Amazon ci spiccia casa
Mentre qui in Italia la campagna elettorale imperversava sotto l’ombrellone, Amazon portava a segno due delle acquisizioni più onerose della propria storia, quella di One Medical e del suo sistema di prenotazione di visite mediche negli Stati Unita e quella, rilevante anche in Italia, di iRobot, l’azienda produttrice dei piccoli robot Rumba utilizzati per pulire casa.
Mentre gli osservatori si scatenavano sulla coerenza della valutazione economica di questa operazione (1,7 miliardi di dollari), a me è tornata alla mente una vecchia intervista. Nel 2017, forse non del tutto consapevole della delicatezza della notizia che stava per dare, l’amministratore delegato di iRobot, in un’intervista alla Reuters, annunciò che l’azienda era pronta a registrare le planimetrie degli appartamenti dei propri clienti per permettere lo sviluppo di attività pubblicitarie coerenti con la loro grandezza e con le loro caratteristiche. È un episodio citato da Shoshana Zuboff che, nel suo libro “Capitalismo della sorveglianza”, mette in guardia circa l’uso dei “dati eccedenti” che vengono prodotti mente usiamo servizi o prodotti connessi in Rete, in questo caso attraverso l’approccio Internet of Things.
Negli anni della pandemia, ci siamo accalorati attorno al concetto di libertà, “dal” virus o “di” vivere senza restrizioni: nel frattempo le neuroscienze hanno continuato ad avvertirci che sono soprattutto gli automatismi a limitarla soprattutto se espressi sotto forma di algoritmi di personalizzazione. In quale misura gli algoritmi incentivano micro-scelte impercettibili se prese singolarmente, ma rilevanti se osservate nel complesso è una presa d’atto che merita di essere fatta ogni qualvolta riceviamo, da parte del nostro telefono, la notifica del tempo speso sulle app la settimana precedente. O persino quando introduciamo dispositivi digitali come gli assistenti vocali e, forse nel futuro, anche i robot per la sua pulizia. Soprattutto se, “a spicciare casa”, è un soggetto che ci conosce sempre meglio come Amazon.
Nel nostro Paese, l’Antitrust ha aperto negli scorsi mesi un’indagine su Amazon e sulla visibilità che garantisce ai merchant che si avvalgono di FBA (“Fullfilled by Amazon”), il servizio di logistica che il marketplace mette a disposizione delle aziende. Molteplici sono invece le indagini che il gigante di Seattle ha al momento negli Stati Uniti, ad esempio per la visibilità di cui godono le sue linee di prodotto “private-label” o per la stessa formula ad abbonamento Prime.
In quest’ultima causa, i procuratori dello Stato di Washington intendono dimostrare il fatto che con Prime, Amazon non stia solo consolidando la propria leadership nei confronti dei concorrenti, ma aumentando i prezzi che vengono applicati ai consumatori finali.
Benché Amazon abbia esplicitamente dichiarato nel 2019 che non impedisce ai merchant di vendere i propri prodotti a un prezzo più basso sul proprio sito o su altri marketplace, la visibilità offerta dalla Buy Box – la prima scelta mostrata da Amazon per un prodotto – induce le aziende a mantenere su Amazon un prezzo competitivo, ma, per via delle elevate commissioni da retrocedere (dal’8% al 20%) e dei costi dei servizi logistici che offre, tale prezzo risulterà elevato e influenzerà di conseguenza anche quello praticato altrove in Rete.
Come abbiamo già avuto di dire, non c’è alcun dubbio che Amazon reciti più parti in commedia: è un enorme campo da gioco (la sola Prime ha oggi 200 milioni di iscritti), è un giocatore che opera anche come retailer e come venditore con marchi propri, è un arbitro grazie all’algoritmo con cui regola la Buy Box ed è, per così dire, anche la VAR per il ruolo che svolge nelle controversie che hanno luogo fra merchant ed acquirenti finali.