Valenza ai tempi della Peste Nera
Un nuovo approfondimento a cura del professor Pier Giorgio Maggiora
VALENZA – Di seguito un nuovo saggio a cura del professore e storico valenzano Pier Giorgio Maggiora.
Trattando vicende accadute nella città di Valenza nel XIV secolo, si deve serbare memoria di un rilevante fatto storico che si è prodotto nel periodo. Nel 1321 Il papa Giovanni XXII in Avignone manda il suo legato cardinale Bertrando del Poggetto in Italia ad assistere le città guelfe, qual è Valenza. Dopo una breve sosta ad Asti, quest’importante e famoso personaggio dimora a Valenza (1322) con centinaia d’armati mercenari oltre ad un nutrito seguito d’uomini della chiesa, dove, oltre a trattare con inviati e governanti, processa in contumacia i Visconti milanesi, scomunicando Matteo Visconti, i suoi figli e gli adepti. Lo scaltro e cinico cardinale eleva la chiesa parrocchiale collegiata valenzana a titolo di Duomo.
Alla morte di Teodoro I nel 1338 gli succede alla guida del Monferrato l’unico figlio maschio Giovanni (1321-1372): ardimentoso, sagace e ambizioso, si sconta negli anni successivi coi Visconti, soprattutto dal 1356.
Egli, nel 1345, a capo di una lega antiangioina, cerca in vari modi di ritornare in possesso di alcuni dei possedimenti che Roberto d’Angiò ha precedentemente conquistato in Piemonte. Ormai, dopo la morte del Re angioino (1343), si è venuto a creare un vuoto di potere nei territori piemontesi in mano ai francesi, particolarmente a Valenza.
Infatti, nel 1347, questa città, che dopo il ritorno dei Visconti (occupata nel 1342, durante la lotta contro i Paleologi) si è ben presto separata ed isolata, si sottomette nuovamente e volontariamente alla confinante e turbolenta signoria del Marchese di Monferrato (Giovanni II Paleologo) con un accordo benevolo che esclude ogni tipo di tassazione.
Il giuramento di fedeltà (pacta sunt servanda) avviene nella chiesetta di San Giorgio, situata fuori Valenza, ad opera dai governanti locali. Sensale del “matrimonio” è il giureconsulto (sindaco) Francesco de’ Denti, un’austera immagine del passato dal piglio tosto (per qualcuno è un genio, per altri un prezzolato). Sagge tartarughe presenti all’inciucio sono: Ottone di Brunswich, Pietro di Zamoreis (vicario), Ottobono da Cocconato, Valenzano di Tilio e Girardo di Brolio.
Nell’accordo artificioso tra Valenza e Giovanni II di Monferrato è stabilito che il Marchese avrebbe esercitato la sua giurisdizione per mezzo di un vicario, senza poter trarre alcun reddito o sostanza.
È un pasticciaccio abilmente confezionato percepito da molti come autolesionista, e non finisce qui. Una trasformazione positiva non è da escludere a priori ma dipende da come reagiranno i Visconti. Con il patto certe stabilità vanno a farsi benedire, anche se solo pochi prendono per vero e sincero l’accordo. La politica, purtroppo, è sempre stata l’area dei bugiardi e degli opportunisti, l’obiettivo dei più non è conseguire l’autonomia ma il compromesso, salvarsi anche a costo di vendersi.
Monte, infeudato dai Paleologi ai Cattanei nel 1305, viene definitivamente consegnato al Distretto di Valenza nel 1347 (nel breve periodo monferrino), mentre con Lazzarone, un’altra piccola terra conficcata ai limiti, sorgeranno sempre liti e difficoltà.
La tormentata e screditata signoria monferrina durerà però solo pochi anni. L’editto valenzano è interpretato dai Visconti come un palese atto di belligeranza ed essi cercheranno in tutti i modi di riottenere la città.
Rappresentanti locali di peso, autoritari e poco tolleranti, spesso partecipi agli intrighi e faide intestine, sono: Andrea Aribaldo, Giacomo Stanco, Francesco Dina, Giacomo Carena, Pietro di Vassallo, Michelino di Bellone, Enrico di Monte, Lancia Bombelli/o. Enunciano, mimano e sceneggiano, sono specializzati a scavare trappole pure ai potenti i quali paiono fare la coda per cascarvi dentro.
