Julianne Moore: tutta la vita davanti
“…Macché, solo noi attori esistiamo davvero. Loro, i personaggi, le ombre a cui noi diamo sostanza. Siamo noi i simboli di tutto questo trambusto vasto, consumo che chiamano vita, e solo il simbolo è reale. Dicono che recitare è soltanto finzione. Questa finzione è la sola realtà.”
– W. Somerset Maugham, “La diva Julia”
«Dire a una donna che sta ‘invecchiando bene’ è un’espressione profondamente sessista. Esiste un modo sgraziato di invecchiare? Non abbiamo nessuna opzione. Nessuno ha la possibilità di non invecchiare, quindi non è una cosa positiva o negativa. È solo la vita. Invecchiare fa parte della condizione umana, quindi perché ne parliamo sempre come se fosse qualcosa su cui abbiamo il controllo? Abbiamo tutta questa vita da vivere. Come possiamo continuare a metterci alla prova, ad interessarci, a imparare cose nuove, ad essere più utili agli altri, ad essere la persona di cui i tuoi amici e la tua famiglia hanno bisogno o desiderano? Come continuiamo ad evolverci? Come navighiamo nella vita per avere esperienze ancora più profonde? Questo dovrebbe essere l’invecchiamento. Ci viene raccontata questa storia da bambini che si continua a crescere con la scuola, forse andiamo al college e poi, dopo la scuola, la crescita è completa. Ma abbiamo ancora tutta la vita davanti da vivere».
La diva sessantenne – premio Oscar nel 2015 per il film “Still Alice” di Richard Glatzer e Wash Westmoreland che mette in campo con dolorosa evidenza gli effetti e le conseguenze della malattia di Alzheimer – si è espressa in maniera molto franca e lucida, nel corso di un’intervista rilasciata di recente al magazine “As If”, sugli stereotipi che ancora inficiano l’immagine del femminile, specialmente per quel che riguarda l’inevitabile trascorrere del tempo.
È delle ultime ore anche l’indiscrezione – riportata da “Variety” – secondo cui la Moore l’anno prossimo inizierà le riprese di “May December”, il nuovo film di Todd Haynes (con il quale ha lavorato altre quattro volte), insieme a Natalie Portman.
La Portman interpreterà il ruolo di Elizabeth, un’attrice hollywoodiana che si mette in viaggio verso le coste del Maine per conoscere meglio la storia di Gracie (Julianne Moore), la donna di cui riveste i panni nel suo film. Gracie ha destato un certo scandalo, anni prima, sposando un uomo più giovane di lei di 23 anni (da qui il riferimento del titolo, un’espressione americana per indicare una relazione amorosa tra due persone con una grande differenza d’età).
«Ciò che mi ha conquistato dello script eccezionale di Samy Burch è il modo con cui ha affrontato tematiche potenzialmente instabili con una pazienza osservativa che ha permesso ai personaggi della storia di essere esplorati con una sottigliezza non comune», ha commentato Todd Haynes riguardo la storia messa in scena dal film.
In attesa dell’ultima fatica della Moore, che già si preannuncia interessante sia per il cast sia per i temi che affronta, possiamo ripercorrere brevemente la sua carriera artistica, sempre a metà strada tra due definizioni, due espressioni dell’arte recitativa, due territori dai contorni spesso talmente irregolari e sfumati che finiscono per lambirsi.
Come afferma Tomasi in “Cinema e racconto. Il personaggio” (Loescher, 1988): «Ciò che differenzia il divo dall’attore è che il primo costruisce intorno a sé una sorta di immagine semiotica che si impone sempre, sebbene in misura diversa, ai suoi personaggi. Tale immagine è il frutto di due operazioni diverse, seppure strettamente connesse tra loro: la prima è quella determinata dalle precedenti interpretazioni del divo, che concorrono nel farne un “personaggio” segnato da certi caratteri dominanti; la seconda ha a che fare con il modo in cui il divo, inteso ora come persona reale, si presenta al suo pubblico attraverso l’apparato dei media».
