Una panoramica sui film del 2021
L’anno appena concluso ha segnato – oltre a un parziale, lento e faticoso ritorno alla visione collettiva dopo le chiusure delle sale per effetto della pandemia – anche un riaffermarsi, una presa di posizione e di coscienza del cinema d’autore internazionale e, nello specifico, italiano: i festival più prestigiosi sono tornati ad ospitare e a fare da volano sia alle opere di autori già consolidati che a lavori di nuovi talenti e promesse della settima arte, esprimendo una volontà esplicita di recupero e valorizzazione di generi, tendenze, stili di regia che hanno segnato la storia del mezzo cinematografico, ma anche il forte interesse verso il contemporaneo. Proponiamo, di seguito, una breve panoramica analitica su alcuni tra i film più rappresentativi dell’anno appena trascorso.
“È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino
“La mano di Dio”, un ricordo oramai divenuto leggenda e moderna mitologia di Maradona e della Napoli di allora: ma anche la mano di Sorrentino, il suo stile lento e voluttuoso nelle carrellate, nelle ampie e fluide panoramiche che quella stessa Napoli accarezza e divora.
Una pellicola attraversata da ombre e luci, la messa in scena di un’estate abbagliante nel ricordo di un ragazzo (superlativo nel suo primo ruolo da protagonista il giovane Filippo Scotti) che – per la prima volta – è dichiaratamente Sorrentino stesso, con la sua rabbia, il dolore sublimato ma ancora vivo, l’attrazione per il cinema (partendo dall’assunto felliniano secondo il quale la settima arte è consolazione di fronte a una realtà giudicata scadente: «la realtà non mi piace più, la realtà è scadente», dice Fabietto al fratello, che si è cimentato con risultati fallimentari in un provino con Fellini).
Poi – come d’abitudine – si approda al circo altrettanto felliniano e anche un po’ boccaccesco dei personaggi (grotteschi, eccessivi, divertenti, paradossali) che popolano la memoria del regista, tutti affettuosamente uniti nella magia dissacrante di giorni lontani, solcati da pochi sussurri e molte (forse troppe) grida. Pianti, strepiti, urla, risate fragorose, quell’istintività barocca che contraddistingue Napoli, quel suo essere colta e popolare insieme (vedi, appunto, il mito di Maradona, il finale sulla canzone “Napule è” di Pino Daniele, la leggenda del ‘munaciello’ che ritorna a più riprese nel corso della storia).
Disturba, in parte, questo sempre insistito e smaccato lato circense di Sorrentino: come un filtro che davanti allo specchio in cui si riflette il suo modo di fare cinema, impedisse di lasciar passare aria e luce nuove.
C’è da dire, però, che anche il volgare (inteso come espressione del volgo, del popolo), il decadente, la parodia che diviene macchietta sono riproposti ogni volta da Sorrentino con spirito arguto e franco: in quest’ultimo film pare addirittura con indulgenza e affetto maggiori rispetto al passato.
“È stata la mano di Dio” potrà non piacere ad alcuni: ma incarna lo stile di un autore che non teme di riconoscersi nelle sue scelte e che in alcuni purissimi attimi sfiora la poesia di situazioni, personaggi e momenti (ad esempio, nel lungo dialogo di Fabietto con il regista e autore teatrale Antonio Capuano, sullo sfondo di una Napoli acquatica e sotterranea: emblematico – a questo proposito – il monito rivolto al ragazzo: «non ti disunire»). Non è poco, in un cinema contemporaneo spesso intessuto di cloni e replicanti.
Da segnalare per compattezza e varietà di toni e registri recitativi l’intero cast, da Toni Servillo a Teresa Saponangelo a Luisa Ranieri – folle e seducente al tempo stesso – a Renato Carpentieri, solo per citare i volti più noti.
“Madres Paralelas” di Pedro Almodovar
«Non c’è Storia muta». Con questo monito dell’intellettuale uruguayano Edoardo Galeano e con un’immagine dal simbolismo evidente (gli uomini sdraiati all’interno di una fossa, a ricordare l’umanità violata e uccisa di un passato recente) si chiude l’ultimo film di Pedro Almodovar.
“Madres Paralelas” non ha, probabilmente, il ‘tocco’, la magia, la straordinaria nitidezza di “Dolor y Gloria”: risulta anche più dispersivo e meno preciso nel dipanare il filo degli eventi. La complessità dell’intreccio, intessuto di improvvise svolte e derive, è – tuttavia – una cifra distintiva del regista spagnolo, così come l’andamento narrativo, a tratti tendente al noir.
L’effetto speculare rispetto a “Dolor y Gloria” si può ravvisare nel trapasso dal racconto di due personalità maschili (nella pellicola del 2019) a due femminili (in quest’ultima): è presente in entrambe il tema del doppio, del rimescolamento fra identità (in “Madres Paralelas” troviamo le due madri, appunto, così come le figlie scambiate alla nascita).
Appare, però, sempre più evidente che Almodovar abbia decisamente superato e risolto il discorso dei generi: non esiste più la maternità (o la paternità) tout court, neppure quella biologica, che pur istituendo una radice primaria viene vista anche come un punto di partenza per le potenzialmente infinite espressioni dell’amore: il quale, finalmente, è unico e indivisibile, per cui si possono amare allo stesso modo sia figli di sangue che figli presunti tali, così come è possibile passare senza soluzione di continuità da un amore femminile a uno maschile e viceversa.
