1994, la tragedia dell'alluvione: guarda il docufilm
Alessandria - Chi c'era non può dimenticare. Altri avranno saputo, letto, ascoltato. Era il 1994, era novembre, il 6. La…
Quel 6 novembre che non ci dimenticheremo più. Cronaca dalla città sconvolta
Ricordo ancora quell’odore di umido, di petrolio diluito nel fango. Un odore che ti prende, che t’avvolge, senza nemmeno infastidirti troppo, che non ti disgusta, limitandosi a farti comprendere che difficilmente riuscirai a scacciarlo o a dimenticarti di lui.
E quei rumori, quelle voci, quei suoni tetri, li sento ancora eccome. Le imprecazioni di chi non è più riuscito a darsi un contegno, il singhiozzare di quelli impegnati a trattenere le lacrime ma costretti ad affondare nel magone. Il frastuono di mobili buttati in strada, uno sull’altro. Tutto è uguale, il legno pregiato come il truciolato, la plastica come il vetro. Ricordo ancora quelle montagne di rifiuti, quei castelli sbilenchi di elettrodomestici e pentolame, di sedie e suppellettili. Di libri e ricordi.
Tutto ai bordi delle strade, tutto d’un solo colore. Tutto divorato dall’acqua che è uscita dal Tanaro e ha deciso di far visita a mezza città, o quasi, senza pietà per le case e le cose, per la gente e gli animali. Sono bastate due ore per cambiare la storia recente di Alessandria, di uomini e donne che guardavano al Tanaro con l’indifferenza che si riserva a un qualcosa che c’è, che potrebbe non esserci, che fa parte del quotidiano in assoluta neutralità.
1994, la tragedia dell'alluvione: guarda il docufilm
Alessandria - Chi c'era non può dimenticare. Altri avranno saputo, letto, ascoltato. Era il 1994, era novembre, il 6. La…
Ricordo ancora cos’ha lasciato il fiume, quando l’acqua si è ritirata. La desolazione, lo sconforto, la rabbia, i lutti. Quelle montagne di rifiuti… Tutti a togliere dalle case e a scaraventare in strada. Lettere, cartoline, riviste, album di foto… Mauro aveva una collezione di libri dedicati a Fausto Coppi, raccolti in anni e anni, frequentando i mercatini e contrattando i prezzi. È vita quel che il fango s’è inghiottito e che è finito al bordo delle vie, confuso nella melma e schiacciato da un vecchio divano che ha lo stesso colore di una credenza, di un materasso, di abiti da cerimonia che mai nessuno indosserà più.
È vita anche il negozio sommerso. Aveva la porta blindata, l’antifurto, la saracinesca, ostacoli che l’acqua non conosce. È vita la stalla, la cascina ristrutturata col mutuo. Erano vita gli animali. Hanno visto il Tanaro arrivare, l’istinto li avrebbe portati in salvo, ma erano legati a una catena che li ha costretti alla morte.
Ricordo quelli che chiedevano pietà, che invocavano Dio. Quelli che pensavano che le alluvioni potessero accadere solo in un posto diverso da qui, quelli che credevano che il Polesine fosse chissà dove e il 1951 la preistoria. Invece è il 1994, è il 6 novembre, domenica, è Alessandria. È la desolazione.
Angiolino aveva già visto e sperimentato tutto, proprio in Polesine. Allora ebbe la fortuna di abitare dove l’argine del Po era più robusto e il suo paese fu preservato. Ma, poiché l’enormità del disastro lasciò mestizia e povertà, decise di trasferirsi, mai più pensando che in Alessandria avrebbe conosciuto un’altra alluvione, questa volta crudele anche con la sua casa. Lo ricordo Angiolino, quelle braccia allargate in segno di impotenza e di resa, quelle notti trascorse da sfollato, quell’alloggio di fortuna trovato quasi per caso, in attesa che i muratori rimettessero in sesto la sua casa, dove l’acqua era arrivata a tre metri d’altezza.
Ricordo l’abbraccio di persone riviste dopo settimane. Non servivano parole, bastavano una smorfia per capire che quasi tutto era andato perduto e un mezzo sorriso per comprendere che la voglia di ricominciare a vivere era tanta quanto lo sconforto per essersi sentiti morire.
