anni, abitavo a Novara, si guardava la tivù svizzera, rigorosamente in bianco e nero. Ricordo il dottor Gemmon, medico americano dal fascino pazzesco. Era il protagonista di un telefilm che definirei contagioso. Sarà un caso, ma molti di quelli della mia età hanno intrapreso la strada della Medicina. C’era concorrenza, si faceva gavetta. Adesso non è più così, purtroppo, e la penuria di medici si sta facendo sentire».
E pensare che è una professione che può dare molte soddisfazioni. «Non nego le difficoltà, ma neanche le dimostrazioni d’affetto e di riconoscenza che sono quelle che ti permettono di andare avanti e di superare i momenti difficili». I suoi sono anche dovuti alla logistica. «Abito a Genova, faccio la pendolare classica. Raggiungo Alessandria in auto, oppure in treno. Avevo anche una bicicletta con cui percorrevo la tratta stazione-ospedale».
Donna equilibrista
La routine si concluderà oggi. «Da quando si è sparsa la voce del pensionamento, sto ricevendo messaggi di auguri e ringraziamenti. Ecco, sono queste, come dicevo, le che ti appagano e che compensano tutto il dolore che, talvolta, ti porti a casa, perché lavorare con pazienti oncologici non è facile».
Farlo da donna, però, non ha comportato difficoltà. «Con me non sono mai stata fatte questioni di genere. Penso che se si lavora con volontà, passione e impegno i risultati li ottenga tanto un maschio quanto una femmina e i valori vengano riconosciuti. Certo è che le donne sono abituate agli equilibrismi, dovendo gestire la famiglia».
A proposito: lei ha due figli, ma nessuno ne ripercorre le orme. Uno ha preferito fare l’ingegnere, come il padre, l’altro è laureato in Economia.
L’ultima annotazione ha un fondo di verità: «Dico sempre che la Sanità è molto donna, perché noi abbiamo innati il senso dell’accudimento materno e la sensibilità. Ora si sta perfino capendo che una donna può aspirare a ruoli apicali…».