Robe da matti!
Sono entrato in un manicomio e alla fine della visita mi hanno fatto uscire tranquillamente. Questa è già una buona notizia. È stata un po’ la stessa sensazione di averla fatta franca di quando entravo in carcere e, una volta tenuto il corso di teatro, sgattaiolavo fuori senza che i secondini tentassero di trattenermi.
Certo, i manicomi non esistono più, sono stati chiusi dopo la legge Basaglia del 1974 e da allora, come tutti sapete, è stata prevista una radicale riforma tesa a trasformarli da luoghi di contenzione in reparti ospedalieri volti alla cura e alla riabilitazione, perlomeno parziale, dei pazienti.
Quello a cui ho avuto accesso io, infatti, è un museo, situato al piano superiore dell’attuale ospedale psichiatrico, che testimonia metodi e trattamenti dispensati da uno di questi istituti storici, l’“Ospedale San Giacomo” di Alessandria.
A farmi da ciceroni, o da psicopompi in questa breve discesa tra gli inferi che albergavano quelle antiche menti deviate, i dottori Luigi Bartoletti, direttore del Sert, già direttore del Dipartimento di Salute Mentale, e Paolo Casamento, direttore in carica dello stesso dipartimento.
Paolo Casamento e Luigi Bartoletti
La prima cosa che mi viene mostrata, subito all’entrata, è un enorme quadro che ritrae il Regio Manicomio ottocentesco (in foto). Simile, così, ad occhio, al Panopticon teorizzato dal filosofo Bentham, aveva proporzioni impressionanti e una struttura dall’aspetto vessatorio. Si trattava di una vera e propria cittadella fortificata da alte mura che si estendeva dall’odierno Spalto Marengo a Via Venezia (quest’ultima via d’altronde fino a ben oltre la mia infanzia era l’antonomasia alessandrina per indicare il luogo elettivo di soggetti dalle forti turbe mentali: “Tu sei uno da via Venezia” si diceva scherzosamente a chi dimostrasse comportamenti particolarmente eccentrici).
La pianta era a H: sulle due ali verticali erano separati i pazienti di sesso maschile da quelli di sesso femminile, mentre il braccio orizzontale comprendeva i vari servizi ospedalieri. Nessuno poteva uscire dal perimetro intorno alla sede, neppure il direttore e i suoi più stretti congiunti, che erano a loro volta costretti a condurre le proprie vite all’interno di quel luogo di sofferenza.
La cronologia complessiva di come la società si sia confrontata nel corso dei secoli con lo squilibrio psichico è ovviamente assai più lunga di quella qui proposta, a partire da una certa forma di benevolenza da parte dell’età classica verso il matto, spesso ritenuto un tramite con il divino, all’approccio demonologico secentesco, per il quale il soggetto doveva essere in qualche maniera esorcizzato dalla propria pazzia, seguito dall’approccio morale del Secolo dei Lumi, che tentava di recuperare il malato attraverso l’educazione alla norma, per approdare infine al positivismo, il cui più illustre figlio in campo criminologico è Cesare Lombroso. Solo negli anni ’50 del secolo scorso verranno scoperti due farmaci rivoluzionari che faranno nascere la psichiatria moderna: Aloperidolo e Cloropromazina, entrambi impiegati per il controllo della schizofrenia.
Si può dire che la storia delle patologie psichiatriche e dei tentativi di domarle sia da sempre improntata a un empirismo perlopiù fortuito, a ulteriore dimostrazione di come la mente umana sia un mistero talmente impenetrabile da renderne difficile uno studio disciplinato ed efficace come avviene invece per le altre parti delle nostre anatomie. Sta di fatto che la summenzionata Cloropromazina nacque in realtà quale antistaminico e che solo secondariamente se ne osservarono gli effetti calmanti per problemi di ordine psichico. Il primo antidepressivo era nato come antibiotico per la tubercolosi. Lo stesso bagno in acqua gelata e in acqua calda a cui si ricorreva per sedare i più scalmanati, o l’elettroshock, tuttora tollerato dai sistemi sanitari di molti paesi occidentali, mostravano buoni risultati senza che a tutt’oggi ancora se ne siano intuite le reali ragioni fisiologiche.
