Un film per il 25 aprile: “Roma città aperta”
Chiudere i conti col passato: legittimo desiderio, insopprimibile necessità dei singoli come delle diverse forme di organizzazione sociale e civile in cui, nel corso della storia, l’uomo ha incanalato e strutturato la propria spinta vitale.
Per quanto riguarda il fenomeno della Resistenza italiana – quei venti mesi compresi tra la firma dell’armistizio dell’Italia con le forze anglo-americane alleate, l’8 settembre 1943, e, all’incirca, l’inizio del maggio 1945 – chiudere o, più modestamente, fare i conti con ciò che è stato, sul piano storico, sociale, culturale e umano, è impresa ardua, per la sua estrema complessità e per la difficoltà, comune alla maggior parte degli apparati politico-ideologici del Paese via via succedutisi (e a dispetto della loro eterogeneità) a guardare a quell’esperienza con occhio non inquinato.
Di conseguenza, anche la rappresentazione cinematografica del periodo resistenziale ha attraversato, analogamente al giudizio storico-critico su di esso, fasi alterne e spesso in contraddizione fra loro, a partire dall’immediato dopoguerra sino ai giorni nostri.
La riflessione filmica sulla Resistenza sembra affondare le proprie radici nel terreno già fervido e variegato del cinema neorealista, anch’esso espressione di differenti istanze ideologiche e culturali: ciò che accomuna pellicole anche molto eterogenee fra loro è, innanzitutto, l’esplicita volontà di distacco – sia sul piano contenutistico che estetico – dalla cinematografia precedente, espressione del regime, propagandistica o velleitariamente d’evasione, a favore di narrazioni che esplicitassero la presa di coscienza, l’azione di riscatto, soprattutto a livello popolare, dalle maglie oppressive del governo fascista. Qualche cosa di simile avveniva, fatte salve le debite differenze, nella società italiana che si apprestava alla ricostruzione, sostando in equilibrio precario sulle macerie ancora fumanti della guerra.
Emblematiche, in questo contesto, si rivelano – come sappiamo – opere quali “Roma città aperta” (1945) e “Paisà” (1946), di Roberto Rossellini. Se “Roma città aperta” è – come afferma Morando Morandini ne “Il Morandini 2013” – «[…] specchio di una realtà come colta nel suo farsi, appare oggi come un’opera ibrida in cui il nuovo convive col vecchio, i grandi lampi di verità con momenti di maniera romanzesca, in bilico tra lirismo epico e retorica populista», è anche vero che il limite di questa operazione – comune alla maggior parte degli altri film resistenziali di questa fase e, ancor più, di quella successiva – sta nella rappresentazione della lotta partigiana nella sua valenza esclusiva di reazione contro l’oppressore straniero. Di là da venire il riconoscimento di vera e propria guerra civile (difficile da metabolizzare ancora oggi, nell’attualità delle nostre vicende nazionali), l’immagine della Resistenza è quella del conflitto di un popolo aspirante alla libertà, in cui l’amalgama e il livellamento tra opposte fazioni politiche e ideologiche sono massimi.
«Ma che colpo al cuore, quando, su un liso cartellone…Mi avvicino, guardo il colore già d’un altro tempo, che ha il caldo viso ovale, dell’eroina, lo squallore eroico del povero, opaco manifesto. Subito entro: scosso da un intenso clamore, deciso a tremare nel ricordo, a consumare la gloria del mio gesto. […] Ecco…la Casilina, su cui tristemente si aprono le porte della città di Rossellini…ecco l’epico paesaggio neorealista, coi fili del telegrafo, i selciati, i pini, i muretti scrostati, la mistica folla perduta nel daffare quotidiano, le tetre forme della dominazione nazista…Quasi emblema, ormai, l’urlo della Magnani, sotto le ciocche disordinatamente assolute, risuona nelle disperate panoramiche, e nelle sue occhiaie vive e mute si addensa il senso della tragedia. È lì che si dissolve e mutila il presente, e assorda il canto degli aedi».
“Proiezione al ‘Nuovo’ di ‘Roma città aperta’”, restituisce, con l’intensità poetica che è propria di Pier Paolo Pasolini, le emozioni provate davanti alla nascita di un mito: non solo quello legato all’avviarsi dell’esperienza neorealista, sia in letteratura come sul grande schermo, ma soprattutto quello che ha per icona la figura di Anna Magnani, il cui profilo tremolante e sbiadito – cristallizzato per l’eternità dentro il tempo di un’inquadratura, una manciata di secondi – entrerà con una rapidità straordinaria a far parte dell’immaginario di un’epoca, travalicando, poi, gli anni e le mode.
