Valenza: il fiume, i confini, le dispute
Continuano le pillole di storia locale del prof. Maggiora
VALENZA – Oggi, a Valenza, il fiume Po scorre ad una lontananza di circa 200 metri dal luogo dove si suppone avesse un tempo il suo letto. Estrema barriera per gli eserciti invasori, i valenzani ne hanno tratto sabbia, ghiaia e pesce per alimentarsi. Oltre che via di trasporto, la sua corrente ha fornito energia per i mulini galleggianti, i suoi boschi sono stati fonte di prezioso legname ed ha provveduto a rimpinguare costantemente le casse del Comune con il porto e i relativi dazi. Ma è pure congiunto con vicende allarmanti o quantomeno discutibili, di una certa continuità, camuffate da ignoranza e sciatteria, soprattutto quando da queste parti capeggiavano i feudatari.
Nel Medioevo i cambiamenti di fronte erano frequenti, i mutamenti di confine dei territori controllati dai vari Signori ancora di più. Il Comune di Valenza è sempre stato in lotta a muso duro, anche con bassezze e meschinità forse inevitabili, contro chiunque tentasse di occupare o impossessarsi delle isole del fiume, di nuova o di remota formazione, e cercasse di ricavarne qualche beneficio.
Nel XVI secolo, una serie di piene crea un nuovo braccio che va così a scorrere accanto a Valenza, ove prima c’erano i boschi, dando origine al cosiddetto ”Isolone” e aggiungendo territori all’altra sponda per la gioia dei confinanti frascarolesi. La circostanza, a geometria variabile, procura una sequela di liti con i vicini, dal momento che il controllo amministrativo del corso d’acqua assicura un notevole gettito fiscale per i transiti da una sponda all’altra, ma specialmente per la navigazione.
L’area sottostante Valenza, delimitata da canali secondari o dal corso principale secondo la stagione, oggi conosciuta appunto come l’Isolone, è un territorio alquanto esteso che si allunga anche sulla sponda sinistra del fiume, a prescindere dalla posizione del greto, il quale è sempre stato considerato dalla città come sua proprietà. Tale è la rilevanza che il Comune, in questi tempi, mantiene uno specifico ufficiale designato al controllo. Ovviamente, questo stato di cose non è mai stato accettato dalla comunità di Frascarolo, sia per diritti di passaggio, sia per l’opportunità di pesca, sia per il fatto che uno spostamento verso nord del fiume porrebbe i valenzani nella condizione favorevole ad esigere territori sempre più vasti che prima non appartenevano a loro.
Agli inizi del XVI secolo, dopo la variante del fiume, accadde davvero di tutto. Frascarolo, raggruppandosi in una specie di trust con Bozzole e altre comunità vicine, inizia ad aggredire gli abitanti di Valenza. Il 25 aprile 1514 una banda d’armati frascarolesi occupano l’Isolone e scacciano i valenzani che si trovano nei loro possessi di oltre Po. Valenza ricorre al Capitano di Giustizia di Milano che conferma alla città il possesso dell’Isolone. La lite però non si risolve, anzi alimenta disinvoltamente il fuoco. E, alè, la carica continua con aggressioni, risse, uccisioni, le quali culminano nel 1540 in una scorreria di valenzani a Frascarolo che provoca la distruzione d’alcune abitazioni, date alle fiamme.
Quest’angoscioso evento, unito a tante altre cialtronerie, pone i feudatari di Valenza (Gattinara Lignana) e l’amministrazione di Frascarolo di fronte alla necessità di calmare la cittadinanza e trovare un accordo, il quale viene ufficializzato con una convenzione nel 1545, dove viene anche rivolta una supplica all’Imperatore Carlo V e al suo luogotenente del Ducato di Milano, nonché al Senato milanese, affinché venga concessa la grazia per i delitti commessi. In essa, i sindaci di Frascarolo dichiarano di rinunciare a ogni diritto e azione sul fondo dell’Isolone e parimenti il conte Mercurino II Gattinara Lignana, feudatario di Valenza, compra dal suo stesso Comune di Valenza 250 moggia d’Isolone e li cede in forma benevola al municipio limitrofo (trasferendo il terreno agli amministratori di Frascarolo Alessandro Ungaresi e Castellino Beretta) il quale non potrà in alcun modo venderle o trasferirle ad altri, se non a Valenza. Si stabilisce inoltre, sia pure metaforicamente, un confine inamovibile anche in caso d’ulteriore deviazione del fiume. Per Valenza, il conte Mercurino II, i sindaci Domenico Bernardino “Sachus” e Giovanni Vincenzo “de Pirro” ed il pretore Massimiliano “Perbonus” sono presenti alla stesura di quest’atto (12-2-1545), stilato in forma poco adeguata alla questione e, come il solito, in seguito scarsamente rispettato.
I risentimenti sono tali che i frascarolesi proseguono finanche a negare ai valenzani il passaggio sulle nuove terre, facendosi beffe delle istituzioni e degli accordi. Quindi si continua ancora per parecchio tempo a detestarsi poco cordialmente.
Con toni sempre più aspri, nel 1583, sorge una lite tra Valenza e Bassignana per il possesso di Zerbola, una terra sulla riva sinistra del corso d’acqua di fronte a Bassignana, isolata dal centro abitato e come Valenza facente parte del Ducato milanese. Il delegato, super partes, senatore Luigi Bellone, con grand’onestà decide quindi di assegnare Zerbola a Borgofranco che ne prende possesso il 30 settembre 1583 (borgo che sarà totalmente distrutto da una piena alluvionale nei primi anni dell’Ottocento, abbandonato e ricostruito diventerà Suardi).