La raccolta museale dell’Ospedale Psichiatrico San Giacomo di Alessandria si trovava fino a qualche anno fa in quello che precedentemente era il padiglione necroscopico, dove si effettuavano le autopsie per scopi di studio o per accertamenti clinici sui corpi di chi avesse incontrato la morte all’interno di questo microcosmo, che per la verità possiamo ritenere essere la stragrande maggioranza degli internati, considerato che, pur essendo prevista la liberazione di chi dimostrasse guarito dalla propria alienazione, sul direttore del manicomio, in quanto loro tutore legale, sarebbe ricaduta la colpa di eventuali atti criminosi compiuti dall’ex-degente restituito alla società, ragion per cui quasi mai ci si prendeva la responsabilità di firmarne le dimissioni. L’internamento dunque si trasformava quasi automaticamente in un “fine pena mai”.
Entrare dentro il museo vuol dire fare un viaggio a ritroso fino a quei tempi in cui alienisti pesantemente intabarrati si aggiravano tra questi stessi corridoi, contro le pareti dei quali risuonavano le urla e le farneticazioni degli ospiti coatti, per prestare loro terapie dagli esiti spesso discutibili.
Il manicomio viene creato ufficialmente nel 1778 dalla fusione di due confraternite. Ne resta memoria nei quadri che ritraggono i molti benefattori. Il luogo subirà una razionalizzazione nell’’800, quando Cavour decentrerà sull’intero suolo sabaudo i ricoveri, fino ad allora concentrati nell’Ospedale dei Pazzarelli di Collegno, molto noto per la presenza, quasi un secolo fa, del famoso “Smemorato di Collegno”, conteso da due diverse mogli, oltre che per essere stato a lungo diretto da Carlo Angela, padre del noto divulgatore scientifico, Piero, di cui, tra le altre cose, fu allievo lo stesso Basaglia.
Se posso indulgere giusto per un attimo nei ricordi personali, mi capitò, quando facevo il celerino a Torino, di partecipare a uno sgombero, alle cinque del mattino, proprio dentro dell’ex-manicomio collegnese, dismesso ormai da decenni. Rammento spazi oscuri e cavernosi occupati abusivamente da una massa di disperati e un vigile comunale che provò a sfondare una porta murata con un calcio, come doveva aver visto fare in qualche telefilm di Italia 1, fratturandosi penosamente il piede destro. Ma questa è un’altra storia…
Ponca fu il primo direttore del regio manicomio. Fu lui a badare alla sistematizzazione dei crani che attendono il visitatore con i loro sorrisi sdentati, schierati cheek o cheek sopra gli scaffali di legno chiaro. Il gabinetto craniologico (uno dei più vasti d’Italia) fu definitivamente allestito – come oggi lo vediamo – dal direttore Maragnani nel 1912, contemplando la bellezza di 222 elementi, così suddivisi: 65 epilettici, 22 idioti, 33 delinquenti e pazzi morali, 73 pazzi comuni.
I direttori che si avvicendarono in quegli anni erano tutti di scuola lombrosiana, come testimonia questa macabra collezione che, insieme ai calchi dei padiglioni auricolari, ambiva a inventariare degenerati e criminali secondo le loro peculiarità fisiche. Per esempio c’era la celebre fossetta occipitale che, nelle osservazioni del Lombroso, avrebbe dovuto identificare per certo un “delinquente nato”. Si tratta di una scalfittura di pochi centimetri che si dovrebbe reperire a colpo sicuro nella parte retrostante della scatola cranica in oggetto. Unico evidente disguido: per scoprire se qualcuno sia un malavitoso per attitudine naturale, lo si dovrebbe acchiappare, fargli lo scalpo, segargli il cranio, strappare via il cervello e osservare se quel segnetto c’è o non c’è. Diciamo che non è esattamente quello che si intende per “prevenzione della criminalità”…
A conferma di questa impostazione antropometrica, c’è anche il set completo del frenologo, con tanto di compasso per le misurazioni interorbitarie, della glabella, delle protuberanze e delle varie altre sezioni della testa. Ogni parte della capoccia umana rispecchierebbe, secondo queste sorpassate teorie, una diversa percezione, quasi si trattasse di tante aree gnoseologiche diverse, come si può evincere dal modello di cranio su cui si trovano indicate la sede della meraviglia, dell’orgoglio, del rispetto, del sogno e così via.