Sento ancora le voci della radio, gli appelli. Il sindaco Francesca Calvo che è intervenuta a ‘Tutto il calcio minuto per minuto’, violando l’impero del pallone per convocare chiunque potesse dare una mano, anche con barche e gommoni. I deejay delle emittenti di casa nostra hanno dimenticato i dischi e cominciato la lettura di un lungo elenco di appelli che sarebbe proseguito per giorni e giorni. Un notiziario infinito, con la ricerca di persone di cui non si conosceva il destino, con le telefonate di chi aveva trovato rifugio in scuole, case di riposo, tendopoli improvvisate: volevano tranquillizzare i parenti, ammesso che fossero all’ascolto. La voce strozzata chiedeva gente che spalasse, stivali di gomma, badili, guanti. E se qualcuno ha del cibo lo porti, se acqua potabile, meglio ancora. Ricordo la televisione, che mostra il dramma. Ti sembrava fosse chissà dove, poi riconoscevi la strada che frequenti ogni giorno, gli angoli, le case, il volto di un amico.
Quando il Tanaro devastò Alessandria
ALESSANDRIA - Era domenica, quel 6 novembre. Il maltempo in Piemonte, con crolli e esondazione di fiumi, causò 78 morti.…
Il Tanaro, ma com’è possibile che abbia fatto tutto questo? Ora guardi il fiume, è lì che scorre quasi impercettibilmente, accarezza le sponde, lo potresti attraversare da una riva all’altra senza bagnarti le ginocchia. Ma com’è possibile… per quella pioggia che è caduta, molta certo, anzi moltissima, dalla sorgente a qui, è vero… Sì, ma come è possibile..? Per tanta che ce ne sia di acqua… Com’è possibile che arrivi ad allagarsi piazzetta della Lega, il cuore di Alessandria, che dal fiume dista un bel pezzo? E come sono spiegabili un’onda di tre metri, due quartieri inghiottiti e tutto colorato di marrone e quintali di vita buttati in strada e portati in discarica?
Ricordo la gente, la sera prima, sabato. Si era usciti dal cinema e si andava a vedere un altro spettacolo: il Tanaro che saliva. Ce n’erano di persone sul ponte, a guardare curiose, a dire che, certamente, le baracche nella zona golenale sarebbero andate a bagno e a dolersi coi proprietari che, più o meno ogni cinque anni, si trovano il Tanaro nel deposito degli attrezzi. Fino ad allora si andava quasi per contratto a vedere il fiume che cresceva, come a salutare di tanto in tanto uno che, come te, è inquilino della città. Da allora in poi, quando piove più del solito, si scruta il Tanaro con angoscia, si pensa al 6 novembre, al marrone, alle case devastate, ai pianti della gente, ai morti. Ai dodici morti. Persone che non sono riuscite a scappare, gente che, magari, ha creduto di poter mettere in salvo ancora qualcosa, ma non ha saputo salvare se stessa, gente come Maria Maddalena Falzoi, rimasta aggrappata alla salvezza, finché la corrente non ha vinto la sua resistenza e il suo istinto di sopravvivenza non è stato travolto dalla furia impazzita. Non la trovavano, la Falzoi, perché l’acqua l’aveva trasportata troppo lontano dal punto in cui era stata vista l’ultima volta. Si sperava per la Falzoi e si pregava. Ma, evidentemente, per lei non era tempo di miracoli. C’era un uomo che la teneva per mano, e l’acqua che picchiava sul suo corpo, che lo scalfiva. Resisti, le avrà urlato, resisti… Non ha resistito, maledetta l’acqua, maledetto il suo impeto, maledetta quella domenica che nessuno dimenticherà più.
Nessuno dimenticherà neppure gli elicotteri, con quel martellante rumore delle pale conosciuto solo guardando ‘Apocalypse now’. Ma stavolta non è un film. È un’apocalisse che non ha risparmiato nessuno. Gli uomini, innanzitutto. Quelli appollaiati sui tetti, a sbracciarsi, a urlare un “siamo qui” che dai velivoli non potevano sentire. Quelli sui balconi, quelli dalle finestre dei piani alti, a sperare che l’acqua non arrivasse fin lì, o che almeno il soccorso dal cielo arrivasse prima di lei.
Non era un film, nemmeno un reality show, di quelli che vanno tanto di moda. C’era gente nel dramma davvero, gente che intuiva che tra la vita e la morte il confine era labile, gente che ha trascorso la notte distesa sui coppi, sperando che fosse per lui quell’elicottero il cui motore assordante stava squarciando l’atroce silenzio.
