L’Ospedalino di Valenza, “L’Uspidalì”
VALENZA – Il periodo della Restaurazione (dal 1815) vede la ricostituzione degli ordini religiosi tradizionali, compresi quelli attivi nell’ospedalità nei periodi precedenti. L’assistenza spontanea filantropica è sempre più stimolata verso una sorta di rinascita caritativa, non si parla ancora di doveri sociali ma solo di beneficenza verso i meno fortunati, oggi molto invocata come fosse un bene perduto.
A Valenza, con un lascito di Teresa Lana vedova Grosso del 1817, il Canonico Vincenzo Zuffi, un prete pratico di management quanto di sacre scritture, una mente indipendente incline a pensare e ad agire contro certe convenzioni, profondendo tutto il suo patrimonio personale, fonda la Casa di Riposo Ospedale degli Incurabili che i valenzani saranno poi soliti chiamare Ospedalino, “per ricordare alle succedutesi generazioni quel sentimento di evangelica carità e civili virtù di Valenza”. In questi tempi gli incurabili sono tutti coloro che non sono in grado di sostenere il costo delle pur necessarie cure mediche.
Aperto il 29-11-1832 con due letti, ben presto allo “Spedale degli incurabili” diventa necessaria una regolamentazione costituzionale e legale che le viene riconosciuta ufficialmente con Regio Brevetto di Carlo Alberto il 23 aprile 1833 e con l’approvazione del regolamento il 23 settembre sempre nel 1833 il quale contiene anche qualche precetto di ardua applicazione futura.
A seguito dell’epidemia di colera degli anni 1835-36 e per dare risposta ai crescenti bisogni di poveri e vecchi indigenti, che bussano continuamente alle porte implorando ospitalità per uscire dalla disperazione, l’ospizio viene portato a otto letti, grazie alle donazioni del capitano Seidrich e a quelle successive di Teresa Piacentini e Amedeo Annaratone , dell’Opera Pia Pellizzari, della Congregazione di Carità e di altri.
Prima della morte, che avviene nell’ottobre del 1835, il Canonico Vincenzo Zuffi riceve dal re Carlo Alberto le insegne dei SS. Maurizio e Lazzaro e il titolo nobiliare di barone (14-3-1835), che passerà per eredità (trasmissibilità al nipote) all’antica famiglia valenzana dei Tarony, avendo la sorella del canonico, Antonia di Giovanni Zuffi, sposato nel 1778 Carlo Raffaele Tarony.
Dopo lo sconforto per la dipartita, l’attività dell’istituzione prosegue nella piccola casa finché, per le sempre più crescenti necessità e con nuove risorse, nel 1860 si stabilisce di costruire un nuovo e più grande edificio composto da locali più ampi e con più appropriati servizi per un costo complessivo di 75 mila lire (pari a circa 400 mila euro di oggi). Per far fronte alla spesa vengono raccolte 42 mila lire da un prestito ventennale cittadino (restituzione rinunciata dai munifici nel 1881), 25 mila lire dalla vendita del vecchio edificio e da un mutuo. Anche il re Vittorio Emanuele II dona personalmente 2 mila lire, mentre il Comune dona una parte del terreno.
Il nuovo edificio “fuori le mura a mezzodì di Valenza a banda sinistra di chi esce da porta Alessandria”, corrispondente all’odierna facciata, viene aperto nel 1865 e per l’Ospedalino i posti letti aumentano a 40, molto meglio anche se non sono per nulla sufficienti a soddisfare le richieste.
Nel 1882 il servizio interno viene affidato alle suore della Congregazione delle figlie di Sant’Anna: anziché personale salariato, l’assistenza viene così consegnata ad un organico che ha consacrato la propria vita alla cura di poveri infermi con spirito di abnegazione e carità cristiana.
Sino al 1898 si distingue il primo direttore, già cappellano interno, don Francesco Conterio; egli dedica la sua vita e pure i suoi averi alle esigenze dell’ospedale. Prende il suo posto, come presidente del Pio Ente, Vincenzo Ceriana che permarrà sino al 1934 quando sarà avvicendato da Ferdinando Abbiati, quindi dal barone Alberto Tarony, distante parente del fondatore e infine alcuni altri. Con realismo e buonsenso, supportati dal Consiglio di amministrazione, hanno lottato in un contesto di continua problematicità, sovente anche contro fastidiosi elementi politici di disturbo.
