Pasolini 100: alla Berlinale 2022 “Mamma Roma” in versione restaurata
Il prossimo 5 marzo ricorrerà il centenario dalla nascita di Pier Paolo Pasolini e – tra le molteplici iniziative organizzate per ricordare lo scrittore e regista, friulano per parte di madre – una fra le più prestigiose è senza dubbio la riproposizione di “Mamma Roma” (1962), il suo secondo, controverso lungometraggio con protagonista Anna Magnani, alla 72esima edizione della Berlinale, in versione restaurata in occasione dei sessant’anni dall’uscita nelle sale.
Al Festival di Berlino Pasolini venne premiato nel 1971 con l’Orso d’argento per “Il Decameron” e l’anno seguente con l’Orso d’oro per “I racconti di Canterbury”.
La pellicola ha aperto, lo scorso 11 febbraio, la sezione Berlinale Classics: il lavoro di restauro digitale in 4K è partito dai negativi originali in 35 mm e dalla colonna ottica di cui si è potuto usufruire grazie alla collaborazione con Mediaset, Infinity+ e Cine34.
Alberto Anile – Conservatore della Cineteca Nazionale e autore con Maria Gabriella Giannice nel 2010 del libro “La guerra dei vulcani. Rossellini, Magnani, Bergman. Storia di cinema e d’amore” (Le Mani) – spiega che la proiezione berlinese «inaugura l’anno del centenario di Pasolini con uno dei suoi film più belli e struggenti, quello in cui l’autore di “Accattone” incontra la protagonista di “Bellissima”. “Mamma Roma” è una condanna del razzismo classista e insieme dell’individualismo di un sottoproletariato che aspira egoisticamente alla piccola borghesia, in un racconto imbevuto di riferimenti pittorici e di sacralità. Il nostro restauro ha, fra l’altro, recuperato pazientemente tutti i frammenti che nel tempo si erano perduti, colmando piccole lacune e scoprendo modifiche arbitrarie, così da riportare per la prima volta il film alla forma, integra e smagliante, che aveva alla sua prima uscita in sala».
La storia della lavorazione di “Mamma Roma” è, però, a guardarla da vicino, piuttosto tormentata. Pasolini intreccia sul set un rapporto artistico profondo ma complesso con l’attrice simbolo del Neorealismo, prima diva italiana a vincere un Oscar nel 1955 per la sua interpretazione nel film “La rosa tatuata” di Daniel Mann.
Anna Magnani ama moltissimo il primo film di Pasolini, “Accattone”, che ha modo di vedere con enorme stupore in proiezione alla Mostra del Cinema di Venezia, nel 1961. Da attrice di razza, Anna comprende subito la portata delle capacità artistiche di Pier Paolo, e insiste ripetutamente con il produttore Alfredo Bini (che è sfavorevole all’idea di un connubio Pasolini-Magnani a causa della diversità dei due temperamenti) perché realizzi il suo desiderio di lavorare con lui: «Pasolini è un poeta. M’è bastato vedere “Accattone” per convincermene. Uno che al primo film riesce a scrivere in quel modo con la macchina da presa, come regista dà tutte le garanzie».
Del resto, dopo “Risate di gioia” di Monicelli (1960) la Magnani rimane inattiva per due anni: sembra che il cinema italiano la sfugga, la eviti, pur continuando a riconoscere le sue straordinarie qualità attoriali. Eppure, Anna percepisce ancora intorno a sé il calore e l’affetto del suo pubblico, che non le sono mai venuti meno. “Mamma Roma” le pare, quindi, il lavoro in grado di imporla nuovamente all’attenzione di spettatori e critica: una forma di risarcimento tardivo, un plauso a tanti anni di carriera e sacrifici.
Pur di lavorare con Pasolini, Magnani accetta di guadagnare di meno rispetto ai suoi soliti compensi, e sul set cerca di mettere da parte il carattere ruvido e impetuoso, per soddisfare le esigenze artistiche del regista. Ricorda Bini: «Mai, mai un solo capriccio, ma neppure un’esigenza personale espressa con un po’ di veemenza. Anna era rispettosissima, fragile, quasi umile nei confronti di Pier Paolo. Provava per lui una ammirazione sconfinata, aveva una timidezza umbratile che la rendeva giovane e insicura, quasi timorosa di sbagliare».