Il cammino americano che porterà Nannarella a misurarsi con le grandi, torbide storie raccontate dal cinema hollywoodiano inizia proprio qui, con un urlo straziante; con un corpo che cade sordo sul selciato di via Montecuccoli, al quartiere Prenestino.
Roberto Rossellini, nel corso di una conversazione con Mario Verdone, ricorda: «“Roma città aperta” è il film della ‘paura’: della paura di tutti, ma soprattutto della mia. Anch’io ho dovuto nascondermi, anch’io sono fuggito, anch’io ho avuto amici che sono stati catturati e uccisi. Paura vera: con trentaquattro chili di meno, forse per la fame, forse per quel terrore che in “Città aperta” ho descritto».
«Girai il film con pochissimi soldi – racconta Rossellini in un’altra occasione – raccolti a stento, a piccole dosi; c’era a malapena di che pagare la pellicola, che non potevo nemmeno mandare a sviluppare perché non avrei saputo come pagare il laboratorio. Non vi fu dunque alcuna proiezione di prova prima della fine della lavorazione. Più tardi, avendo trovato ancora un po’ di denaro, montai il film e lo presentai a un ristretto pubblico di intenditori, critici e amici. Per quasi tutti fu una delusione».
Il film, in effetti, in Italia non riscuote i consensi sperati, soprattutto a causa della novità del tema, dell’ambientazione e della modalità di racconto: in maniera assolutamente inaudita per il cinema edulcorato dell’epoca, costretto all’interno di fittizi salotti borghesi, il grande schermo si riempie della violenza della Storia, delle misere vicende di guerra, della quotidiana lotta per la sopravvivenza di personaggi dai volti così simili a quelli degli italiani in carne ed ossa.
Dal coro unanime delle critiche, però, per fortuna si leva, in quel lontano 1945, qualche voce dissonante, come quella di Carlo Lizzani: «Finalmente abbiamo visto un film italiano! Intendiamo per film italiano un film che racconti cose nostre, esperienze del nostro paese, fatti che ci riguardino […]. Intorno ai personaggi centrali si muove […] un mondo vivo di uomini e di ambienti che raramente abbiamo visto apparire nella nostra cinematografia: strade squallide di periferia, ragazzi stracciati ma animosi, donne affaticate da tutti i problemi della vita quotidiana, stanze dalle suppellettili dozzinali, dalle pareti stinte, dai letti carichi di gente infreddolita e misera. […] Non abbiamo attori: proviamo ad immergere nella realtà i nostri ‘volti’ più noti e li riavremo in qualche modo nuovi, come è accaduto nei momenti migliori di questo film, per Fabrizi e per la Magnani […]. Il mondo oggi non vuole dei divi, cerca degli uomini, gente della strada».
Se Lizzani individua con acume i fondamenti teorici che stanno alla base del Neorealismo (specie quel servirsi, da parte dei registi, di interpreti le cui maschere già affollavano i set e i palcoscenici in anni precedenti, inserendo la loro fisicità sullo sfondo di panorami sociali reali), Silvano Castellani, su “Star” del 6 ottobre, fa prevalere, nel giudizio complessivo sul film, il peso dell’interpretazione di Nannarella: «La Magnani è immensa. Attrice sensibile, intelligentissima. E non venitemi a parlare di volgarità. La Magnani va collocata, studiata e criticata sul piano del “romanesco”. Allora si vedrà che, nella sua virulenza plebea, l’attrice deriva proprio dalla tradizione popolare più pura, e quindi più nobile. Giovacchino Belli scenderebbe dal suo piedistallo e s’inchinerebbe, con la tuba in mano, davanti a lei. C’è un momento nel film in cui il “vammoriammazzato” di Anna Magnani, rivolto a un tedesco, toglie il respiro e rimane nell’aria, tragicamente, come una condanna definitiva».
La Magnani – che agli esordi del 1945 (le riprese di “Roma città aperta” hanno inizio il 18 gennaio) è reduce da film come “Il fiore sotto gli occhi”, “Quartetto pazzo” e, soprattutto, “L’ultima carrozzella” di Mattòli in cui, pur tornando al consueto ruolo di canzonettista, prosegue senza alcuna incertezza la spiccata caratterizzazione dialettale iniziata con l’Elide di “Campo de’ Fiori” – accetta con entusiasmo il ruolo di Pina, riconoscendone la novità e la ricchezza espressiva: «Io da anni urlavo quasi: “Ma è possibile che non si possa fare un film su una donna qualunque, che non sia bella, non sia giovane…”. D’accordo, allora ero giovane, comunque. “Perché?”, ripetevo, “perché non un film su una donna della strada che non sia diva, falsa?”. Quando vennero a leggermi il copione di “Roma città aperta”: ‘ci siamo’, dissi, ‘questo è meraviglioso’».
