La memoria dei vinti: “Roma città aperta”
«Ma che colpo al cuore, quando, su un liso cartellone…Mi avvicino, guardo il colore già d’un altro tempo, che ha il caldo viso ovale, dell’eroina, lo squallore eroico del povero, opaco manifesto. Subito entro: scosso da un intenso clamore, deciso a tremare nel ricordo, a consumare la gloria del mio gesto. […] Ecco…la Casilina, su cui tristemente si aprono le porte della città di Rossellini…ecco l’epico paesaggio neorealista, coi fili del telegrafo, i selciati, i pini, i muretti scrostati, la mistica folla perduta nel daffare quotidiano, le tetre forme della dominazione nazista…Quasi emblema, ormai, l’urlo della Magnani, sotto le ciocche disordinatamente assolute, risuona nelle disperate panoramiche, e nelle sue occhiaie vive e mute si addensa il senso della tragedia. È lì che si dissolve e mutila il presente, e assorda il canto degli aedi».
(Pier Paolo Pasolini, “La religione del mio tempo”, Garzanti, Milano, 1961)
Proiezione al ‘Nuovo’ di “Roma città aperta”, restituisce, con l’intensità poetica che è propria di Pier Paolo Pasolini, le emozioni provate davanti alla nascita di un mito: non solo quello legato all’avviarsi dell’esperienza neorealista, sia in letteratura come sul grande schermo, ma soprattutto quello che ha per icona la figura di Anna Magnani, il cui profilo tremolante e sbiadito – cristallizzato per l’eternità dentro il tempo di un’inquadratura, una manciata di secondi – entrerà con una rapidità straordinaria a far parte dell’immaginario di un’epoca, travalicando, poi, gli anni e le mode.
Il cammino americano che porterà Nannarella a misurarsi con le grandi, torbide storie raccontate dal cinema hollywoodiano inizia proprio qui, con un urlo straziante; con un corpo che cade sordo sul selciato di via Montecuccoli, al quartiere Prenestino. Roberto Rossellini, nel corso di una conversazione con Mario Verdone, ricorda: «”Roma città aperta” è il film della ‘paura’: della paura di tutti, ma soprattutto della mia. Anch’io ho dovuto nascondermi, anch’io sono fuggito, anch’io ho avuto amici che sono stati catturati e uccisi. Paura vera: con trentaquattro chili di meno, forse per la fame, forse per quel terrore che in “Città aperta” ho descritto».
«Girai il film con pochissimi soldi – racconta Rossellini in un’altra occasione – raccolti a stento, a piccole dosi; c’era a malapena di che pagare la pellicola, che non potevo nemmeno mandare a sviluppare perché non avrei saputo come pagare il laboratorio. Non vi fu dunque alcuna proiezione di prova prima della fine della lavorazione. Più tardi, avendo trovato ancora un po’ di denaro, montai il film e lo presentai a un ristretto pubblico di intenditori, critici e amici. Per quasi tutti fu una delusione».
Il film, in effetti, in Italia non riscuote i consensi sperati, soprattutto a causa della novità del tema, dell’ambientazione e della modalità di racconto: in maniera assolutamente inaudita per il cinema edulcorato dell’epoca, costretto all’interno di fittizi salotti borghesi, il grande schermo si riempie della violenza della Storia, delle misere vicende di guerra, della quotidiana lotta per la sopravvivenza di personaggi dai volti così simili a quelli degli italiani in carne ed ossa.
“Roma città aperta” risulta ancora oggi, a settantotto anni dalla sua uscita nelle sale italiane (il 27 settembre 1945) e persino allo sguardo dello spettatore smaliziato e avvezzo alle molteplici rappresentazioni cinematografiche della violenza più efferata, un’opera conturbante, sia nella terribilità del suo assunto sia nelle modalità della rappresentazione di quanto vi viene narrato.
Anna Magnani, che nel film di Rossellini ha rivestito le tragiche vesti della “sora Pina” (adombranti, in realtà, la figura reale di Teresa Gullace, una donna incinta di sette mesi uccisa dai tedeschi di fronte alla caserma del quartiere Prati dove era detenuto il marito, in attesa con altri prigionieri di venire deportato), dichiarava già in quegli anni di non essere più riuscita a rivedersi in quel ruolo, che pure aveva accettato con grande entusiasmo girando scene complesse senza controfigura, per la possibilità che le veniva offerta di andare oltre i soliti stereotipi della rappresentazione del femminile nel cinema dell’epoca: «Io da anni urlavo quasi: “Ma è possibile che non si possa fare un film su una donna qualunque, che non sia bella, non sia giovane…”. D’accordo, allora ero giovane, comunque. “Perché?”, ripetevo, “perché non un film su una donna della strada che non sia diva, falsa?”. Quando vennero a leggermi il copione di “Roma città aperta”: “ci siamo”, dissi, “questo è meraviglioso”».