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Intanto si sta apparecchiando uno scenario da incubo: sopraggiunge una terribile catastrofe, la peste nera (batterio Yersinia pestis, cambierà il corso della storia); si è diffusa in tutta l’Italia dal 1348 (in tutta l’Europa dal 1347 al 1351 uccidendo un terzo della popolazione europea) e anche Valenza ne è pienamente coinvolta. Si moltiplica molto rapidamente causando una setticemia fulminante. Uomini, donne e bambini vengono spazzati via da questa dolorosa, contagiosa e inguaribile pandemia. Poveri, ricchi, clero, autorità, ecc. si sentono sfidati allo stesso modo e minacciati nella loro stessa esistenza. La medicina non sa opporre alcun rimedio, si combatte con salassi, purghe, fumigazioni ed erbe aromatiche, o con preghiere e penitenze. L’unico dovere del medico è di invitare l’ammalato a confessarsi.
La peste dai bubboni neri provoca un mutamento profondo nell’ambiente locale, Le gravissime perdite in vite umane (nel nostro territorio quasi un migliaio di morti) causano una ristrutturazione della società valenzana dagli effetti tragici, ma non completamente negativi nel lungo termine.
Inoltre la carestia con la malnutrizione, che si è abbattuta nella zona, ha abbassato le difese immunitarie esponendo maggiormente il popolo anche ad altre malattie (vaiolo, fuoco di sant’Antonio, ecc.).
La campagna si spopola, sale il costo della manodopera, a certe colture si preferisce l’allevamento, solo la produzione di vino si mantiene costante. Il vino è la bevanda polivalente per eccellenza, viene impiegato non solo per fini alimentari ma pure terapeutici, diplomatici e liturgici.
In questi anni pieni di tenebre, a Valenza si sviluppano pure alcuni briosi drammi e pericolose trame, che paiono nati da qualche mente diabolica quale quella di Pietro Aretino, ma potrebbero anche essere adeguatamente narrate dal Boccaccio: quali matrimoni scombinati e talami bollenti. Forse surrogata dalla paura di morire, in periodi di pestilenza, la carne diventa ancora più debole e l’avidità immensa, ma queste sono comiche che non sempre fanno ridere.
Addentrandoci in questa selva oscura di poca fedeltà, tra i più loschi disegni, spicca il tradimento consumato dai valenzani Lancia e Franceschino Bombelli/o e di Pieruccio Aribaldi (nipote di Giovanni, finanziatore della costruzione della chiesa di San Francesco a Valenza) nel 1358. Essi, considerati serpi inquiete da una combriccola d’impostori, pur indossando i panni delle vittime incomprese e non avendone azzeccata una, sono condannati a morte e giustiziati ad Asti nel 1360 per aver tramato, in modo ambizioso e velleitario, al fine di consegnare proditoriamente Valenza a Galeazzo II Visconti (co-signore di Milano dal 1354 al 1378).
Quest’ultimo compie in questi anni diversi tentativi d’assalto alla città con lo scopo d’impadronirsene, ma non vi riesce per la pervicace resistenza dei valenzani e delle milizie del Marchese di Monferrato, al potere ancora per poco tempo. A causa di questi ricorrenti combattimenti, gli uomini di Valenza sono stabilmente tenuti ad adempiere indiscutibili obblighi militari: non vi è leva propriamente detta, ma generalmente ciascuno si considera precettabile dai 20 in su. Basta un avviso delle autorità perché chi ne ha l’obbligo si presenti al raduno nei luoghi stabiliti.
Dal 1348 al 1380 nella Valle Padana si svolge un grandioso duello tra due grandi signorie: gli Scaligeri di Verona e i Visconti di Milano. Attorno ad essi giostrano, ora alleati ora nemici, il Duca di Savoia ed il Marchese di Monferrato signore di Valenza. E’ un caos d’alleanze innaturali e di tradimenti, di paci e di guerre, d’improvvisi trionfi e di crolli precipitosi, scelte a metà strada tra la follia e il comportamento ad alto tasso etilico. Da non credere!
Dopo una nuova pace tra il Monferrato e i Visconti, nel luglio 1369, si riaccendono le ostilità nella nostra zona. Così, nel 1370, accadono da queste parti scontri ed accerchiamenti devastanti che durano quasi un anno: uno stallo di guerriglia cronica di natura disastrosa, e il tifo con i suoi fratelli (peste, colera, ecc.) sono e saranno, come sempre, decisivi sull’esito finale.
Tramonta l’ipotesi di una città indipendente. Valenza, sotto Giovanni II Paleologo marchese di Monferrato, che conta quasi tremila dimoranti, rassegnata e sospinta dalla paura e dagli stenti, al termine del suo primo e vero ignominioso storico assedio durato dieci mesi, dovrà assoggettarsi ai Visconti di Milano, come già Alessandria e gran parte del Piemonte meridionale.
