Daria Nicolodi: il fascino discreto dell’horror
Ritratto dell'attrice di Profondo Rosso, madre di Asia Argento. "Recitare è una malattia che si cura recitando e io sono guarita", diceva
CINEMA – «Riposa in pace mamma adorata. Ora puoi volare libera con il tuo grande spirito e non dovrai più soffrire. Io cercherò di andare avanti per i tuoi amati nipoti e soprattutto per te che mai mi vorresti vedere così addolorata. Anche se senza di te mi manca la terra sotto i piedi, e sento di aver perso il mio unico vero punto di riferimento. Sono vicina a tutti quelli che l’hanno conosciuta e l’hanno amata. Io sarò per sempre la tua Aria, Daria».
Così Asia – la figlia, nata dalla relazione con il regista Dario Argento – saluta a mezzo social l’attrice e sceneggiatrice Daria Nicolodi, scomparsa a Roma a causa di un infarto lo scorso 26 novembre.
Persona schiva e riservata nella vita privata (si sa che, oltre al cinema, la sua passione era rappresentata dal paranormale, tanto da comparire nel ruolo di una medium in un episodio della miniserie televisiva “Il mostro di Firenze”, andata in onda su Sky nel 2009), la Nicolodi è diventata un simbolo, la ‘scream queen’ del cinema italiano, a partire dal sodalizio artistico e sentimentale con Argento, conosciuto nel 1974 al provino per “Profondo rosso”. La sua Gianna Brezzi, giovane ma determinata e autoironica giornalista in cerca di verità, accanto al pianista Marc (David Hemmings), contribuisce al successo del film, accreditando un’immagine al femminile ricca di un fascino discreto ma potente, attraversata da inquietanti ombre psicoanalitiche.
Da quel momento la carriera dell’attrice fiorentina (nata nel 1950 da Fulvia, figlia del compositore Alfredo Casella, e da un avvocato a sua volta figlio di Aurelio Nicolodi, fondatore dell’Unione Italiana Ciechi) spicca il volo con veemenza nell’ambito del cinema di genere: in “Suspiria” (1977), di cui è anche co-sceneggiatrice, ha solo un ruolo minore non accreditato, ma in “Inferno” (1980) impersona la nobildonna Elise De Longvalle Adler, mentre “Tenebre” (1982) la rende protagonista nella parte di Anne, l’assistente dello scrittore di gialli Peter Neal (Anthony Franciosa). In Phenomena” (1985) sarà l’angosciante Frau Bruckner, vicepreside di un collegio femminile, e in “Opera” (1987) l’agente teatrale Mira.
Anche dopo la fine del rapporto privato e di collaborazione con Dario Argento, la Nicolodi non interrompe i suoi legami con l’horror, che peraltro aveva già coltivato autonomamente: Mario Bava le aveva offerto nel 1977 il ruolo da protagonista nel suo “Schock” e nel 1981 quello di Clara De Peyhorrade in “La Venere d’Ille”, tratto dal racconto gotico di Prosper Mérimée e codiretto insieme al figlio Lamberto, che la scritturerà per “Le foto di Gioia” (1987).
L’attrice stimava moltissimo Mario Bava, del quale ricordava: «Da lui ho imparato tantissimo; era un vero gentiluomo d’altri tempi che sul set imponeva il suo stile con gesti minimi; ma poi tornava bambino e genio con i suoi trucchi, visivi, con la sua esperienza, con la fantasia. Quando metteva l’occhio nel mirino della cinepresa, tutti si zittivano».
Anche l’avvio degli anni Novanta la qualifica come attrice di genere, con “Paganini Horror” di Luigi Cozzi (1989) e “La setta” di Michele Soavi (1991), mentre il ritorno di fiamma con Argento arriva nel 2007 con “La terza madre”, in cui interpreta Elisa, madre cinematografica della figlia Asia nel ruolo dell’archeologa Sarah Mandy.
La Nicolodi lavorerà ancora con la sua secondogenita (nel 1972 aveva avuto una prima figlia, Anna, dallo scultore Mario Ceroli, scomparsa in un incidente stradale nel 1994) in “Viola bacia tutti” di Giovanni Veronesi (1998) e “Scarlet Diva” (2000), diretto e interpretato dalla stessa Asia, dove ancora una volta riveste i panni di sua madre.
Daria, tuttavia, aveva fatto il suo ingresso nel mondo del cinema in altri ruoli, molto diversi da quelli sperimentati nell’horror: il primo era stato quello di crocerossina in “Uomini contro” di Francesco Rosi (1970); due anni più tardi aveva lavorato con il controverso Carmelo Bene in “Salomè” e nel 1973 in “La proprietà non è più un furto” di Elio Petri.
Di Bene ricordava che era «uno dei pochi con cui era bello fare ‘nottata’; tanto amico che mi mise nei titoli della sua “Salomè”, anche se non era vero perché durante le riprese io ero impegnata in teatro».
E poi la televisione, con lo ‘scandaloso’ varietà “Babau” di Paolo Poli (censurato nel 1970 e mandato in onda solo sei anni dopo), gli sceneggiati gotici “Ritratto di donna velata” (1975) e “I giochi del diavolo” (1979), la miniserie “Verdi” (1982), dove presta il volto a Margherita Barezzi, prima moglie del compositore; e il teatro accanto a Gigi Proietti, nel 1978, protagonista dello spettacolo musicale di Luigi Magni “La commedia di Gaetanaccio”, andato in scena al teatro Sistina di Roma e censurato per ‘vilipendio alla religione del XV secolo’.
Nell’ultimo decennio di carriera si erano presentate altre occasioni cinematografiche importanti, da “Maccheroni” di Ettore Scola, con Marcello Mastroianni e Jack Lemmon (1985) a “La fine è nota” di Cristina Comencini (1993) e “La parola amore esiste” di Mimmo Calopresti (1998).
Daria, però, pur non rinnegando nulla di ciò che aveva incarnato nel mondo dello spettacolo e specialmente al cinema, con il tempo era approdata a un sereno distacco dalle gioie e dai dolori dell’arte: «Mi piace un pò ‘garbeggiare’ – raccontava divertita – nel senso che a una certa età sento che il mio mondo è proprio quello dello spettacolo, ma che adesso mi diverto di più ad applaudire i miei amici piuttosto che stare sotto i riflettori. Recitare è una malattia che si cura recitando e io sono guarita».