San Massimo di Valenza
Un nuovo contributo sulla storia cittadina
VALENZA – Alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente, sono molte le guerre, le carestie e i problemi socio-politici che investono i nostri territori. Nel 476 d.C. passano dalle nostre parti, con incidenti e devastazioni, le truppe romane di Oreste e quelle mercenarie avverse di Odoacre.
Negli anni susseguenti una massa di barbari invade la nostra zona. In quest’inverosimile e confuso momento storico, nel 490 transita un esercito di Visigoti e nel 491 calano orde di Burgundi che saccheggiano, distruggono e fanno prigionieri molti residenti locali onde ottenerne riscatti. Finalmente, dal 493 al 526, il regno di Teodorico porta un po’ di tranquillità. Anche in ambito religioso Teodorico, adepto dell’arianesimo, segue una politica di relativa tolleranza, e non solo per i suoi sudditi cattolici.
Valenza (Valentia) è integralmente cristiana, fede che fu particolarmente divulgata in tutta la nostra zona da San Siro e dal primo vescovo di Vercelli Eusebio, sorretta ora anche dalle prime fondazioni monastiche. Le dimore sono sparse sugli attigui poggi di Astiliano, Bedogno e Monasso, con le rispettive chiese. L’aquila romana è ormai da tempo affiancata alla Croce. In una disamina sobria e scrupolosa, è immaginabile che l’abbandono del vecchio insediamento romano, e il raggruppamento dei tre borghi, tra il V e VI secolo d.C., sia dovuto alle occupazioni di questi rozzi forestieri, i quali hanno trovato questo luogo allettante giacché sufficientemente robusto, prosperoso e situato in un’importante zona di movimento.
La cittadina ha in questi tempi un perimetro ristretto (zona Colombina), la piazza principale è l’attuale piazza Statuto, la strada maestra l’attuale via San Massimo, poche le abitazioni e limitato il numero di dimoranti; molti sono stati falciati dalle scorribande e dalle calamità, vittime di un epoca, interamente costellata di violenze e sconcezze. Questi volghi nuovi arrivati, con accoglienza coatta, non hanno capacità per amministrare i centri abitati, perciò l’unico riferimento che resta nelle città e circondari in rovina è il Vescovo. Egli lentamente assumerà tutti i poteri e sarà punto di riferimento della civiltà e stigma sociale-religioso nel tenebroso periodo futuro.
La leggenda, per metà fiaba e per metà realtà, ma per taluno piovuta dal cielo con dose supplementare di Spirito Santo, narra che sia il vescovo di Pavia San Massimo a prendere la decisione di radunare le sparse borgate di Valenza in un centro urbano più possente e difendibile. Che potesse essere stato un vescovo a prendere la decisione di raggruppare gli sparsi villaggi in un centro più possente e difendibile è probabile, data la facoltà organizzativa e l’autorità dei vescovi in quest’epoca in cui, come già detto, mancava ogni traccia di potere politico e civile.
Le notizie documentate su di lui sono davvero poche. Il nome Massimo viene dal latino Maximus, ricavato dal superlativo di magnus (grande) con il concetto quindi di “il maggiore”. Sono circa una quarantina i santi e le sante che portano questo nome.
Il nostro San Massimo, nato da illustre famiglia valenzana intorno al 450, si dedica all’arte militare e forense, è un nobile di discendenza, rigoroso osservante di Dio ma con i piedi piantati per terra, che riceve per merito di nascita la potestà temporale della città, all’epoca una specie di “parroco” della chiesa d’Astiliano e con lo status di vero protagonista in saecula saeculorum. Ma si sa, gli oracoli vanno un po’ interpretati e i miti sono difficili da scomparire. In seguito intraprende la carriera ecclesiastica evangelizzando Valenza e luoghi circostanti. Dal 499 è Vescovo di Pavia, dove muore l’8 (forse 9) gennaio 514.
A Pavia si rammentano due vescovi di nome Massimo, ma in realtà si tratta di un’unica persona che venne dopo al Vescovo Epifanio, prima del vescovo Ennodio. Quest’ultimo ne fece anche un elogio generico nel suo “Dictio in dedicatione missa Maximo episcopo”.