Eppure, a dispetto degli sforzi dell’attrice e della quasi maniacale puntigliosità di Pasolini, a detta della critica di allora “Mamma Roma” non è un film completamente riuscito. Lo si è definito, piuttosto, come un «incontro mancato» tra il regista e la Nannarella nazionale.
Quali le ragioni di questo giudizio?
Una possibile risposta a questa domanda è ben sintetizzata in una critica al film a firma di Giuseppe Marotta, su “L’Europeo” del 7 ottobre 1962: «L’interpretazione della Magnani, veemente, faziosa, arrivo a dire, non ha giovato al film: “Nannarella” è troppo vera per non risultare apocrifa nel quadro calcolato, intellettualizzato di Pasolini».
Il grosso ostacolo, il conflitto tra Mamma Roma-Anna Magnani e Pier Paolo Pasolini consiste proprio in questo: cioè nel differente modo di concepire il cinema e la presenza dell’attore nel film.
La Magnani, espressione ed erede del teatro dell’ante e dopo guerra, protagonista della rivista, è per sua natura portata verso un certo naturalismo interpretativo: la sua recitazione, accuratamente studiata in fase di preparazione al ruolo, si esplica, invece, all’atto delle riprese, con la spontaneità che la contraddistingue, nutrendosi di tempi lunghi, entro cui dilatare le battute e il lavoro sul personaggio. Anna inoltre, come ama sottolineare spesso, ha bisogno di essere lasciata libera sul set: il parziale fallimento di alcuni suoi lavori sono da lei attribuiti alla mancanza di questa libertà, di cui come artista non riesce a fare a meno.
Pasolini, per contro, si indirizza, nella regia, verso la stilizzazione, il manierismo: procede per accumulo di brevi inquadrature, piccole monadi figurative chiuse in loro stesse, che poi collega fra loro al montaggio. Il suo è un cinema fatto di momenti culminanti, ‘assoluti e fermi’ (e “Mamma Roma” è un film fatto di questi momenti assoluti, di questi quadri immobili che si ripetono e ritornano; vedi le immagini della Roma desolata e periferica, di quella che Mamma Roma contempla dalla finestra, come la lunga strada che lei percorre di notte).
Scrive Pasolini nel diario di lavorazione del film: «La poetica di Anna nel suo lato peggiore è romantica e naturalistica, la mia, nel suo lato peggiore, squisita e manieristica. Io cerco la plasticità, soprattutto la plasticità dell’immagine, sulla strada mai dimenticata di Masaccio: il suo fiero chiaroscuro, il suo bianco e nero […] Non posso essere impressionistico. Amo lo sfondo, non il paesaggio».
È alla luce di questo pensiero che si comprende come Pasolini, all’inizio delle riprese di “Mamma Roma” abbia un piccolo diverbio con la Magnani, a causa di una risata che, nella prospettiva di un cinema in cui ogni singolo quadro assume un valore assoluto, deve risultare esattamente come l’ha immaginata il regista: «Anna, tu sei una grande attrice, che te ne fai delle scene lunghe? Non hai bisogno degli effetti, basta inquadrare il tuo viso e il risultato è raggiunto!», grida Pasolini all’indirizzo della Magnani.
Non dimentichiamo, inoltre, che Pasolini predilige utilizzare nei suoi film attori non professionisti, per la possibilità che gli viene offerta di plasmarli a suo piacere nei ruoli che affida loro, come se avesse sotto le mani una materia grezza: la sua abitudine a intervenire con indicazioni estremamente precise nel corso di una ripresa non può che infastidire e inibire la resa espressiva di un’attrice come la Magnani, che pure in “Mamma Roma” si sforza di essere duttile e accondiscendente.
Ma chi è Anna Magnani nel film? Sullo schermo di fronte a noi abbiamo ancora la Pina di “Roma città aperta”, la Nannarella che è entrata nell’immaginario collettivo e nel cuore degli spettatori come attrice-simbolo del Neorealismo? Oppure, sotto la lente dell’obiettivo di Pasolini, Anna è diventata qualcosa di differente rispetto all’immagine che ci è sempre stata restituita di lei?
