Il giornalismo e le sfide della digitalizzazione: Ferruccio De Bortoli oggi ad Alessandria
«I giornali? Non sono mai stati letti come oggi». Appuntamento alle 21 all?auditorium della Parrocchia di San Baudolino
«Sì ragionerà sul senso di responsabilità di un cittadino, di una professione e di un cattolico». Ferruccio De Bortoli, grande firma del giornalismo italiano ed ex direttore del Corriere della Sera e del Sole 24 Ore, il 29 novembre (ore 21 all’auditorium della Parrocchia di San Baudolino di Alessandria) aprirà i ‘Martedì dell’Avvento’, ciclo di conferenze organizzato dalla Diocesi in collaborazione con il Centro di Cultura dell’Università Cattolica di Milano e il Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale di Alessandria. In calendario per il 6 e il 13 dicembre anche Silvio Garattini, fondatore e presidente dell’Istituto Mario Negri di Milano, e don Maurizio Patriciello, testimone della Terra dei Fuochi.
De Bortoli, cosa legge appena sveglio?
«Il primo riferimento è il Corriere della Sera, non potrebbe essere diversamente».
C’è una firma, anche al di fuori del CorSera, che cerca con costanza?
«Mi interessano più gli argomenti, le firme restano in secondo piano. Detto questo, ci sono tanti colleghi che scandiscono la mia giornata con il loro acume, con il loro linguaggio innovativo, con la loro cultura».
Qualche nome?
«‘Chiedete sempre i nomi!’. Ai miei colleghi ho sempre detto che nell’ambito della nostra professione è necessario chiedere sempre nomi e cognomi. Ma in qualità di intervistato, non casco nella trappola…»
Lei ha affermato che ‘oggi i giornali sono letti come mai in passato’. Aggiungerei che allo stesso tempo sono più poveri di quanto non lo siano mai stati. Un bel paradosso, non crede?
«Non sono d’accordo. Il vero paradosso è che i giornali vengono da lontano, ma non appartengono al passato. Certo, sono in crisi come prodotto cartaceo, ma non lo sono per il racconto della realtà e per il confronto sulle idee che creano. Molte cose che si dibattono sulla rete nascono dalle inchieste e dagli articoli del mondo mainstream dell’informazione. Social, podcast, video: il ruolo del giornalista è sempre più centrale. Ovviamente serve farlo con le giuste conoscenze e con le adeguate competenze. La sfida della qualità è sempre maggiore».
Giornalisti che però sono sempre meno pagati, talvolta con una preparazione zoppicante e costantemente a confronto con una mole di lavoro crescente…
«La professione si sta, per alcuni versi, proletarizzando; per altri versi, però, è attratta dallo star system. Le ‘firme’ diventano ‘autori’ e hanno un trattamento, in tutto e per tutto, più simile a quello degli artisti. A questo va aggiunto che gli editori, essendo più deboli, tendono a economizzare sull’investimento del capitale umano. Servono tanti anni per creare un buon giornalista: poi bisogna difenderlo nella sua indipendenza e consentirgli di diventare un esperto della materia della quale si occupa. L’editoria digitale ha certamente abbassato l’età media dei giornalisti, cambiando le regole di molte redazioni e consentendo ad alcuni di loro di diventare editori di sé stessi».
E l’Ordine?
«L’Ordine deve riformarsi. Dovrebbe essere meno corporativo e più organo di garanzia nel rapporto tra lettori e giornalisti».
In passato la percezione che le persone avevano del giornalista era diversa: cos’è cambiato?
«Il ruolo è certamente differente. Il classico giornalista mainstream ha un ruolo ben definito da tempo. La digitalizzazione ha creato nuove forme di giornalisti e introdotto una rivoluzione che è ancora in corso. Gli stessi fruitori, ad esempio, possono essere produttori: non sempre veritieri, a volte verosimili, molte volte inutili. Ma contribuiscono alla raccolta delle informazioni. La rete, inoltre, permette di controllare velocemente ciò che non è vero, ma il fatto che gli algoritmi selezionino le notizie da presentare agli utenti solo in base alle loro scelte precedenti, crea mondi chiusi che solo il buon giornalismo, di qualità e indipendente, può aprire. In una democrazia rappresentativa nella quale l’opinione pubblica è architrave delle istituzioni, il ruolo del giornalista non può che essere centrale».
A tutto questo va aggiunto che i modelli di business dell’informazione sono radicalmente cambiati. E con loro anche il grado di libertà dell’informazione…
«I modelli di business che si basano sulla vendita ai lettori e sugli incassi pubblicitari sono fortemente in crisi. Il grado di libertà di una testata è il risultato del rapporto tra la redazione, l’editore e il mondo esterno. E la ‘redazione forte’ è il perno della questione. Ovviamente oggi i giornali sono fornitori di informazioni multicanale (articoli, immagini, video, newsletter, podcast…) e questo ha cambiato profondamente i modelli di business. Restano determinanti gli abbonamenti, ma gli editori sono diventati anche creatori di eventi, organizzatori di manifestazioni, editori di libri, produttori di materiale cinematografico e televisivo. La figura dell’editore deve evolversi costantemente, pur in un mercato dalla crisi irreversibile».
Pensieri da ‘uomo macchina’. A proposito: lei è più ‘uomo macchina’ o più ‘uomo contenuto’?
«Difficile distinguere la macchina dal contenuto. Il giornale è un prodotto collettivo che nasce in un contesto di vita comune, di tensione, di ideali, di scontri, di momenti bui e di momenti belli. Quell’articolo non è solo il frutto di chi lo firma. E quindi la distinzione tra macchina e contenuto non è sempre facile da fare. Macchina e contenuto non vanno mai persi di vista».
Con chi vorrebbe prendere un caffè?
«Vorrei prendere un caffè con chi ama questa professione, per conoscerla ancor più in profondità. Ma allo stesso tempo lo prenderei volentieri anche con le tante persone che sono distanti dal mio mondo, che vivono esperienze diverse dalle mie, che hanno idee e problemi differenti dai miei. Ma soprattutto lo prenderei con chi vorrebbe fare qualcosa di buono per la nostra società».
E a chi, invece, lo negherebbe?
«C’è una vecchia battuta che dice che ‘un sigaro e un titolo da cavaliere non si negano a nessuno’. Io penso che anche un caffè non si neghi a nessuno. Questa domanda mi fa venire in mente il ‘caffè sospeso’, un’idea straordinaria di questo Paese. Condividere un caffè è un gesto sociale di apertura nei confronti degli altri».
Parliamo di potere: lei ne ha avuto tanto e ne ha incontrato tanto. Qual è la sua regola per gestirlo al meglio?
«Ho in mente tanti volti del potere: alcuni apprezzabili, alcuni pavidi, alcuni inutili e alcuni pericolosi. Una storica pubblicità della Pirelli diceva che ‘la potenza è nulla senza il controllo’: aggiungo che il potere è troppo senza controllo. È necessaria la trasparenza, perché se c’è trasparenza c’è responsabilità. Senza trasparenza non c’è informazione, non c’è riconoscenza del merito e senza riconoscenza del merito non c’è legge. I giornali, tra le tante attività, cercano di fare luce dove non ce n’è, di illuminare chi merita, chi si impegna per la società. Rispetto a quello che succede sui social, il mondo dell’informazione tradizionale ha sempre una firma e dunque una responsabilità».
Un hashtag per il nostro Tempo?
«#ilfuturostainnoi»