Gli stessi elicotteri, giorni dopo, avrebbero trasportato agli inceneritori gli animali morti. Bovini e cavalli, che la corrente non ha risparmiato e il fango cinto nella sua implacabile morsa. Un capo della corda legato a una zampa, l’altro all’elicottero che avrebbe sorvolato, poi, la città lasciando che quei bestioni da quintali penzolassero nel vuoto. Non occorreva essere animalisti ad oltranza per commuoversi, per provare un senso di pietà, non serviva riflettere troppo per capire come anche montagne di muscoli possono arrendersi alla violenza del fiume di melma e alla sua trappola mortale.
È la stessa trappola che ha imprigionato Angiolina Faà, che stava a San Michele, un sobborgo andato quasi interamente sott’acqua. Lei, anziana…. Quando l’hanno trovata, aveva gli stivali ai pieni e le mani aggrappate a una ringhiera. Non è riuscita a mettersi in salvo. Come non ce l’ha fatta Riccardo Raschio, un altro di San Michele. Era a un passo dalla salvezza, ma talvolta i passi sono enormemente lunghi. Stava con suo fratello Demetrio, li davano per dispersi, finché non sono arrivati Gioacchino e Vito Murano a implorargli di salire sul loro furgone, di scappare. Demetrio ha ubbidito; Riccardo è rimasto lì, come sotto choc, ancorato a una finestra, mentre l’onda di piena stava arrivando a travolgerlo. Uno dei fratelli Murano ha cercato di tenerlo per le mani, ma la presa gli è sfuggita. Gli è tragicamente sfuggita.
Magari ne aveva visto uno anche loro di elicottero. In televisione. Quello che, la domenica mattina, la troupe del giornalista Federico Fazzuoli di Telemontecarlo aveva utilizzato per documentare il disastro del Piemonte. Sorvolava la valle del Tanaro per mostrarci le zone allagate. Ma un conto è scorgere dall’alto gli specchi d’acqua, un altro avere i piedi a bagno, calpestare il fango, cercare un rifugio, vedere che il fiume si porta via pezzi di vita. È una questione di prospettive, di distanze. È come bombardare l’Afghanistan dal cielo o essere a combattere nel crudo deserto di pietre e dune.
Non ci si rendeva conto, davanti alla tivù; la gente non poteva immaginare quello che di lì a poco sarebbe accaduto. Aveva anche letto, la mattina sui giornali, dell’esondazione dei fiumi, dell’alluvione e del “disastro al Nord”, ma chissà perché sembra sempre tutto così lontano e improbabile. Va beh, il sindaco aveva fatto chiudere i ponti sul Tanaro e aveva piovuto moltissimo… Garessio, Ceva, Bagnasco, Alba, Asti… il fiume non aveva risparmiato nessuno e chissà per quale inspiegabile motivo avrebbe dovuto preservare Alessandria. Ma la gente, malgrado le avvisaglie, era indifferente al pericolo… Come quella del Titanic, ci ricorda Piercarlo Fabbio in un libro dedicato al 6 novembre. Il bastimento stava affondando e l’orchestra suonava. L’iceberg aveva distrutto ciò che definivano indistruttibile, ma si ballava e si faceva baldoria, affatto sfiorati dal dramma, incuranti della tragedia. Incuranti della morte. E qui? Qui l’acqua stava galoppando verso la città ma, malgrado ciò, c’era perfino chi parlava di calcio e si preparava ad andare allo stadio per Alessandria-Bologna, serie C1. La formazione locale, i grigi, contro quella rossoblù, l’antico ‘squadrone che tremare il mondo fa’. I tifosi ospiti erano già arrivati, in treno: hanno seriamente rischiato di non tornare indietro mai più. La partita non s’è disputata: l’acqua ha trasformato lo stadio in uno stagno, che sarebbe rimasto impraticabile fino al gennaio successivo.