Julie Anne Smith, in arte Julianne Moore, originaria di Fayetteville, nella Carolina del Nord, dove nasce sul crinale degli anni Sessanta, è l’esempio più emblematico del grande crogiolo di razze che l’America rappresenta, figlia di un’assistente sociale di origini scozzesi e di un colonnello dell’esercito di discendenze albanesi. La raffinatezza, l’estrema eleganza del portamento e dei modi (elementi che caratterizzano fortemente anche il suo modo di recitare, specialmente a partire dalla maturità in poi) vengono influenzati da quel ‘coté’ europeo che le deriva proprio dall’essere cresciuta e l’aver studiato tra gli Stati Uniti e l’Europa (può vantare un diploma alla Frankfurt American High School di Francoforte, e una laurea in Belle Arti presso la Boston University).
I suoi inizi ricalcano quelli di qualsiasi altra attrice esordiente: il lavoro come cameriera a Broadway, dove si trasferisce, giovanissima, a partire dal 1983, per supportare la passione per la recitazione; la lunga gavetta, prima teatrale (in produzioni off-Broadway), poi televisiva e cinematografica, ma in virtù della quale inizia quasi da subito ad ottenere tutta una serie di riconoscimenti e premi che – con il tempo e il moltiplicarsi dei ruoli – diverrà sempre più ricca e variegata. È possibile, dunque, raccontare il percorso artistico della Moore anche attraverso il lunghissimo elenco dei suoi riconoscimenti, da cui emergono preferenze di ruoli, indicazioni di collaborazioni reiterate con registi per i quali diviene una vera e propria attrice-feticcio, e personali inclinazioni politiche e civili. Si parte con un Emmy Award ottenuto nel 1988, per la soap opera “Così gira il mondo”, mentre ottiene piccoli ruoli in film come “La mano sulla culla” (Curtis Hanson, 1992) e “Body of Evidence – Il corpo del reato” (Uli Edel, 1993); nel 1994 e nel 1998 viene candidata all’Independent Spirit Awards, rispettivamente come miglior attrice non protagonista e protagonista per “America oggi” di Robert Altman (con cui lavorerà qualche anno più tardi ne “La fortuna di Cookie”, 1999) e Safe di Todd Haynes, che la richiamerà nel 2002 per il ruolo di Cathy Whitaker in “Lontano dal paradiso” (per cui è candidata all’Oscar come protagonista nel 2003, vincendo la Coppi Volpi a Venezia), nel 2007 per “Io non sono qui”, biopic sulla vita di Bob Dylan, e nel 2017 per “La stanza delle meraviglie”.
Un altro autore oltre a Haynes, quotatissimo negli ultimi anni come esponente del nuovo cinema statunitense, utilizza la Moore come propria attrice simbolo ed alter-ego: si tratta di Paul Thomas Anderson, sotto la cui regia interpreta “Boogie Nights – L’altra Hollywood”, che le fa ottenere nel 1998 la sua prima candidatura all’Oscar, e – nel 1999 – “Magnolia”.
Anche la storia delle candidature al premio Oscar della Moore è ricca e variegata: dalla prima, nel 1998, per la già citata pellicola di Anderson, passando attraverso quella del 2000, per “Fine di una storia” di Neil Jordan, la doppia candidatura del 2003 (come protagonista per “Lontano dal paradiso” e non protagonista per “The Hours” di Stephen Daldry, con il quale vince l’Orso d’Argento a Berlino) e, finalmente, nel 2015, la tanto sospirata conquista del Golden Globe e poi della mitica statuetta per l’interpretazione della scienziata malata di Alzheimer in “Still Alice” di Richard Glatzer e Wash Westmoreland, anticipati – nel 2014 – dal Prix d’interprétation féminine al Festival di Cannes per “Maps to the Stars” di David Cronemberg.
Infine, anche la televisione la premia abbondantemente, nel 2012, per l’interpretazione di Sarah Pakin nel film “Game Change” di Jay Roach: un Golden Globe, un Emmy, un Critics’ Choice Television Award e uno Screen Actors Guild Award.
Un’attrice-diva pluripremiata, la Moore, che negli anni dimostra di sapersi abilmente destreggiare tra pellicole indipendenti, d’autore (vedi “Vanya sulla 42esima strada” di Louis Malle, 1994; “Surviving Picasso” di James Ivory, 1996; “Il grande Lebowski” dei Coen, 1994 e “Gloria Bell” del cileno Sebastián Lelio, 2018) e altre più commerciali (quali, ad esempio, i blockbuster “Il mondo perduto-Jurassic Park”, di Steven Spielberg, 1997, e la seconda parte della saga di “Hunger Games-Il canto della rivolta”, di Francis Lawrence, 2015: non disdegnando neppure la pesante eredità della Jodie Foster-agente Claire Sterling, indimenticabile figura chiave de “Il silenzio degli innocenti” di Demme (“Hannibal”, Ridley Scott, 2001).
