«La scuola torni a promuovere la creatività e la tecnica orafa»
L'architetto Claudio Deangelis scrive alla dirigente del liceo artistico Carrà Barbara Stasi
VALENZA – Riceviamo e pubblichiamo integralmente una riflessione dell’architetto valenzano Claudio Deangelis, una lettera aperta alla dirigente dell’Istituto Superiore Cellini di Valenza. Il tema è il liceo artistico Carrà.
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Gentile dott.ssa Barbara Stasi, Dirigente scolastico dell’I.I.S. “Benvenuto Cellini” di Valenza, da qualche tempo si parla, non soltanto tra gli addetti ai lavori, con dispiacere (se non con contrarietà) della condizione di declino in cui si è venuta a trovare la sezione design del Liceo artistico. Lei certamente conoscerà le avversità che ha attraversato questa scuola – dapprima Istituto d’Arte e di recente Liceo – dal celebre passato, protagonista insieme con alcune altre realtà nazionali di un’indiscussa eccellenza riconosciuta nella cultura del gioiello e, negli ultimi anni, anche dal Miur; inoltre riconosciuta e sostenuta dal polo produttivo locale, il quale non ha mai mancato di valorizzarla e di dimostrarle personale interessamento.
Di certo gli effetti collegati ai fenomeni globali e locali sono stati decisivi per il destino della nostra scuola; dai primi deriva l’affermazione pervasiva delle nuove tecnologie che, conseguentemente, ha determinato una graduale calo del flusso di trasmissione delle “conoscenze tecnologiche”, quelle del “saper fare artigiano”, legate alla tradizione orafa dei nostri luoghi e, dai secondi, dipende il declino della “creatività applicata”, marcata dall’inerzia istituzionale di mantenere una solida istruzione dei “fondamentali”.
Deve sapere che, in questi ultimi anni, i cambiamenti nella nostra scuola sono stati considerevoli, ma in altre direzioni; ritengo pertanto che alla mancata volontà di “rivitalizzare” (o riattualizzare) la sezione del design, con azioni mirate a “riaffermare” l’attività creativa nei laboratori disciplinari, si è contrapposta una volontà riformatrice – gravemente avversa – di chi l’ha preceduta (peraltro consigliata da chi conserva ancora una visione gentiliana primo novecentesca), mossa dall’atteggiamento (e dalla convinzione personale) di “rimozione”, anziché di “integrazione”, a tutto quello che dell’appartenenza al passato ha ritenuto inattuale e obsoleto, scomodo e ostativo allo svolgimento della didattica standard; un atteggiamento che mi sento di definire “decostruttivo” nei confronti di quell’istruzione sia creativa sia tecnica che la scuola ha sempre garantito alla nostra comunità.
Questa posizione è responsabile della eliminazione delle ultime tracce della cultura orafa, cioè i laboratori pratici, gli ultimi rimasti in vita – seppur ridotti rispetto alla funzionalità originaria – a dimostrare la “tipicità” (e connotazione) della sezione design; questa posizione ha dissolto molto di più di un luogo fisico, ci ha privato di “un luogo sociale e cooperativo, un contesto di apprendimento privilegiato”, in cui la partecipazione alle attività disciplinari ha generato circolarità tra teoria, tecnica e
pratica, ovvero quella combinazione – di pensiero e di azione – essenziale per l’apprendimento di esperienze laboratoriali; ha così privato i ragazzi della libertà manuale, tipica dell’agire umano, di manipolare materia e materiali, di investigare e, soprattutto, di sperimentare per far fronte alle loro naturali esigenze di porsi domande e riflettere per risolvere problemi: una posizione questa che vanifica la “progettualità” su cui far crescere una visione olistica e una dimensione creativa delle cose.
Va compreso che l’assenza dei laboratori dalla scena istituzionale scolastica riporta la stessa ad uno stato involutivo, le cui conseguenze sono vissute in primis dagli studenti con le loro difficoltà a soddisfare bisogni e interessi, a manifestare potenzialità e attitudini e poi dai docenti, pressoché incapaci di gestire l’apprendimento (in termini di acquisizione dei saperi) senza l’esercizio del “fare” laboratoriale.
Come può capire, questa rinuncia avvantaggia una didattica che, fatalmente, rivolge l’attenzione solo alle nuove tecnologie digitali che diventano sempre più protagoniste di azioni prevalentemente astratte, cioè non supportate da esperienze reali come quelle vissute nella nostra scuola dall’affermato background. In concreto, viene a mancare la solidità del linguaggio “analogico” (costituito dalle tecnologie laboratoriali tradizionali) al quale quello “digitale” (costituito dalle nuove tecnologie) dovrebbe integrarsi dialogando; così ogni tentativo di ricorso alle tecnologie digitali, non seguito da una valida esperienza di tipo “costruttivo” – cioè basato sulla conoscenza e sull’applicazione diretta conseguita nei laboratori pratici – sarebbe vano.
