Se tutto è Drop, nulla è Drop
Ci sono delle espressioni, talvolta dal significato non intuitivo, che non solo definiscono un fenomeno, ma segnalano la trasformazione di un intero mondo. Nel mondo digitale sarebbe impossibile capire i cambiamenti alla base del Web 3 che ne modificherà la natura e forse limiterà il controllo da parte delle grandi piattaforme digitali senza comprendere il termine “token” su cui si fonda quel registro distribuito di informazioni che oggi è costituito dalla Blockchain.
Allo stesso tempo, per chi come me si interessa poco di moda, sarebbe impossibile capirne le evoluzioni senza apprendere, anche con una certa sorpresa, il senso della parola “Drop”. Treccani alla mano, si tratta della messa in vendita di prodotti in edizione limitata e in piccole quantità in pochi negozi selezionati, spesso con breve o nessun anticipo. Apparentemente tutto il contrario delle care e vecchie collezioni autunno-inverno, tale fenomeno nasce con i modelli di fast fashion diventati famosi con Zara ed H&M ed ha non solo una giustificazione produttiva o logistica, ma serve, in un mondo così rumoroso e volatile, ad ottenere riconoscibilità grazie all’esclusività che le è connaturata e visibilità a seguito delle collaborazioni fra i brand o con gli influencer. Come dice l’esperto di moda David Fischer, “il punto non è stare in coda per comprare un oggetto nuovo, il punto è essere lì e far parte di quella comunità”.
Anche per questo, le collezioni cosiddette “capsule” recano in sè il proprio limite, la ripetitività, che non può che essere evitata grazie alla qualità del prodotto, alla costruzione di relazioni e ad una continua produzione di senso o, come viene chiamato oggi, di “purpose”. Come dice il grande pubblicitario David Abbot “Nessuno legge la pubblicità: le persone leggono ciò a cui sono interessate. Qualche volta si tratta di pubblicità”.
Tecnica nata negli Stati Uniti fra skaters, surfisti, artisti dell’hip hop e della breakdance, entra dallo street wear alle aziende della moda di lusso per innescare quel meccanismo di esclusività su cui tali brand si fondano. Mentre un tempo le aziende di moda tradizionali preparavano due collezioni all’anno – una per la primavera/estate e una per l’autunno/inverno – e facevano arrivare nei negozi i vestiti tutti in una volta, i modelli del fast fashion come Zara ed H&M hanno rivoluzionato il gusto grazie a collezioni che cambiavano nella misura in cui esaurivano i propri capi. Alla base non vi era solo un’innovazione sul piano del marketing, ma anche della produzione che apprendeva dai risultati e della logistica.
Se Nike ha fatto da apripista alla tecnica del “Drop” con il marchio di scarpe ispirato a Michael Jordan, oggi molti brand come Supreme mettono in vendita esclusive nei propri negozi di punta e online che vengono esaurite in poche ore lasciando moltissimi clienti in coda a mani vuote che si riversano così sui mercati secondari.
Esclusività che innesca il desiderio, ma soprattutto il senso di appartenenza alimentato dai social media che grazie al passaparola aumentano l’attesa e ne allungano la eco.