Un altro aspetto notevole è la catalogazione stessa dei teschi, suddivisi secondo il grado di follia: idioti, cretini, ebeti. E qui notiamo come la storia della terminologia clinica rappresenti una continua fuga dal linguaggio comune, che mano a mano si è appropriato delle etichette mediche per renderle degli insulti di uso quotidiano, costringendo la nomenclatura accademica a scovare definizioni sempre nuove che si discostassero da quelle ormai assimilate dalla gente.
Sopra alcuni tavoli vediamo le suppellettili adoperate per servire i pasti. Notiamo l’assenza di posate: i commensali potevano unicamente bere i loro brodi dalle tazze o mangiare con le mani. Era anche previsto un imbuto per l’alimentazione forzata. Poco distante un armadio socchiuso mostra una serie di camicie di forza in ruvida canapa, a cui si aggiungono delle catene e, per i casi meno “agitati”, delle corsettiere per legare le mani sul davanti.
Su un paio di tavolini ci sono invece alcune macchinette portatili per l’elettroschock (in foto). I medici mi spiegano che gli elettrodi venivano applicati alle meningi di tutti i poveri picchiatelli ogni mattina al risveglio, indiscriminatamente, subito prima della colazione.
In realtà per il presente reportage non ero solo: mi accompagnava la fotografa del giornale Cecilia, la cui gentilezza dei tratti contrastava con gli elementi seminati lungo il percorso didattico, facendola rassomigliare ai miei occhi a una di quelle dolci e belle biondine alle quali solitamente era affidata la parte di “Scream Queen” negli splatter anni ’80 e ’90 con cui sono cresciuto, anche se lei, in effetti, non si è concessa neppure uno strillo, anche di fronte ai reperti più grotteschi, che ha invece documentato con prontezza di clic. Mi riferisco per esempio alla piccola rassegna di curiosità che spicca dal fondo di un armadietto, che sembrano fatte apposta per attrarre l’attenzione di un cultore dell’insolito come me: dentro alcuni barattoli riempiti di formaldeide galleggiano i feti di due gemelli siamesi congiunti per la testa, sicuramente partoriti da una degente, un paio di organi interni non meglio identificati e un pene reciso, sulla cui presenza i miei accompagnatori hanno preferito glissare. Oltre a questo, da due teche di vetro costruite su misura biancheggiano gli scheletri di un nano e di un acromegalico.
Sono presenti anche delle cardatrici da lana, delle tomaie e dei tomboli per la cucitura dei merletti a documentare i lavoretti in cui i malati venivano impiegati. In una vetrinetta poi fanno bella mostra di sé manufatti in creta e marionette. Il Parvum, tuttora in attività, era allora il teatrino della struttura asilare, dove venivano inscenati periodici spettacolini per il pubblico interno.
Per finire in una struttura come questa bastava che il soggetto fosse ritenuto “pericoloso per sé o per gli altri o per pubblico scandalo”, in quel momento scattava il meccanismo prefettizio e si procedeva a internarlo per via coatta. Non doveva essere infrequente la presenza caratteri estrosi come quelli artistici. Ne è un esempio Emilio Torquato Massazza, amico personale di Pellizza da Volpedo, qui ricoverato come “pazzo morale”, che, nei molti anni trascorsi tra queste mura, ha ritratto alcuni suoi compagni di detenzione, in posa statica o impegnati nelle colonie agricole per scopi di ergoterapia.
I due psichiatri, alla fine del percorso, ci fanno presente che è loro intenzione aprire il museo al pubblico a fine-pandemia. Nel frattempo, il ricco patrimonio cartaceo che si trova negli scantinati è consultabile all’interno del sito ministeriale, nell’archivio digitale “Carte da legare”.