Gigi Proietti, “A me gli occhi, please”
«Com’era bello stare fra quella gente là/che si chiamava fammici pensare/ah si me lo ricordo/ umanità» (Gigi Proietti, “Un uomo sulla luna”, 1985)
CINEMA – Non solo gli occhi: Luigi (Gigi) Proietti, lo straordinario mattatore di teatro, cinema e televisione (romano di nascita – città in cui era nato il 2 novembre 1940 – ma con lontane origini umbre), da poco scomparso, ha saputo ammaliare diverse generazioni di spettatori in più di mezzo secolo di carriera, attraverso lo sguardo acuto, ironico e penetrante, ma anche con la sua voce roca, calda, ricca di tonalità e la fisicità plasmata da tanti anni di palcoscenico, in grado di dominare l’uditorio.
Talento poliedrico e versatile, Proietti è stato il degno erede della comicità romanesca del grande Ettore Petrolini, sospesa tra lo sberleffo della farsa, la commedia e l’avanspettacolo. Nei suoi molteplici recital (tra i quali, appunto, anche “Caro Petrolini”, andato in scena nel 1979) ispirati dall’attore e drammaturgo che rappresentò la maschera per eccellenza del teatro popolaresco degli anni Venti e Trenta, ha riproposto con grande aderenza all’originale e insieme autonomia creativa le macchiette di Gastone e di Nerone, inventate da Petrolini per irridere rispettivamente i divi in declino del cinema muto e il mito dell’”antico romano” esaltato dal regime fascista.
«Quando a Petrolini gli si chiedeva se discendesse dalla Commedia dell’Arte, lui rispondeva: “Io discendo solo dalle scale di casa mia”. Mi piace l’ironia dei romani di una volta», commentava Proietti riguardo la vena satirica del suo lontano mentore artistico. E, nel corso di un’intervista di qualche tempo fa al “Corriere della Sera”, ripercorreva gli aneddoti della sua giovinezza, con la passione già certa per la recitazione. «Mio padre era un impiegatuccio, mamma era casalinga: erano persone di un altro secolo. Non sono figlio d’arte, insomma, però, ora che ci penso forse la vena artistica l’ho ereditata proprio da mia madre: mio nonno materno faceva il pecoraro, ma era un poeta. Quando è morto abbiamo ritrovato una serie di libretti con bellissime poesie, erano sonetti dove non c’era una virgola sbagliata. E chissà, forse ho ripreso da lui il gusto di scriverne anch’io in romanesco. I miei ci tenevano alla laurea, io studiavo – si fa per dire – Giurisprudenza, ma la sera mi esibivo. Poi il mio amico Lello, che suonava nella nostra band, una sera viene a vedermi e mi dice: ‘Devi fare questo’. Ho capito che recitare mi piaceva tantissimo, è diventata la mia vita. Ma per papà non era la scelta giusta, era preoccupato e mi ripeteva: ‘Prendi un pezzo di carta, se piove o tira vento è una sicurezza’».
La lunga gavetta dell’attore, con i primi successi, ha come scenario una cantina del quartiere Prati, dove vengono riproposti i drammi di Bertolt Brecht: poi arriva l’esperienza allo Stabile dell’Aquila diretto da Antonio Calenda, in cui si cimenta su testi di Witold Marian Gombrowicz e di Alberto Moravia. Proietti ricordava con grande precisione e ironia anche questa fase: «Era il tempo delle cantine e con Antonio Calenda, Piera Degli Esposti e altri compagni avevamo creato il gruppo dei 101: recitavamo davvero in un vecchio magazzino, ex deposito di scope. E dopo lo spettacolo, spesso c’era il ‘dibbbbbattito’, quello co’ trecento b».
L’occasione della vita si concretizza nel 1970, quando Proietti viene chiamato a sostituire Domenico Modugno, in rotta con Renato Rascel, nel musical “Alleluja brava gente”, accanto a Mariangela Melato: «Una botta di fortuna, prendevo il posto di Domenico Modugno, che aveva litigato con Rascel e quindi aveva abbandonato il progetto. Lì mi resi conto che si poteva coniugare il teatro ludico, divertente, con la qualità artistica: il cosiddetto teatro popolare».
Da quel momento il cammino artistico del mattatore è costellato di successi: nel 1974 recita al fianco di Carmelo Bene nel dramma di Sam Benelli “La cena delle beffe”, mentre nel 1976 dalla collaborazione con lo scrittore Roberto Lerici nasce il suo one-man-show più amato, “A me gli occhi, please”, che viene riproposto nel 1993, nel 1996 e nel 2000 allo Stadio Olimpico di Roma. Sulla possibilità di proporre una nuova versione dello spettacolo Proietti scherzava amabilmente: «Riportare in scena ‘A me gli occhi please’? Piuttosto, dovrei interpretare ‘A me gli occhiali, please’».
Fra le opere teatrali più apprezzate dal pubblico ci sono anche il “Cyrano de Bergerac” di Edmond Rostand (1985), “I sette re di Roma” per la regia di Luigi Magni (1989).
Al cinema Proietti ha modo di confermare il medesimo talento istrionico e buffonesco già espresso dal teatro: dai sodalizi con Pasquale Festa Campanile, Mario Monicelli, Elio Petri, Alberto Lattuada e il Luigi Magni di “Tosca” (1973), a “Febbre da cavallo” di Steno (1976), in cui riveste il leggendario ruolo di Bruno Fioretti ribattezzato ‘Mandrake’, accanto ad attori del calibro di Enrico Montesano, Adolfo Celi e Mario Carotenuto (con un sequel nel 2002 – “Febbre da cavallo – La mandrakata” – per la regia di Carlo Vanzina), per approdare ai più recenti “Indovina chi viene a Natale?” di Fausto Brizzi (2013) e “Pinocchio” di Matteo Garrone (2019, in cui interpreta il ruolo di Mangiafuoco).
Anche la televisione lo vede protagonista, a partire dai suoi primi ruoli in sceneggiati degli anni Sessanta (“I grandi camaleonti” di Edmo Fenoglio, 1964; “Il circolo Pickwick” di Ugo Gregoretti, 1968) sino allo straordinario successo de “Il maresciallo Rocca”, serie televisiva andata in onda dal 1996 al 2005. Come doppiatore, Proietti presta la sua inconfondibile voce a divi come Robert De Niro, Dustin Hoffman e Sylvester Stallone, mentre forma le nuove leve dello spettacolo nel suo laboratorio teatrale e al skakespeariano Globe Theatre Silvano Toti, da lui fondato nel 2003.
«Ringraziamo Iddio – amava ripetere Proietti – noi attori abbiamo il privilegio di poter continuare i nostri giochi d’infanzia fino alla morte, che nel teatro si replicano tutte le sere. Non ho rimpianti, rifarei tutto, anche quello che non è andato bene».