Oggi le richieste nel mondo degli studi universitari, come anche quelle del mercato del lavoro ai quali gli studenti, finiti gli studi, si rivolgono per personale attitudine, convergono sulle esperienze creative vissute, apprese e completate da una salda istruzione e avvalorate da un atteggiamento critico. Voglio infatti affermare quanto sia strategico il ricorso ad un modello laboratoriale configurato “su misura” ai bisogni specifici e unici del contesto educativo: un laboratorio contemporaneo dal profilo innovativo pensato dunque per l’attualità e, in proiezione, per l’avvenire. Oggettivamente un “contesto generativo” (e trasmissivo) dove non si impara un mestiere, ma dove si prende coscienza della manualità (e del significato) del lavoro al servizio del progetto; si tratta di un modello dissimile nelle forme e nelle funzionalità da quelli delle fabbriche in cui si realizzano lavorazioni seriali e specializzate, ma, al contrario, di un “luogo” di arricchimento creativo nel quale le idee prendono forma materiale con l’ausilio di strumenti tecnici adeguati alla buona pratica del design, frequentato in autonomia da studenti
appassionati alla pratica costruttiva del manufatto, assistiti non più da maestri consiglieri ma da docenti mentori, facilitatori di tecnica applicata pronti ad accompagnarli nell’avventura del progetto. Il laboratorio “pratico” si configura come “luogo” libero, conviviale e relazionale di filiera leggera nel quale ogni processo comprende intersezioni interdisciplinari, coordinato dal tutor e integrato al complesso delle varie tecnologie; per le sue caratteristiche può essere considerato un “luogo” costituito da ambienti operativi elevato al rango di piccolo sistema che facilita lo sviluppo del pensiero creativo, quel piccolo sistema che si fa carico di riconoscere l’eccellenza di ogni persona “da potenziare con strumenti e occasioni adatte; “non più qualcuno, dunque, che si distingue da tutti, bensì chi trova e potenzia la propria distinzione e unicità”.
Voglio ribadire quello che spesso sostengo nelle mie conversazioni sulla creatività sviluppata nei laboratori, ovvero che essa (non essendo congenita) vada alimentata, stimolata in “spazi di arricchimento” conformati per l’esercizio, con il solo fine di agevolare processi in grado di avvantaggiare comportamenti competitivi, collaborativi e critici. Illogico invece è pensare alla creatività in modo non personalizzato, non caratterizzato, non connotato per una scuola come la nostra che deve continuamente far fronte alle sollecitazioni che giungono dal mondo esterno (fuori le proprie mura) con risposte corrispondenti alle richieste. Da ciò si deve attribuire alla creatività il giusto valore attraverso un’istruzione aperta alla conoscenza pratica che deve “predisporre” gli studenti anche ad una formazione successiva, esterna, per la quale il Dirigente scolastico si senta promotore di una nuova alleanza con il territorio, in particolare con le imprese e le scuole di formazione professionale.
Voglio richiamare alla memoria la storia della nostra scuola vissuta nella cultura orafa del Gioiello, simile ad altre realtà che hanno mantenuto e difeso l’eccellenza del proprio patrimonio e fatto sì che non venissero ingiustamente sottratte al territorio a cui appartengono, parlo di Castellamonte per la ceramica, di Ravenna per il mosaico, di Murano per il vetro artistico, di Cremona per la liuteria, di Jesi, di Arezzo, di Sesto Fiorentino e di Firenze per l’oreficeria, di Pietrasanta per i marmi artistici, di
Torre del Greco per il corallo e il cammeo, di Napoli per la porcellana artistica e la tarsia, di Lecce per il ferro battuto … che, di fatto, hanno rinunciato per la loro forte identità territoriale di accettare soltanto indirizzi generici, quelli largamente diffusi nei Licei Artistici Statali del territorio nazionale.
L’appello che voglio portare alla sua attenzione è la conseguenza di questo stato delle cose.
Pertanto spero riconosca con me che alla scuola spetti il compito, in concerto con i vari attori istituzionali locali, di ritornare a promuovere la creatività e la tecnica orafa (perse di recente per atto di rinuncia) per ripristinare, con nuovi laboratori pratici del gioiello, l’identità culturale scolastica nonchè i tratti distintivi conquistati nel tempo. Auspico che queste righe portino a valutare l’opportunità e l’urgenza di una proficua iniziativa che possa colmare questo vuoto. Spero che anche la politica locale, questa volta ancora più di prima, faccia la propria parte nel condividere l’importanza di questo intervento in un periodo di transizione, costituendosi parte attiva, pensando oltre il virus.
La ringrazio, gentile Dirigente, per la sua attenzione e la saluto cordialmente,