Anche Ingrid Bergman – la diva hollywoodiana per eccellenza che si offrì per lavorare con Rossellini nel cinema italiano e per la quale il regista lasciò la Magnani, sua compagna, scatenando nell’estate del 1949, alle isole Eolie, la cosiddetta “Guerra dei vulcani” – era rimasta profondamente impressionata dalla visione del film, arrivando a scrivere – molti anni più tardi – nella sua autobiografia: «”Roma città aperta” era di un realismo e di una semplicità sconvolgenti. Gli interpreti non sembravano attori e non si esprimevano come attori. Le immagini erano buie e piene di ombre, a volte non si riusciva né a sentire né a vedere, eppure ci si rende conto che qualcosa di inafferrabile sta avvenendo. Era come se i muri delle case e le pareti delle stanze si fossero volatilizzati, rivelando ciò che succedeva al loro interno. Non solo, si aveva quasi la sensazione di essere presenti, di partecipare a quanto avveniva fino a piangere o a soffrire con i personaggi del film».
Con il ruolo di Pina in “Roma città aperta” viene a delinearsi per la Magnani quella prima congiuntura tra persona reale e personaggio che, nel corso degli anni, costituirà la cifra inconfondibile del particolare tipo di divismo da lei rappresentato, in palese controtendenza con il tipo di donna che ha dominato gli schermi cinematografici italiani sino all’avvento del Neorealismo. La Pina è uno tra i più classici esempi di quasi totale aderenza tra corpo dell’attore e corpo del personaggio: una simbiosi dovuta a molti e disparati fattori – caratteristiche fisiche, affinità caratteriale – ma tale da rendere estremamente difficile e pericoloso ogni tentativo di scollamento, con il rischio di vedersi sottrarre la propria riconoscibilità artistica. La parabola d’attrice di Anna può essere iscritta in un continuo e altalenante processo di avvicinamento ed allontanamento dalla Pina – la verace donna del popolo, la madre mancata, la combattente – che comprende anche i film girati in America.
La drammatica pellicola di Rossellini, che riprende un fatto di cronaca risalente all’occupazione nazista di Roma – l’uccisione di don Luigi Morosini, interpretato da Aldo Fabrizi (in foto) – non riscuote un soverchio successo in Italia, nonostante gli vengano attribuiti, nel 1946, ben tre Nastri d’Argento da parte del Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici (miglior film a soggetto, migliore regia – alla pari con “Un giorno nella vita” di Blasetti e “Sciuscià” di De Sica – e migliore attrice non protagonista).
Diversa è l’accoglienza riservata al film in Francia, dove lo stesso anno viene presentato fuori concorso al primo Festival di Cannes vincendo il Grand Prix come miglior film, e in America, che lo candida al Premio Oscar per la miglior sceneggiatura originale: negli States le pellicole neorealiste sono considerate tra le migliori espressioni del cinema mondiale sia per la novità del linguaggio che dei contenuti, e i registi e gli attori italiani vere e proprie icone. Con “Open City” il pubblico americano scopre il Neorealismo e, nello stesso tempo, la sua attrice-simbolo, la Magnani, con la sua fisicità prorompente, il dinamismo che riempie e buca lo schermo, la recitazione così lontana dalla studiata compostezza delle sue stelle del cinema.
Il film viene replicato per più di due anni al World Theatre di New York, e nel dicembre 1946 riceve il riconoscimento quale miglior film straniero da parte dello U.S. National Board of Review e del New York Film Critics Circle Award, due prestigiose associazioni di critici e giornalisti cinematografici. Anche la Magnani viene proclamata dall’U.S. National Board miglior attrice dell’anno: si tratta del suo primo riconoscimento oltreoceano.
