Jean-Luc Godard: scrivere con la luce
Se ne è andato, in silenzio, nella casa di Rolle in Svizzera, scegliendo, a 91 anni, il suicidio consapevole e assistito dopo una lunga vita e una lunghissima e magistrale carriera di cineasta. Lo scorso 13 settembre il quotidiano francese “Libération” ha diffuso la notizia della scomparsa del grande maestro del cinema Jean-Luc Godard, insieme a Claude Chabrol, Louis Malle, Alain Resnais, Jacques Rivette, Éric Rohmer, Francois Truffaut, tra i fondatori e più illustri esponenti del movimento cinematografico della Nouvelle Vague.
«Non era malato, era soltanto esausto», ha rivelato una fonte vicina al regista; «Jean-Luc Gordard è vivo, per me continua ad esserlo e io a parlarne al presente, sarà forse andato via il suo corpo ma lui proprio no», ha, invece, commentato Gianni Amelio, primo al botteghino dopo il debutto veneziano con il suo “Il signore delle formiche”.
Profondamente turbato dalla morte del “maestro dei maestri”, Amelio sottolinea che «ogni inquadratura di Godard vale il cinema. A 14 anni ho visto “Fino all’ultimo respiro”, fu un colpo di fulmine, devo a lui se mi sono appassionato del cinema. Ma non sono l’unico, sono decine e decine i registi che hanno avuto in quel film e in Godard la loro spinta motivazionale. Godard è la rivoluzione del cinema, l’idea stessa di cinema, un modo talmente nuovo di concepirlo, è il pensiero sul cinema che senza di lui non sarebbe lo stesso. È stato un progenitore».
“Fino all’ultimo respiro” (1960)
Godard è stato omaggiato per ben due volte dalla Mostra del Cinema di Venezia, che lo ha premiato con il Leone d’oro alla carriera nel 1982 e, l’anno seguente, ha laureato con un ulteriore Leone d’oro il suo “Prénom Carmen”. Risulta piuttosto difficile, a questo punto, restituire la straordinaria carriera così come la bellezza e la complessità dell’orizzonte cinematografico entro cui il maestro francese si inscrive: nato e cresciuto – come la maggior parte dei ‘giovani turchi’, i critici militanti dei “Cahiers du Cinéma” – alla scuola di André Bazin, il teorico della Nouvelle Vague, che lo incontra alla Cinémathèque, Godard scrive nel pieno degli anni Cinquanta alcuni articoli sotto lo pseudonimo di Hans Lucas, approfondendo temi legati alla cinematografia di Alfred Hitchcock, Ingmar Bergman, Nicolas Ray. Per il giovane futuro regista il cinema si pone principalmente sotto forma di un dilemma morale ed estetico: posizione che sta alla base della cosiddetta ‘Politique Des Auteurs’ propugnata da lui stesso e dai colleghi intellettuali, per la quale – come teorizzava Truffaut – «Non ci sono opere, ci sono solo autori».
La macchina da presa, dunque, va utilizzata alla stregua di una penna stilografica che serve per restituire l’universo narrativo di chi la adopera: è il concetto di ‘caméra-stylo’, introdotto dal regista, sceneggiatore e critico Alexandre Astruc in un celebre articolo del marzo 1948, pubblicato sull’ “Ecran Francaise”. Di questo scrivere con la luce Godard si qualifica fin dal primo lungometraggio – “Fino all’ultimo respiro” (À bout de souffle, 1960) – come insuperabile artefice di un linguaggio cinematografico moderno, sulla via del superamento dei vecchi schematismi e codici della rappresentazione.
La sceneggiatura viene elaborata a partire da un testo composto da Truffaut su una vecchia storia di cinque anni prima. Jean Seberg, insieme a Jean-Paul Belmondo iconica protagonista del film, ne racconta, non senza perplessità la travagliata gestazione: «Ogni giorno la sceneggiatura cambia, e sempre in peggio. Ieri mi sono intrattenuta con il giovane regista; le sue teorie sul lavoro degli attori sono assai bizzarre». Fautore di un cinema libero da ogni sterile formalismo, anti-narrativo, Godard percorre gli anni Sessanta proponendo pellicole che spezzano la retorica e i luoghi comuni della classica ‘mise en scène’, lanciando nel firmamento cinematografico – oltre a Jean Seberg – anche un’altra antidiva, la moglie e musa Anna Karina, che lavora con lui in otto film (tra i quali, in quello primo scorcio dei Sessanta, “Le Petit Soldat”-1960; “La donna è donna”-1961; “Questa è la mia vita”-1962).
Anna Karina e Jean-Luc-Godard
Un’opera capitale è “Il disprezzo” (Le mépris, 1963), con Brigitte Bardot, Michel Piccoli, Fritz Lang e Jack Lang, che Godard gira tra Cinecittà e la villa Malaparte a Capri: una liberissima riduzione dell’omonimo romanzo del 1954 scritto da Alberto Moravia, in cui la frammentazione del testo originario, ambientato nel mondo del cinema, diventa la chiave di volta per la lettura del film.
Tra il 1968 e il 1973 Godard sceglie di allontanarsi totalmente dal circuito produttivo del cinema industriale, fondando il Gruppo Dziga Vertov, formato dallo stesso regista e dal collega Jean Pierre Gorin, ai quali si unisce Anne-Marie Miéville, la quale diventerà la sua ultima compagna. Nei primi anni Settanta il cosiddetto ‘periodo radicale’ di Godard conduce a film dal forte impegno ideologico e documentaristico, quali “Jusqu’à la victoire” (un lavoro rimasto incompiuto), “Ici et ailleurs”, “Vladimir et Rosa”. L’ultima pellicola fortemente caratterizzante questo periodo è “Crepa, padrone, tutto va bene” (Tout va bien, 1973).
Non dimentichiamo neppure l’atteggiamento dichiaratamente polemico tenuto da Godard nel corso del Festival di Cannes del 1968, quando – insieme agli amici e colleghi Claude Berri, Claude Chabrol, Claude Lelouch, Alain Resnais e Francois Truffaut per protesta dichiara chiusa la manifestazione, auspicando una maggiore libertà per gli autori. In seguito a questa rivendicazione, l’anno successivo il Festival di Cannes inaugura una nuova sezione – la Quinzaine des Réalisateurs – destinata ad ospitare le opere cinematografiche più anticonformiste.
Nel corso degli ultimi decenni di carriera e con l’avvento degli anni Ottanta, il cinema di Godard diventa ancora più rarefatto, scarno, svincolato da ogni nesso sintattico e semantico, come già visibile in “Passion” (1982), “Prénom Carmen” (1983), “Je vous salue Marie” (1985), sino ad arrivare all’opera-testamento, quel “Le livre d’image” (2018) che si offre allo sguardo spettatoriale come vero e proprio coacervo di immagini il cui montaggio del tutto soggettivo viene lasciato a chi guarda.
«Non è il mestiere, oltre il linguaggio e le immagini di Godard resta la morale del cinema che passa attraverso l’estetica e che non morirà», ha ricordato ancora Gianni Amelio all’Ansa. «Io continuerò a considerarlo vivo, secondo me ora se ne sta in fondo, all’ultimo posto della Cinematèque a Parigi, con i suoi occhialoni spessi, davanti ad un film».