Tornando ai primi anni del ‘900, all’Ospedalino arrivano consistenti donazioni: nel 1904 la sostanziosa eredità di Bartolomeo Sassi, nel 1905 di Pietro Ceriana Rettazzini, nel 1911 il legato di Giovanni Marchese. Le cospicue elargizioni permettono lavori di ampliamento e sistemazione strutturale degli ambienti. Poi negli anni 1910-1912, si costruiscono due bracci laterali e si chiudono i porticati ed i corridoi, dopo aver anche sub alzato l’edificio: i posti disponibili diventano così un centinaio.
In tempo di guerra l’organismo rivela sin dall’inizio di non riuscire a far fronte ai troppi fabbisogni assistenziali della popolazione. Le cause principali dell’evidente aggravamento sono il razionamento del cibo e l’innalzamento dei prezzi.
Negli anni successivi fino al secondo conflitto si effettuano diverse migliorie nella struttura e negli impianti. Vi sono però ancora forti sperequazioni tra i beneficiari, che ricevono diversi livelli qualitativi di assistenza a seconda delle quote contributive versate. Si verifica il solito conflitto per l’istituzione, tra le esigenze popolari e i privilegi dell’élite che la sorreggono.
Durante la seconda guerra mondiale si naviga nell’incertezza con infinite preoccupazioni e timori; in buona sostanza è consigliabile muoversi con cautela, anche se vengono ricoverati in modo gratuito molti anziani in condizioni precarie nonostante la grave situazione economica.
Naturalmente la situazione migliora nel primo dopoguerra; nel 1952 viene costituita la “Associazione morale benefica pro ospedalino”. Si raccolgono contribuzioni volontarie periodiche tra i valenzani e tra gli Istituti bancari locali, per poter continuare in un certo modo.
Nel 1958, grazie alla costruzione di una nuova ala prospiciente il viale, la disponibilità accresce di ulteriori 20 letti. La realizzazione di un nuovo reparto viene eseguita con la cospicua eredità di Anna Farelli Cardarelli nel 1961 (35 milioni) e alla generosa offerta da Bice Ferrari Trecate Pastore (oltre 10 milioni).
Nel corso del secondo Novecento avvengono profondi cambiamenti nella società; viene meno il concetto di famiglia patriarcale e la vecchiaia assume sempre più i connotati di un vero e proprio problema sociale. La casa di riposo è ormai “concepita” non solo con l’obiettivo di sorreggere la salute fisica degli ospiti, ma anche di stimolarne le capacità relazionali ed il benessere mentale (più facile da enunciare che da realizzare) per assicurare loro una buona qualità della vita. Sono affermazioni confortanti per sentirsi migliori, che inducono però ad una riflessione amara: i nonni in passato erano stimati e protetti, anche come garanti delle tradizioni e portatori di saggezza, ora invece pare quasi siano troppi. Come se questo ne svilisca il valore.
Un decreto della Regione nel 1980 sancisce l’estinzione dell’Ospedalino e il trasferimento al Comune delle funzioni, del personale e dei beni. Si conclude così la vicenda dello “Spedale degli incurabili” e inizia quella della Casa di Riposo Comunale. Si chiude l’epoca della beneficenza volontaria; si sente dire che inizia quella della sicurezza sociale garantita dallo Stato a favore dei cittadini. Poi, dopo aver accumulato ragguardevoli deficit nei bilanci comunali, con l’intento “utopico” di rendere più sobria la gestione finanziaria, nel 2002 è nuovamente trasformata in istituzione, “L’Uspidalì”, sostenuta sempre dal Comune su cui graveranno gli eventuali deficit. Il presidente della nuova istituzione è Giorgio Assini a cui seguiranno nei mandati successivi Giuseppe Gatti, Marilena Griva e attualmente Silvia Raiteri,
Ma, ancora oggi, questa splendente casa d’accoglienza per anziani, con più di cento ospiti in condizioni di prigionia a causa del Covid, è mantenuta soprattutto dagli assistiti con le loro rette.