Il fronte delle battaglie sociali e dell’impegno civile costituisce un ulteriore fil rouge per leggere la carriera e la figura divistica della Moore: sostenitrice del Partito Democratico americano, l’attrice supporta i diritti della comunità omosessuale attraverso il ruolo di Jules ne “I ragazzi stanno bene”, di Lisa Cholodenko, 2010, sensibilizza l’opinione pubblica sul dramma dell’Alzheimer in “Still Alice” e in “Freeheld-Amore, giustizia, uguaglianza”, per la regia di Peter Sollett, porta all’attenzione dell’opinione pubblica la lotta per i diritti civili delle coppie di fatto omosessuali, contribuendo a raccontare la storia vera della poliziotta Laurel Hester, malata di cancro all’ultimo stadio, che si è battuta per far ottenere alla compagna Stacie Andree il beneficio della propria pensione.
TORNA AL BLOG DI BARBARA ROSSI
Sul versante del privato, niente affatto tralasciabile quando si tratta di comporre il frammentato mosaico di una personalità divistica, Julianne sembra rientrare, invece, nei rassicuranti canoni della più assoluta normalità.
Due matrimoni, entrambi con registi, l’ultimo di lunga durata, cementato da due figli avuti in non più giovanissima età, essendosi – come racconta lei stessa – precedentemente occupata di consolidare la sua carriera.
Una donna dei nostri giorni. Una come tante, insomma. Oppure no?
I mass media restituiscono nel complesso un’immagine divistica della Moore estremamente raffinata, elegante, sino quasi a sfiorare la perfezione; Julianne incarna un tipo fisico di donna di una bellezza evidente, appariscente, ma senza mai scadere nella volgarità dei tratti e dei modi. Il colore rosso fiammeggiante dei capelli (a seconda dei ruoli con variazioni sul castano e sul biondo), qualche accorgimento di trucco bastano a trasformarla – grazie anche al fisico tonico e asciutto, che pare non risentire del trascorrere del tempo – in una vera e propria dea, come le accade quando viene trasformata in Era per l’edizione 2011 del calendario Pirelli, firmata da Karl Lagerfeld e dedicata alla mitologia; oppure quando viene utilizzata come testimonial e immagine di riferimento dai grandi marchi mondiali del lusso, come Bulgari, o da case cosmetiche come Sephora e l’Oreal (questo accadeva già ai principali esponenti del divismo hollywoodiano, tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta).
Si tratta di una presenza mediatica che fa del divo un vero e proprio brand, un marchio, spendibile sul mercato: ruolo che serve, come nel caso della Moore e di molte altre attrici, a rafforzarne ulteriormente l’immagine divistica.
Emblematico, in questo senso, è lo scatto realizzato dal fotografo Michael Thompson, per “Vanity Fair”, nel 2000: il riferimento è al celebre dipinto del 1814 di Jean-Auguste Dominique Ingres, “La grande odalisca”; l’immagine è effettivamente quella di una moderna odalisca, di grande sensualità e sofisticatezza: una figura assolutamente moderna e insieme al di fuori del tempo, una vera e propria icona, nella compostezza ieratica del corpo.
Ma un divo è anche e soprattutto un uomo, una persona reale, e una delle regole del divismo è proprio quella di fare leva sull’ ‘impressione di realtà’ che a tratti ne scaturisce: «I divi come i personaggi delle storie sono rappresentazioni di persone, pertanto vanno correlati alle idee su cosa sono o si suppone che siano le persone. Però, diversamente dai personaggi della narrativa, le star sono anche persone reali, come ripetutamente affermato negli scritti sui divi. Gli attori del cinema ci appaiono prima di tutto come persone, e solo successivamente se non mai come attori, artisti» (Richard Dyer, “Star”, Kaplan, 2009).