«Non è che un giorno ci siamo seduti a un tavolino di via Veneto, Rossellini, Visconti, io e gli altri e ci siamo detti: adesso facciamo il neorealismo. Addirittura ci si conosceva appena. Un giorno mi dissero che Rossellini aveva ricominciato a lavorare. “Un film su un prete” dissero, e basta. Un altro giorno vidi lui e Amidei seduti sul gradino d’ingresso di un palazzo in via Bissolati. “Che fate?” domandai. Si strinsero nelle spalle: “Cerchiamo soldi. Non abbiamo soldi per tirare avanti il film…”. “Che film?” “La storia di un prete. Sai, don Morosini, quello che i tedeschi hanno fucilato”».
Così Vittorio De Sica, con Rossellini e Visconti fra gli epigoni dell’avventura neorealista che si schiude al finire del secondo conflitto mondiale, ricorda i tentativi fortuiti, la casualità e l’improvvisazione che, insieme alle macerie del passato, dominano il cinema italiano. La guerra ha scosso dalle fondamenta, oltre che un’intera nazione, anche i suoi apparati produttivi e artistici, che all’improvviso si trovano di fronte ad una tabula rasa in apparenza disastrosa per il futuro della cinematografia nazionale, in realtà foriera di nuovi, imprevisti sviluppi.
Le città rase al suolo dai bombardamenti, gli scenari desolati dei centri urbani e delle periferie, unificati dalla miseria e dalla quotidiana lotta per la sopravvivenza di un intero popolo, l’esiguità di mezzi tecnici ed economici: i futuri fautori della rinascita del nostro cinema, in alcuni casi già presenti con le loro opere nell’industria prebellica (vedi i film rosselliniani di epoca fascista, quali “La nave bianca”, “Un pilota ritorna” e “L’uomo della croce”), hanno a loro disposizione, come materiale da ricostruzione, soltanto delle rovine.
Anche il panorama culturale che dovrebbe fare da sfondo e da supporto alla ritrovata attività registica si rivela desolante: l’autarchica cultura fascista, interrompendo la comunicazione con le grandi correnti europee, lascia al suo tramonto immense lacune e vuoti difficili da colmare. La grande intuizione degli autori della prima generazione neorealista, allora, può venire facilmente racchiusa nell’affermazione di Rossellini: «Il realismo, per me, non è che la forma artistica della verità», dove il concetto di “verità” è indissolubilmente connesso alle multiformi stratificazioni del “reale” che, nella sua perturbante desolazione, prolifera tutt’intorno all’obiettivo della macchina da presa.
Nel 2002 in “L’alba di un mondo nuovo” (Einaudi), Alberto Asor Rosa scrive a proposito della proiezione di “Roma città aperta”, cogliendo con grande efficacia l’essenza e l’atmosfera del film «nel grigio inverno che seguiva allo svolgimento reale degli avvenimenti descritti»: «Il codice dei film americani vi era radicalmente rovesciato. Il pubblico in sala non era invitato a sognare che cosa gli sarebbe potuto accadere in una situazione analoga a quella che vedeva raccontata, ma gli si faceva vedere quel che lui era o quel che era stato fino a pochi mesi prima. In giro per la sala c’era la stessa gente umile, poveramente vestita, smunta, con i buchi della fame sotto gli zigomi, gli zatteroni di sughero consunti, gli abitucci di cotone leggero, le giacche lise, insomma le stesse povere cose di quei personaggi che, a poca distanza da loro, recitavano la loro modesta storia sullo schermo».*
*Le citazioni di questo articolo sono tratte da “Anna Magnani. Un’attrice dai mille volti tra Roma e Hollywood” (edizioni Petite Plaisance, 2022)
“Roma città aperta”
Regia: Roberto Rossellini
Origine: Italia, 1945, 99’
Aiuto regia: Sergio Amidei, Federico Fellini
Sceneggiatura: Sergio Amidei, Federico Fellini
Fotografia: Ubaldo Arata; scenografia: Rosario Megna
Montaggio: Eraldo Da Roma
Musica: Renzo Rossellini
Interpreti: Aldo Fabrizi (Don Pietro Pellegrini); Anna Magnani (Pina) Marcello Pagliero (ingegner Giorgio Manfredi); Vito Annichiarico (il piccolo Marcello); Nando Bruno (Agostino, il sagrestano); Harry Feist (maggiore Fritz Bergmann); Giovanna Galletti (Ingrid); Francesco Grandjacquet (Francesco)
Produzione: Giuseppe Amato, Ferruccio De Martino, Rod E. Geiger, Roberto Rossellini p2002er Excelsa Film