Con il ruolo di Pina in “Roma città aperta” viene a delinearsi per la Magnani quella prima congiuntura tra persona reale e personaggio che, nel corso degli anni, costituirà la cifra inconfondibile del particolare tipo di divismo da lei rappresentato, in palese controtendenza con il tipo di donna che ha dominato gli schermi cinematografici italiani sino all’avvento del Neorealismo.
La Pina è uno tra i più classici esempi di quasi totale aderenza tra corpo dell’attore e corpo del personaggio: una simbiosi dovuta a molti e disparati fattori – caratteristiche fisiche, affinità caratteriale – ma tale da rendere estremamente difficile e pericoloso ogni tentativo di scollamento, con il rischio di vedersi sottrarre la propria riconoscibilità artistica. La parabola d’attrice della Magnani può essere iscritta in un continuo e altalenante processo di avvicinamento ed allontanamento dalla Pina – la verace donna del popolo, la madre mancata, la combattente – che comprende anche i film girati in America.
La drammatica pellicola di Rossellini, che riprende un fatto di cronaca risalente all’occupazione nazista di Roma – l’uccisione di don Luigi Morosini, interpretato da Aldo Fabrizi – non riscuote un soverchio successo in Italia, nonostante gli vengano attribuiti, nel 1946, ben tre Nastri d’Argento da parte del Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici (miglior film a soggetto, migliore regia – alla pari con “Un giorno nella vita” di Blasetti e “Sciuscià” di De Sica – e migliore attrice non protagonista).
Diversa, invece, è l’accoglienza riservata al film in Francia, dove lo stesso anno viene presentato fuori concorso al primo Festival di Cannes (entusiastico sarà, qualche anno più tardi, il commento di André Bazin: «Ciò che ha naturalmente colpito per prima cosa il pubblico è l’eccellenza degli interpreti. Con “Roma città aperta” il cinema mondiale si è arricchito di un’attrice di primo piano. Anna Magnani, l’indimenticabile donna incinta, Fabrizi, il prete, Pagliero, il resistente, e altri non hanno difficoltà a eguagliare nella nostra memoria le più commoventi creazioni del cinema») e, soprattutto, in America, dove le pellicole neorealiste sono considerate tra le migliori espressioni del cinema mondiale sia per la novità del linguaggio che dei contenuti, e i registi e gli attori italiani vere e proprie icone.
Con “Open City” il pubblico americano scopre il Neorealismo e, nello stesso tempo, la sua attrice – simbolo, la Magnani, con la sua fisicità prorompente, il dinamismo che riempie e buca lo schermo, la recitazione così lontana dalla studiata compostezza delle sue stelle del cinema.*
“Roma città aperta” verrà trasmesso sul canale televisivo TV2000 lunedì 25 aprile, alle ore 20.55.
*Tutte le citazioni in questo testo sono tratte da “Anna Magnani, un’attrice dai mille volti tra Roma e Hollywood”, edizioni Le Mani, 2015.
“Roma città aperta”
Regia: Roberto Rossellini
Aiuto regia: Sergio Amidei, Federico Fellini
Origine: Italia, 1945; 99’
Soggetto: Sergio Amidei, Alberto Consiglio (non accreditato)
Sceneggiatura: Sergio Amidei, Federico Fellini, Celeste Negarville (non accreditato), Roberto Rossellini (non accreditato)
Fotografia: Ubaldo Arata; scenografia: Rosario Megna
Montaggio: Eraldo Da Roma, Jolanda Benvenuti (non accreditata); musica: Renzo Rossellini; Suono: Raffaele Del Monte
Interpreti: Aldo Fabrizi (Don Pietro Pellegrini); Anna Magnani (Pina) Marcello Pagliero (ingegner Giorgio Manfredi, alias Luigi Ferraris); Vito Annichiarico (il piccolo Marcello); Nando Bruno (Agostino, alias “Purgatorio”, il sagrestano); Harry Feist (maggiore Fritz Bergmann); Giovanna Galletti (Ingrid); Francesco Grandjacquet (Francesco)
Produzione: Giuseppe Amato, Ferruccio De Martino, Rod E. Geiger, Roberto Rossellini (non accreditati) per Excelsa Film