Per questo è possibile porre a confronto lo scatto di Thompson con quello, pubblicato sul sito de “Il Sole 24 Ore”, che ritrae la Moore sorridente, in abiti quotidiani e senza trucco, in evidente stato di gravidanza: quasi irriconoscibile rispetto l’immagine semi-divina delle foto per la campagna pubblicitaria di Bulgari e “Vanity Fair”.
Entrambe le fotografie puntano i riflettori sulla femminilità della Moore, esaltandone le caratteristiche e i tratti, ma si tratta di due declinazioni molto diverse del femminino: il primo è oggetto di sguardo, di desiderio, pur nell’evidente irraggiungibilità del soggetto: il secondo, invece, è espressione del materno che nutre e rassicura.
Il tentativo, comune all’edificazione dell’immaginario divistico degli ultimi anni, è quello di una cauta normalizzazione dell’immagine del divo, della creazione di un suo background quotidiano, anche banale, che possa piacere al pubblico, colmando la distanza tra i due poli.
Julianne Moore, dunque, oltre che un’attrice e una diva, è anche una madre: che al sabato, come buona parte delle madri americane, va al fast food con il marito e i figli, come racconta lei stessa con una buona dose di ironia nel corso della puntata del 26 luglio 2011 del David Letterman Show, di cui è ospite per presentare “Crazy, Stupid, Love”.
Naturalmente è difficile dire quanto risulti credibile quest’immagine domestica di un’attrice per altri versi rispecchiante un’effigie piuttosto altera: sarebbe necessario ragionare su come l’immagine dell’attore venga percepita, ma anche su come i mass media cerchino di veicolarla e di normalizzarla, cioè di renderla più appetibile, colmando la grande distanza che spesso il pubblico percepisce tra la sua vita e quella stra-ordinaria dei divi.
Sotto questa prospettiva risulta, comunque, illuminante la già citata affermazione di Kristen Stewart, sua partner in “Still Alice”: «È brava a interpretare le persone normali. Ma in lei ci sono infinite sfaccettature. Di normale non ha proprio niente». Anche la presunta normalità dei divi sarebbe, in questo caso, illusione, rappresentazione: farebbe parte, insomma, dell’infinito gioco di specchi e rifrazioni posto in essere dal cinema.
E la critica? La maggior parte sottolinea l’estrema identificazione ed immedesimazione della Moore con i suoi personaggi: dunque, la tecnica attoriale, la pignoleria e il perfezionismo, quell’attitudine mimetica che caratterizza l’arte di una moltitudine di attori, in alcuni casi (ma non in quello di Julianne) affinata dalle rigorose tecniche di resa scenica dell’Actors Studio (vedi Meryl Streep, ad esempio).
Per immedesimarsi nel personaggio di Alice Howland, la linguista che deve fare i conti con una diagnosi di Alzheimer precoce, «Ha frequentato esperti, partecipato a gruppi d’ascolto e fatto amicizia con una donna che le somigliava, rossa come lei, malata. Per questo, anche, così tanta delicatezza nell’interpretazione.» (“Julianne Moore: ‘Svuotata dall’Alzheimer’”, Lavinia Farnese, “Vanity Fair”, 17 ottobre 2014)
Julianne Moore pare essere davvero un’attrice dai mille volti; porta comunque un’ambivalenza molto grande nella sua figura divistica, a metà strada fra attrice e diva. Nei suoi ruoli è elegante e sciatta, rassicurante e isterica, fatale, sexy e pericolosa ma anche madre di famiglia, fragile e forte. Nella vita restituisce un’immagine di estrema eleganza, diventando, come abbiamo detto, testimonial di marchi di lusso. Ma è anche una madre che va al fast food con il marito e i figli. È difficile, quindi, rintracciare in lei una personalità divistica forte e molto caratterizzata, come invece succede ad alcune altre star dell’olimpo hollywoodiano, passate e presenti.
La Moore pare mantenersi abilmente in bilico tra aderenza e distacco dalle figure femminili che incarna, cimentandosi in continuazione in ruoli estremamente eterogenei, che costruisce con l’attenzione e la meticolosità di un prototipo di attrice che non ammette alcuna improvvisazione o spontaneismo nel dar vita al personaggio. Si estrinseca in questo tentativo di categorizzazione dei ruoli della Moore la versatilità di una personalità attoriale che pone la sua ieratica bellezza al servizio di una figura femminile in perenne metamorfosi, collocandosi a metà strada tra l’attrice e la diva.