Galeazzo II Visconti (signore di Pavia, co-signore di Milano insieme ai fratelli Matteo II e Bernabò) con l’aiuto di Bernabò e di Can Signorio, che guidano un fortissimo contingente di soldati munito di formidabili armi pesantissime, effettua durante l’assedio violentissimi attacchi alla Rocca valenzana che oppone una tenace resistenza. Le ostilità perdurano sino al 14 novembre 1370 quando la città, oppressa dalla fame, è costretta ad arrendersi.
È stata una guerra brutale e continua, anche se il Visconti, di quando in quando, ha inviato suoi emissari ad incontrare i loro supporter “ghibellini” valenzani, quali le famiglie Annibaldi, Belloni, Dina, Calvi, Ferrari, per abboccamenti circa un’eventuale tregua.
La conquista, non digerita facilmente dalla maggior parte dei valenzani, viene confermata dall’imperatore Venceslao congiuntamente all’occupazione di Bassignana e Pecetto (conferma ottenuta con 100 mila fiorini d’oro e con le terre erette a Ducato).
Valenza si rende ormai conto in quale direzione pende la bilancia dei rapporti di forza ed è costretta a giurare fedeltà e ad accettare il nuovo feudatario. Per disperazione: o mangi questa minestra o ti butto dalla finestra.
Signore del luogo è nominato Gian Galeazzo Visconti, figlio emancipato di Galeazzo (all’atto, 8 gennaio 1375 a Milano, partecipa anche il prevosto di Valenza Enrico Dini, vicario del vescovo di Pavia), inventore del sistema più rapido per mandare in malora questa città; sarà spietato e crudele tanto da spingere ben presto la popolazione locale a una rivolta. Nel 1396 Gian Galeazzo è proclamato conte di Pavia, una Contea che comprende Valenza, Vigevano, Bassignana, Casale e rispettivi territori.
Con l’unione al Ducato di Milano, che durerà sino al 1707 salvo brevi parentesi, questa città prenderà parte alle rischiosissime vicende dei suoi signori, ma svilupperà significativamente il commercio, favorito principalmente dal porto fluviale sul Po (con il suo traffico d’imbarcazioni e merci e con i mulini) e per la posizione intermedia tra il territorio genovese e quello milanese. Valenza è punto di confine, già San Salvatore appartiene ad uno Stato diverso: il Marchesato di Monferrato dei Paleologi.
Gravato da troppe gabelle, il popolo valenzano inferocito e con la bava alla bocca, nel luglio 1392, sprigiona le vecchie sofferenze e la voglia di rivolta in una spontanea sommossa di piazza, animata di parecchio livore, contro i Visconti e distrugge in un incendio tutta la documentazione presente nel Palazzo comunale, privando così la città d’ogni fonte storica del passato. E’ una rivoluzione che coinvolge quasi tutto l’alessandrino contro il dominio visconteo, causata dagli enormi e stravaganti balzelli che Gian Galeazzo ha imposto per pagare i troppi debiti contratti nelle guerre. Egli ha dato il peggio di sé e questa sembra essere la risposta dei valenzani.
I contorni svelano però l’assoluta improvvisazione della rivolta popolare valenzana in cui la violenza prende il sopravvento mettendo a rischio l’ordine pubblico, un’iniziativa dovuta sicuramente al governo oppressivo di Gian Galeazzo Visconti, ma forse accesa dal troppo caldo o peggio ancora dalla mancanza d’idee migliori. E dal momento che vincono sempre le armi e la forza, non certo la giustizia o il diritto, la sollevazione è ben presto soffocata da circa 500 uomini d’armi inviati dal Principe, il quale, ritenendo le mura valenzane non abbastanza armate, impone ai valenzani grandiosi lavori di riattamento e la costruzione di un corpo autonomo all’interno del perimetro difensivo che consenta ai governatori della città di trovare un rifugio sicuro: una roccaforte. Quindi, verso la fine del 1300 (podestà Ottobono Salimbeni), è costruito un mero castello (è la sentinella del Po) e delle robuste fortificazioni che fanno della città una piazzaforte poderosa, di primo piano nel territorio settentrionale della penisola, mentre delle necessità dei cittadini non ci s’interessa affatto.
Le mura di cinta costituiscono un’opera monumentale. La loro influenza sarà sociale, storica e urbanistica, determineranno la vita, le vicende politiche e l’assetto territoriale di Valenza. Il territorio è però circoscritto da due elementi geografici ben precisi: il Po e le colline. Il fiume contrassegna il limite verso nord e a sud le colline paiono indicare il limite estremo dell’espansione di Valenza.