Don Ivo: "Dimenticare è impossibile"
SAN MICHELE - Impossibile dimenticare quel 6 novembre 1994. Ma restano nella mente anche i giorni immediatamente seguenti. Lo spiega…
Eravamo su un Titanic senza accorgercene, perché il Tanaro non aveva mai fatto scherzi simili. Non era mai entrato così prepotentemente in case, uffici, negozi, fabbriche. Non aveva mai costretto la gente a svuotare le cantine, i soggiorni, le camere da letto, le cucine. A buttare in strada montagne di rifiuti. 2.200 tonnellate di spazzatura al giorno conferite in discarica, dodici volte più dell’ordinario.
È dai rifiuti che si capisce come la gente vive, come e quanto consuma, come e quanto produce. Stavolta è sembrato tutto uguale, frutto di una tragedia collettiva, democratica, che s’è accanita senza distinzione, violando miseri usci e porte blindate, sommergendo povere stanze e preziosi caveau. Il fatto poi che i ricchi siano riusciti a trovare scorciatoie per accedere ai rimborsi e che abbiano di sicuro sofferto meno di quelli che già faticavano a sbarcare il lunario, fa parte della storia dell’umanità che l’alluvione non può cambiare. Ma la storia ci dice anche che siamo impotenti e in mano al destino. Lo stesso destino che ha voluto che Gian Carlo Canestri, che abitava da un’altra parte della città, quella domenica maledetta fosse nei pressi di via della Cappelletta, una delle strade maggiormente devastate, nel quartiere che lamenta più danni, gli Orti. Canestri, avvertendo il pericolo, è sceso dall’auto e ha cercato rifugio in una cascina. L’hanno trovato aggrappato alla grata di una finestra. Morto. Morto, dopo avere avuto il tempo non di scappare ma di capire che stava morendo. Tu lì, l’acqua che ti imprigiona e la consapevolezza che nessuno può far niente per te. Accorgersi di andare all’altro mondo dev’essere un miscuglio di sensazioni, di pensieri che si intrecciano, di facce, luoghi, istanti, maledizioni, bestemmie, pentimenti, rimorsi, sorrisi, ricordi, di cose che si sarebbero potute fare o che avrebbero dovuto essere evitate. Accorgersi di andare all’altro mondo dev’essere peggio che andarci.
Il Tanaro non era mai arrivato in piazzetta della Lega, ai rasentato le eleganti boutique e i negozi che sulle griffe poggiano le loro fortune. Per non avere le scarpe a mollo, si doveva stare in piedi sulle panchine. E l’acqua che lentamente se ne andava verso le vie del centro, un’acqua marrone di fanghiglia e nera di gasolio, che avrebbe offerto ai muri un indesiderato zoccolo d’umidità e lasciato nell’aria, per settimane, forse mesi, quell’odore di raffineria. Entrando al cinema della piazzetta, anche a distanza di tempo, non potevi non percepire quella puzza che solo l’umido misto a petrolio sa dare. Guardavi il film, cercavi di distrarti, ma intanto quell’odore t’accompagnava per tutta la proiezione. È stato così per mesi, come se ci fosse sempre qualcosa che ti invitasse a ricordare e come se se ricordare fosse necessario.
Ricordare è stato il verbo più usato, un po’ come la frase ‘per non dimenticare’, che accompagnava spesso i servizi delle televisioni locali; che si ripeteva sulle pagine dei giornali; che era il grido di tutti quelli che quel 6 novembre non lo cancelleranno più dalla mente; che era anche il lamento di chi si sentiva più alluvionato di altri, ma meno aiutato. Perché l’alluvione molto cambia, fuori e dentro di noi, ma, nello stesso tempo, amplifica i buoni sentimenti di chi è generoso e pure l’acrimonia di chi si sempre sente l’unica vittima di chissà quale disegno e l’unico meritevole di chissà quali favori. C’è stato chi ha chiesto, ma anche chi ha preteso, mai pensando che, mentre lui cercava di spazzare due centimetri d’acqua dallo scantinato, c’era chi come Alberto Perin stava aggrappato a un albero, forse implorando il Signore, forse ripensando agli affetti e agli amici. Forse sperando in una salvezza che non sarebbe arrivata. Quasi cinque ore è rimasto abbracciato a un tronco, in una strada degli Orti che, beffarda la sorte, è dedicata a Magellano, uno che grazie all’acqua è diventato celebre. Poi stremato, s’è arreso, come un pugile suonato che alza le braccia e implora pietà. Solo che sul ring ci sono uno che smette di battere, uno che interrompe l’agonia e altri che ti soccorrono.
Per salvare Perin no, non c’era nessuno.