Probabilmente si tratta di entrambe le cose. Nel film, già a partire dal titolo, Pasolini riassume e fa lievitare all’ennesima potenza lo stereotipo di una Magnani mamma per eccellenza, nel riconfermarsi di quella maternità dolorosa, sofferta, spesso negata di tanti precedenti ruoli (e che qui assume, addirittura, una valenza tragica).
La Magnani nel film è anche, per l’ennesima volta, il simbolo supremo di Roma. Ma la Roma di Pasolini non è più quella descritta da Rossellini in “Roma città aperta”, quella misera e occupata eppure solcata da esili fili di speranza, bensì quella delle grandi periferie inurbate, delle cupole che convivono con i palazzoni, del sottoproletariato (di cui “Mamma Roma” è espressione) che tenta senza riuscirci un assurdo allineamento, una penetrazione nello sconosciuto mondo piccolo borghese che non può che approdare a un esito tragico.
Anche la lunghissima strada che Mamma Roma percorre a piedi, in una Roma notturna, come una figura luminosa che emerge all’improvviso dal buio di un fondale, non ha più nulla in comune con il realismo delle molte strade da lei solcate nelle pellicole di ambito neorealista, da “Roma città aperta”, appunto, a “L’onorevole Angelina” per arrivare a “Bellissima”. La scena rivela, invece, chiaramente la sua artificialità, il suo assurgere (con quelle figure rappresentative, simili a fantasmi, che via via le si affiancano) a simbolo di una condizione esistenziale.
È in scene come questa che possiamo renderci conto di come Nannarella sia rimasta tale e, nello stesso tempo, sia diventata irrimediabilmente altro: una lunghissima carrellata, un piano-sequenza (uno fra i rari momenti in cui ricorre l’idea della durata) che è anche snodo fondamentale del film, quello in cui Mamma Roma prende coscienza – nel corso di un’evoluzione che ha avuto inizio dal suo colloquio con il parroco della borgata in cui vive – della responsabilità individuale e dell’ambiente nel forgiare il destino del singolo.
L’acme di questa progressiva e dolorosissima presa di coscienza (che rappresenta anche, in un certo senso, il momento culminante della carriera della Magnani, ormai al suo declinare: dopo “Mamma Roma” non ci saranno più ruoli così drammaticamente significativi per l’attrice) arriva nel tragico finale del film, in quel disperato primo piano sul volto muto e annientato di Mamma Roma; nello sguardo che, attraverso la finestra aperta, lancia a una Roma vuota, ridotta a un simulacro che non ha ormai più nulla da offrirle.
Ricorda Pasolini, sempre nel diario di lavorazione di “Mamma Roma”, il 14 maggio 1962: «Mi è stato detto che la Magnani voleva vedermi un momento, prima di girare la sequenza. […] Stava davanti allo specchio, con la sua angosciata tranquillità, la sua scontentezza, il suo impeto. Quello che doveva chiedermi era se quel giorno poteva recitare senza la parrucca (che di solito si mette, per comodità) in quanto voleva avere la faccia “sua”, completamente “sua”, per recitare l’ultima scena del film. La scena in cui le viene annunciato che suo figlio Ettore è morto e lei fugge urlando verso casa. Voleva chiedermi solamente questo. E l’ha fatto con un’aria talmente infantile, talmente sospesa, che mi ha commosso. Aveva capito perfettamente il mio desiderio di vederla ingenuamente così com’è – quasi senza trucco, con la sua faccia vera – nel momento più tragico e doloroso del film».
Nonostante le critiche negative e addirittura ostili dell’epoca, soprattutto verso la Magnani, il film a distanza di anni non trasmette quel senso d’incompiutezza che gli si rimproverava: anzi, si può dire che, a dispetto dei contrasti sorti fra loro, Pasolini è stato uno tra i pochi a riconoscere e a saper restituire con straordinaria efficacia il talento mimetico con cui si esprimeva la personalità di Anna Magnani.
«Anna è romantica» – concludeva con affetto Pasolini – «vede la figura nel paesaggio, la figura in movimento, immersa tra le cose come in un abbozzo impressionistico, magari della potenza di un Renoir: ombre e luci in movimento, sulla figura e sul paesaggio, la silhouette che danza contro gli sfondi in scorcio – mai frontali – dei lungofiumi, dei mari increspati, dei boschetti da déjeuner sur l’herbe, dei vicoli pascarelliani. Piove che Dio la manda. In fondo fare il cinema è una questione di sole».