I cieli di Alice: la guerra e l’amore
Ed un pensiero le passa per la testa
Forse la vita non è stata tutta persa
Forse qualcosa s’è salvato
Forse davvero non è stato poi tutto sbagliato/Forse era giusto così/Forse, ma forse, ma sì
(Vasco Rossi, “Sally”, 1996)
Alice Delaloye – il fisico minuto, i lineamenti delicati, le movenze incerte quasi come se si trovasse (ancora) a camminare in un territorio minato – prende la via del mare, in un giorno di marzo del 1977, per fuggire da Beirut, dal suo cielo, dalla sua terra martoriata e divisa.
Alice scappa anche da Joseph, il marito scienziato che sogna e lavora indefessamente alla creazione di un razzo che spedisca per la prima volta un libanese sulla luna, e al quale sembra non importare più di tanto di lei, della guerra, della figlia Mona lontana, rifugiata a Parigi con il fidanzato.
In fondo, Alice ricorda la Sally dell’omonima canzone di Vasco Rossi, che «cammina per la strada senza nemmeno guardare per terra» perché «è una donna che non ha più voglia di fare la guerra».
E la guerra – anche in quanto costrutto simbolico – è ovunque in quel lembo di Libano profumato di cedri, gli stessi cantati nel poema “La bellezza dei cedri del Libano”, i cui versi vengono declamati ad Alice dal futuro marito al loro primo incontro.
La guerra civile pervade le strade di Beirut da quando è scoppiata – il 13 aprile 1975 – falciando uomini e vite, affollando il tranquillo appartamento di Alice e Joseph di parenti impauriti e chiassosi.
Un conflitto che non cova solo all’esterno ma anche nell’interiorità di Alice, alla quale Alba Rohrwacher offre la sua fisicità fragile ma sensibile, oltre a un perfetto parlato francese che rivela le origini svizzere del personaggio, approdato a Beirut da Friburgo tanti anni prima.
Il dualismo che anima questa donna, la mai risolta tensione tra un passato familiare soffocante e un possibile futuro di libertà e amore sotto un altro cielo e a un’altra latitudine geografica, ingigantita dal dramma della guerra che rimette in discussione il suo ruolo di moglie e di madre come il senso di appartenenza alla sua seconda patria, costituiscono l’impalcatura narrativa del primo lungometraggio (selezionato nel 2020 alla Semaine de la Critique di Cannes) della regista, artista visiva, sceneggiatrice e attrice franco-marocchina Chloé Mazlo. La cineasta, con alle spalle studi in grafica ed esperienza nei cortometraggi d’animazione (il suo “Les Petits Cailloux” vince nel 2015 il César per il miglior cortometraggio animato), sceglie di raccontare la storia della nonna svizzera emigrata in Libano nel 1955, avvalendosi – oltre che della felice fotografia di Hélène Louvart (“Lazzaro felice” di Alice Rohrwacher, 2018) con le sue tonalità pastello e le tinte sature che scaldano gli interni – anche della tecnica della stop motion e dell’uso di fondali disegnati o fotografati.
L’impressione di irrealtà e teatralità (accentuata dalla posizione fissa e centrale della macchina da presa in alcune scene, a ritrarre la trasformazione dello spazio domestico di Alice nel corso del tempo), la dimensione favolistica e finzionale prendono, così, prepotentemente il sopravvento, tanto da risultare – a tratti – infantilmente naïf.
Eppure è evidente che la sinteticità e persino un certo schematismo di linguaggio che caratterizzano “Sotto il cielo di Alice” non equivalgono per nulla a immaturità e, anzi, diventano le colonne portanti di un discorso meditato e cosciente, in cui gli elementi simbolici prevalgono: il volo animato delle cicogne, i militari mascherati che si contendono un incrocio di strada e il ‘pas de deux’ tra la figura con la maschera della Morte e la donna con il costume da cedro; il corpo di Alice che si illumina di una sorta di luce celestiale nei momenti di felicità, il palazzo da lei disegnato che si riduce in macerie sulla carta, il suo recidere con un paio di robuste forbici le nodose e tenaci radici che le si sono incollate alle scarpe.
In questa fabula che a volte sfiora la dimensione del grottesco, probabilmente non deve stupire che Alice – nella prima parte del film piuttosto simile in acconciatura e abbigliamento alla sua omonima del romanzo di Lewis Carroll (1865) – sembri non riflettere sul suo corpo i segni del tempo che passa (tanto da apparire – a differenza del marito – quasi coetanea della figlia).
Il cielo di Alice è anche quello – di carta, lacerato da uno strappo – che racconta Pirandello nel “Fu Mattia Pascal”, sotto il quale agiscono incoscientemente le marionette, simbolo della condizione fittizia in cui l’uomo è immerso. Un cielo che – nella seconda parte del racconto – lascia filtrare da quel provvidenziale strappo tutta la cruda realtà della guerra, restituita dalla Mazlo soprattutto attraverso i rumori: dei bombardamenti, delle impersonali comunicazioni dei notiziari radio-televisivi, questi ultimi spesso presenti come tappeto sonoro di fondo.
È a questo punto che Alice esce dalla dimensione favolistica per fare il suo ingresso doloroso nella dimensione della realtà ed è proprio qui che risuona con la forza di un riferimento metatestuale l’affermazione dell’attore, regista e drammaturgo Wajdi Mouawad – interprete di Joseph e profugo dal Libano nel 1978 a causa della guerra civile – intervistato da Jean Francois Perrier nell’ambito della presentazione della sua opera “Seuls-Chemin, texte et peintures” al festival di Avignone, nel 2009: «‘da dove vieni?” non ha più senso per me e l’unica domanda a cui posso rispondere è “dove stai meglio?’».
L’esistenza di Alice, come quella di molte altre analoghe alla sua, è destinata a trascorrere sotto differenti cieli: senza rinnegare nulla – come sembra suggerire in ultima battuta l’opera prima della Mazlo – ma imparando ad istituire, invece, un legame forte con i propri bisogni, le emozioni, gli affetti.
Come sostiene Luigi Pirandello ne “Il fu Mattia Pascal” (1904): «Beate le marionette su le cui teste di legno il finto cielo si conserva senza strappi! E possono attendere bravamente e prender gusto alla loro commedia e amare […] senza soffrir mai vertigini o capogiri, poiché per la loro statura e per le loro azioni quel cielo è un tetto proporzionato».
“I cieli di Alice” (Sous le ciel d’Alice)
Origine: Francia, 2020, 92’
Regia: Chloé Mazlo
Sceneggiatura: Chloé Mazlo, Yacine Badday
Fotografia: Hélène Louvart
Montaggio: Clémence Carré
Musica: Bachar Khalifé
Cast: Alba Rohrwacher, Wajdi Mouawad, Isabelle Zighondi, Mariah Tannoury, Jade Breidi, Odette Makhlouf, Hany Tamba, John Chelhot, Greta Zighondi, Chloé Zighondi, Charbel Kamel, Ziad Jallad
Produzione: Moby Dick Films
Distribuzione: I Wonder Pictures