Almodovar ama ritrovare e mostrare il suo mondo: popolato di donne, soprattutto, e di attrici (Julieta Serrano, Rossy De Palma, Penelope Cruz), di appartamenti madrileni moderni e variopinti, solcati dalla luce, di antiche dimore nella provincia spagnola, la stessa in cui è nato.
La denuncia dei crimini commessi dal governo spagnolo è un fil rouge che percorre tutto il film, grazie alla storia della famiglia che Janis (Penelope Cruz) si adopera per riportare alla luce. Può apparire una trama un po’ debole, ma – a detta di Almodovar stesso – questo scavo nel passato è una ferita ancora aperta e molto dolorosa per la Spagna, difficile da far affiorare e trasferire in racconto.
Commuove il corteo del finale (composto soprattutto da donne) sino alla fossa aperta, nelle mani le fotografie dei loro cari scomparsi. Nel pudore del ricordo e della sofferenza sono ancora una volta le donne a farsi viatico non solo per una presa di coscienza, ma anche per il tormentato e complesso riscatto di una pagina tragica della storia spagnola.
In questo doloroso rimembrare, nel culto del cibo che dà nutrimento, che è memoria rivolta al presente, così come nell’atto del guardare e del saper vedere al di sotto della superficie del reale (il lavoro da fotografa di Janis) il futuro si delinea, però, ancora una volta e ostinatamente donna.
“Ariaferma” di Leonardo Di Costanzo
È una pellicola inconsueta, quest’ultima del regista campano Leonardo Di Costanzo, non tanto e non solo per la trama (l’esperienza carceraria di un piccolo gruppo di dodici reclusi in attesa di un non meglio precisato e non quantificabile temporalmente trasferimento), quanto per lo stile.
Il già documentarista Di Costanzo (“I ponti di Sarajevo”, 2014) gioca sulla sottrazione, sulla rarefazione di dialoghi, atmosfere, situazioni, regalando allo spettatore un tempo immobile, che non passa: “aria ferma”, appunto, eppure in grado di scavare dentro le coscienze, di suscitare reazioni, echi, memorie.
Abbiamo a che fare con ricordi non troppo esibiti, per la verità: perché ciò che conta, che respinge o avvicina gli uomini (il caso dei personaggi interpretati da Silvio Orlando e Toni Servillo, rispettivamente detenuto e carceriere in un vecchio carcere montano in via di dismissione) è un eterno presente, dove il deserto delle irte cime che circondano il carcere come la medesima struttura penitenziale (spesso ripresa dall’alto, per esacerbare la sensazione di claustrofobia che proviene dai suoi cunicoli e anfratti, dai desolati muri senza varchi) simboleggiano una condizione umana desolante e sospesa.
Da “Aspettando Godot” di Beckett a “Il deserto dei tartari” di Buzzati, si sprecano i manifesti riferimenti letterari e cinematografici di “Ariaferma”.
Risultano assai evocative le musiche di Pasquale Scialò, e così alcuni canti tradizionali (sardi, ma i riferimenti geografici come quelli temporali sono volutamente imprecisi); è perfino disturbante, a tratti, la lentezza di ciò che non accade: un lavoro originale, emblematico.
“Tre piani” di Nanni Moretti
Molto si è detto e molto ancora rimarrà da dire in futuro sull’ultima fatica di Nanni Moretti, liberamente adattata dal romanzo omonimo dello scrittore isrealiano Eshkol Nevo (2017).
I “Tre piani” del titolo fanno riferimento alle vite e alle alterne vicende che popolano e movimentano un tradizionale caseggiato romano, dietro le cui porte pesanti si celano solitudini, sospetti, presunti abusi, tradimenti e malinconie.
“Tre piani” può venire letto anche come un riferimento simbolico a Es, Io e Super Io, i tre livelli in cui è per convenzione suddivisa la nostra psiche. In questo caso, il livello del giudizio (e della censura) è incarnato da un Nanni Moretti nei panni di un severo e intransigente giudice – Vittorio – personaggio in cui l’estremo rigore non viaggia in parallelo con le capacità persuasive o la forza di una presenza, e che nel corso della narrazione non manifesta alcun arco evolutivo: semplicemente sparisce, lasciando la moglie Dora (Margherita Buy) a fare i conti con la sua assenza e un prepotente desiderio di libertà, lo stesso già distruttivamente manifestato da Andrea, l’unico figlio della coppia.
Ciò che rimane è ben sintetizzato da un ricorrente piano fisso e frontale su di una casa priva di fondamenta simboliche, che presto o tardi tutti – vecchie e nuove generazioni – sono destinati a lasciare. La milonga ballata per strada e un sorriso strappato ad Andrea nel finale stemperano solo di poco la profonda tristezza dell’assunto, magistralmente esemplificata attraverso la storia di Monica, la giovane madre impersonata da Alba Rohrwacher: ogni storia d’amore è una storia di fantasmi (David Foster Wallace docet) e l’unica strada o soluzione possibile è la fuga, l’abbandono, l’estraniamento fisico e mentale.
Con “Tre piani” Nanni Moretti perde quella graffiante autoironia ancora presente in “Habemus Papam” (2011) e guarda al mondo e alle relazioni umane attraverso il filtro di un raziocinante pessimismo.