Il nostro San Massimo fu ambasciatore di Teodorico e partecipò a diversi concili a Roma tra il V e il VI secolo. Le notizie sulla sua vita sono però molto scarse e poco attendibili anche a causa del disordinato periodo in cui visse, tra la caduta dell’Impero Romano d’Occidente e il regno barbarico degli Ostrogoti. In base ad un’attendibile trasmissione di memorie, Dictio in dedicatione missa Maximo episcopo risulta sepolto nella chiesa di San Giovanni in Borgo. Secondo la tradizione fu proprio lui a riunire i tre piccoli borghi di Artigliano (Astiliano), Monasso e Bedogno, in occasione di una delle guerre tra Teodorico e Odoacre, e a tracciare, con l’aiuto di una colomba, di un asino e di un bue con aratro, i nuovi confini di Valenza. Sempre, facendo ricorso alla fantasia, la tradizione popolare vuole che il Santo avesse lanciato in volo una colomba e dove questa si fosse posata sarebbe sorta la città di Valenza. Il luogo prese il nome di “Colombina” (l’arco di viale Padova), una delle zone più particolari della città, col suo incantevole panorama che domina il fiume e la Lomellina.
Il culto, con il fermento di spiritualità, che si è sviluppato all’ombra, icastica e ultraterrena, di San Massimo, è rimasto sempre vivo tra i valenzani: è il santo protettore. Prima di lui San Siro, primitivo vescovo di Pavia, e sul finire del XVI secolo affiancato da un altro patrono San Giacomo, probabilmente importato dagli spagnoli, che è oggi la tradizionale festa patronale cittadina.
Forse, con toni danteschi e paradossali, si potrebbe affermare che senza San Massimo l’attuale Valenza non ci sarebbe mai stata, ma sembra che altri antichi protettori siano stati S. Giorgio, S. Antonio, S. Stefano, S. Michele ai quali corrispondevano chiese che nel tempo sono scomparse.
La festa di San Massimo, fissata l’8 gennaio (data della morte del santo) ha simboleggiato e richiamato alla memoria dei valenzani il suo Patrono e l’amato Santo protettore. E’ iniziata nel corso del Medioevo ed è durata fino all’inizio del XIX secolo, spostata, alla prima domenica dopo l’8 gennaio quando questo giorno cascava durante la settimana, Una celebrazione che era al tempo stesso popolare e religiosa (per qualche storiografo invece era la festa dei tre Re Magi o dell’Epifania).
La cerimonia speciale regolata dagli antichi statuti, approvati da Gian Galeazzo Visconti nel 1397 (con successive modifiche nel 1494, 1553, 1585), seguiva precise disposizioni in merito alla preparazione di ceri decorati con fiori, colombe e altri motivi sempre in cera. Inoltre, prima e dopo “l’offerta dei ceri”, si dovevano condurre per Valenza un bue ed un asino, ornati con stoffe e drappi, ghirlande, corone di mele e d’aglio. La processione partiva dal Palazzo comunale, percorreva la via Maestra (corso Garibaldi), fino alla chiesa di San Francesco (piazza Verdi), quindi imboccava la strada che conduceva alla porta di Santa Caterina (via Alfieri), voltava nuovamente a sinistra, passando davanti al monastero dell’Annunziata (via Cavour), infine, percorrendo la strada della porta Po, arrivava in piazza del Duomo. Il rito si concludeva con il canto dei vespri.
Quest’evento che offriva un’immagine colorata e storica alla città, dopo molto tempo, degenerò (per qualcuno in una carnevalata) e fu abolita. La sua solennità ebbe un altro colpo fatale nell’epoca napoleonica. La ripresa di questa celebrazione è avvenuta solo recentemente, nel 1985, quando il parroco mons. Frascarolo, per avvalorare un certo legame, ha voluto riportare in vita questa venerabile tradizione.
Nel Duomo di Valenza sono conservate le reliquie del Santo in un busto d’argento.