Wali, da martire mancato a mediatore tra i migranti
Walimohammad Atai è laureato in Mediazione linguistica. In Italia dal 2103, ha pubblicato due libri
ACQUI TERME – Ascoltando la storia di Walimohammad – per tutti “Wali” da quando è in Italia – le immagini scorrono nella mente come i fotogrammi di un romanzo la cui trama si fa talmente coinvolgente e ricca di dettagli (per lo più strazianti) che diventa inevitabile percepire le emozioni del protagonista quasi come fossero le proprie. Questo, però, non è uno dei romanzo di Khaled Hosseini, e di storie simili in Afghanistan, in Pakistan o nei Paesi dell’Asia Occidentale se ne contano purtroppo a milioni. Walimohammad Atai è in Italia dal 2013, ha 24 anni, vive ad Acqui Terme, parla sette lingue e lavora come mediatore culturale per la Comunità di San Benedetto al Porto alla cascina “Nelson Mandela” di Visone.
Un bambino tra i martiri
Nato nel 1996 a Nanagargar, nel sud dell’Afghanistan, Wali non ha mai conosciuto suo padre. «Mia madre è integralista, crede nella Jihad e nel martirio. Di mio padre diceva solo che era volato in cielo». A 8 anni il bambino viene mandato in una madrasa talebana dove impara il Corano a memoria, «senza comprenderne, però, il vero significato», a 10 in un centro di addestramento in Pakistan, «insieme ad altri amici della madrasa, che poi non ho rivisto mai più». I mujaheddin sanno bene come farsi gioco dell’innocenza di quei piccoli uomini: «In quei posti – racconta – ti fanno il lavaggio del cervello in ogni modo. Ti fanno credere che uccidere gli infedeli è una cosa giusta e che così andrai in paradiso».
Mia madre diceva che mio padre era volato in cielo, poi ho scoperto che era stato impiccato dai talebani
Un giorno, al funerale di suo zio materno, jihaidista morto in battaglia, Wali conosce sua nonna, «la mamma di mio padre. Avevo 10 anni e non sapevo chi fosse quella signora. Mia madre e suo fratello la consideravano una minaccia, perché lei non era fondamentalista». La donna gli racconta di suo padre, «mi dice che era un medico, impiccato dai talebani perché dissidente». Wali, allora, decide di seguire le sue orme: non diventerà mai un martire. Nel frattempo conosce anche suo zio paterno, «che per un po’ di tempo mi tiene nascosto in casa sua per proteggermi». Tornato al villaggio, a 13 anni, Wali fonda un laboratorio culturale dove insegna agli altri bambini l’inglese e l’informatica, «solo la teoria, perché non avevamo un vero computer». I talebani, però, credono che il ragazzino sia una spia degli Stati Uniti, il laboratorio viene distrutto e provano anche ad ucciderlo. Con l’aiuto della nonna e dello zio, Wali fugge prima ad Herat e poi in Iran, «dove resto in carcere per 7 mesi, perché anche lì sospettano che io sia una spia». Una volta libero, raggiunge la Turchia, e da lì la Grecia.
L’arrivo in Italia
Dopo infiniti tentativi, finalmente, nel 2013 la volta buona: da Patrasso, nascosto sotto un camion diretto all’imbarco, riesce ad arrivare in Italia, «non so nemmeno in quale porto». Sono passati due anni dall’inizio del suo viaggio. Il mezzo imbocca l’autostrada, «andava molto veloce e io ero stremato, ho passato più di 20 ore appeso lì sotto. Così decido di svuotare una bottiglia che conteneva del liquido. Le auto che seguono il camion inizieranno a suonare i clacson, pensavo». Dopo diversi tentativi, qualcuno inizia effettivamente a suonare, il camion si ferma. Wali scappa, corre tra le corsie dell’autostrada nel bel mezzo del traffico con il rischio di essere investito, «ma la Polizia mi blocca e mi arresta. Scopro di essere a Bari».
Sono rimasto più di 20 ore appeso lì sotto. Appena il camion si è fermato sono scappato in mezzo all’autostrada
Wali viene mandato a Foggia, in un centro di accoglienza, «dove sono rimasto due anni, in 4 mesi ho imparato l’italiano». Nel centro inizia a collaborare come mediatore culturale, ma nel 2015 una cooperativa sociale del Pavese gli offre un posto di lavoro. Così Wali si trasferisce a Zavattarello e diventa mediatore in un Centro di Accoglienza. Si laurea in Mediazione culturale e scrive anche alcuni libri, l’ultimo pubblicato lo scorso maggio, si intitola “Il martire mancato – Come sono uscito dall’inferno del fanatismo”, post fazione di Giulietto Chiesa (nella foto in basso).
Wali Atai ora si occupa di diritti umani, collabora con associazioni e riviste, fa il traduttore giurato nei tribunali, nelle carceri e nelle questure. Da lontano continua a seguire ciò che accade nel suo paese e con le sue testimonianze vuole far capire ai giovani d’Occidente quanto siano fortunati, «hanno tutto, e non sanno cosa sia la guerra. Vorrei anche fargli capire che l’immigrazione può essere una ricchezza, e che nella diversità si nasconde la bellezza».