Nel blitz per la maxi evasione fiscale bresciana anche un’azienda alessandrina
BRESCIA – C’è anche un’azienda alessandrina che ha provato ad evadere le imposte sul reddito e sul valore aggiunto attraverso l’emissione di fatture inesistenti pensando – erroneamente – di uscirne indenne. Si tratta di un’impresa meccanica con sede a Roma ma con centro operativo anche ad Alessandria. Nel blitz dei militari scattato lunedì mattina, 13 settembre, al responsabile – attualmente denunciato – sono stati sequestrati beni per circa settanta mila euro.
L’operazione è scattata di prima mattina, e ha interessato le province di Brescia, Milano, Bergamo, Mantova, Lodi, Alessandria, Novara, Varese, Parma, Piacenza. In campo i carabinieri del Comando Provinciale di Brescia, con la collaborazione dei militari delle province interessate: è stata eseguita un’ordinanza di misura cautelare emessa dal Gip di Brescia, che ha concordato con il solido quadro probatorio raccolto e documentato dal Nucleo Investigativo di Brescia, sotto il coordinamento della Direzione Distrettuale Antimafia.
Provvedimento eseguito nei confronti di 30 persone, ritenute a vario titolo responsabili di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati tributari e/o di appropriazione indebita al fine di agevolare alcune società nella sistematica evasione delle imposte sul reddito e sul valore aggiunto, attraverso l’emissione di fatture per operazioni inesistenti e conseguente “trasferimento fraudolento di valori”.
Sono state anche accertate e contestate condotte relative alla detenzione ai fini dello spaccio di ingenti quantitativi di stupefacenti (hashish e cocaina).
Quindici persone sono finite in carcere (11 per associazione per delinquere); tre ai domiciliari, 11 le ordinanze di interdizione dalla professione dell’attività di imprenditore commerciale e amministratore di imprese commerciali per un anno; 51 sequestri preventivi de beni mobili ed immobili (tra questi anche l’alessandrino, ndr), finalizzati alla confisca sia diretta che per equivalente, per una somma complessiva pari a circa 13 milioni di euro quale provento delle attività illecite; le quote societarie di 4 imprese commerciali; 1 villetta a Chiari; 4 appartamenti rispettivamente in provincia di Brescia, Milano e Bergamo; 7 autorimesse; 1 magazzino commerciale; 6 quote proporzionali di abitazioni; 5 quote proporzionali di autorimesse; 2 terreni nella provincia di Brescia; 250 conti correnti in Italia, oltre a denaro contante.
L’indagine, denominata “Sweet Water”, trae origine dal sequestro di 31 chili di hashish con contestuale arresto di 3 pregiudicati, il 22 luglio 2018 dai Carabinieri di Brescia.
Il successivo sviluppo investigativo, avviato nell’ottobre 2018, ha consentito di individuare un’associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati di natura fiscale.
Il lavoro certosino dei Carabinieri ha portato all’individuazione di Giovanni Bertozzi che, con la collaborazione di Bruno Claudio Marzoli, è ritenuto promotore e coordinatore di una organizzazione dedita all’evasione fiscale ed alla monetizzazione tramite conti correnti esteri di ingenti somme di denaro, grazie alla fondamentale complicità di un esperto contabile tributarista, Giuseppe Familiari.
Grazie ad un commercialista compiacente ed altri complici italiani e stranieri, è stato realizzato un articolato schema basato sull’emissione di fatture per operazioni inesistenti, che ha permesso all’intera organizzazione di trasferire somme di denaro, negli anni contabili 2018-2019, per almeno 32.407.162 di euro.
Il progetto consisteva nella costituzione di temporanee società cartiere fittiziamente intestate a consapevoli e retribuiti prestanome, mediante le quali venivano emesse plurime fatture per operazioni inesistenti, del valore anche di centinaia di migliaia di euro, in favore di società compiacenti realmente esistenti e regolarmente operative nel settore dell’edilizia, della lavorazione tessile o dei metalli.
Il sistema
Queste ultime, alla ricezione della concordata falsa fattura, disponevano un equivalente bonifico all’indirizzo del conto corrente della cartiera al duplice fine di attribuire una parvenza di liceità all’operazione commerciale in realtà solamente simulata e di ottenere così il trasferimento delle somme di denaro.
Non appena ricevuto il pagamento sul conto delle “cartiere”, gli indagati inviavano le medesime somme in conti correnti esteri (in Francia, Ungheria, Bulgaria e Cina), intestati a società compiacenti che, attraverso la complicità di un cinese, monetizzavano il denaro con prelievi di contante, restituito agli indagati che, a loro volta, lo riconsegnavano agli amministratori delle società realmente operative che avevano incassato la fattura fittizia e disposto il primo bonifico (ovviamente al netto del prezzo del reato stabilito complessivamente attorno al 7% di ciascuna falsa fattura emessa e pagata).
Così facendo, ossia simulando spese in realtà mai sostenute (poiché il denaro trasferito veniva poi restituito), le società realmente operative coinvolte nell’attività illecita, oltre a disporre di ingenti somme di denaro contante, ottenevano l’erosione della propria base imponibile ai fini delle imposte sul reddito, funzionale ad una consistente evasione fiscale (sia di imposte dirette che indirette).
Un sistema che ha causato un’evasione fiscale fiscale per un importo di molto superiore ai 9 milioni di euro per il solo anno 2018 e parte del 2019.