A completare l’imbarazzante quadro generale, a nord di Valenza, sempre lungo il fiume Po, sorgono dissidi con il Comune di Bozzole a causa delle isole fluviali dette “Val Longo”, e mentre Valenza è sostenuta dal Comune di Sartirana, le pretese territoriali di Bozzole sono appoggiate dal Comune di Pomaro. Gli scenari che si creano con i disaccordi restano aperti per diversi anni con il contorno inesorabile di risse e minacce, se ne riporta notizia in una documentazione del 1582, in occasione di un nuovo contenzioso per il possesso di un’altra isola detta “Piarda Rossa”.
Permalosi, uno più dell’altro, pure questi dissidi causano incidenti, di cui alcuni penosi, come il sequestro di convogli fluviali diretti a Valenza da parte del Comune di Bozzole, ponendosi contro anche Breme e Sartirana. Accuse e controaccuse, le reiterate liti proseguono, toccando i suoi picchi nel 1586 e nel 1601. Un corto circuito impossibile da isolare.
Anche nel XVII secolo, sovente arrampicandosi sugli specchi, permane la linea d’intransigenza a prescindere; un concetto irremovibile sul territorio fluviale del Po insidiosamente contrapposto, una situazione spesso protesa sull’orlo del precipizio, dove incessanti litiganti seguitano a recitare il solito rosario con un’ostinazione integralista.
Sono da tempo vigorose anche le tensioni nello stabilire i confini del Comune nei confronti d’altre terre, lontane dal Po, analogamente soggette al Ducato di Milano come Alessandria, e più ancora per fissare i confini verso altri feudi contigui, quale il Monferrato. Sembra favorirne le mosse, la faciloneria e il caos, sempre dilagante nella zona.
Anche la storia dei confini tra il territorio di Valenza e quello di San Salvatore Monferrato (“Villa ad Vites” in antichità, Castrum Sancti Salvatoris dal 1048 e S.Salvatoris Montisferrati in quest’epoca) è disseminata di prolungate liti nel decorso di diversi secoli, sia per l’instabilità dei governi, sia per i ricorrenti cambiamenti a seguito delle numerose pretese dei singoli proprietari, costantemente esibite con alterigia e atteggiamenti baldanzosi. Sono molte le liti e le contrapposizioni avvenute nel ‘300, alcune chiuse come peggio non si poteva.
Negli anni 1442-1443 si dipana una lunga vertenza, ampiamente documentata, per delimitare il confine tra Valenza e San Salvatore: una tappa fondamentale nella definizione della fascia di territorio che dalla regione di Astiliano va sino alla regione Anda, attraverso le frazioni di Frescondino e Valparolo, dove sono anche collocate alcune chiesette campestri. Poiché si tratta di confini tra due signorie, con colpevole ritardo, il duca di Milano Filippo Maria Visconti e il marchese del Monferrato Gian Giacomo Paleologo riescono a far dirimere pacificamente la controversia. Da Milano viene inviato il vicario generale Agapito Lanfranchi, mentre il Marchese del Monferrato manda Guglielmo dei conti di Montiglio, poi sostituito dal giureconsulto Secondino Natta. Sostengono le parti i procuratori Giacomo Basti e Ludovico Mombello per Valenza e Rainero Raselli e Ghisello Ricci per San Salvatore, mentre Andrea Franghia è incaricato di descrivere i confini. Alla fine del lungo contraddittorio, con pazienza, sagacia e abilità negoziale, riescono a concludere l’accordo, non troppo favorevole per Valenza.
Nelle chiesa della Beata Vergine di Francia, tra i numerosi testimoni, che si accusano reciprocamente di professare il falso, giurano in favore di Valenza Domenico Bellone, Marsilio Stanchi, Antonio Selvatico, Michele Franghia, Massimo Colli, Giovanni Dente, Aimoneto Mombello, Antonio Lancia, Giovanni Amisano e altri.
Il confine concordato tra Valenza e San Salvatore è pertanto marcato con croci di legno: pare una condizione eccellente, però, torbida come usanza e d’incertezza durevole. Quantomeno la situazione non è appesantita, in verità nemmeno troppo alleggerita: ma questo sarebbe stato insensato sperarlo
Sempre sul versante monferrino, già dal 1348, si levarono dispute sul confine in merito alle terre di Lazzarone e di Valenza. Un secolo dopo, Gaspare da Vimercate (conte feudatario di Valenza dal 1454) conduce una mediazione con i signori di Lazzarone, stipulando finalmente una convenzione il 25 giugno 1460, ma qualcosa non andrà a genio e le liti non verranno sopite. Infatti, nel 1565 sono nuovamente documentati dissidi tra le due comunità con comportamenti inopportuni e vergognosi, contrasti che saranno reiterati nel 1676. Solo la soppressione del Comune di Lazzarone-Villabella e l’accorpamento a Valenza risolverà, nel XX secolo, ogni dissidio in merito.
Forse meno acuta è la disputa territoriale con Alessandria poiché in questo caso, almeno, il confine non è quello del Ducato giacché dal XIV secolo entrambe appartengono ai Visconti di Milano.
Alessandria sostiene da tempo che il suo confine comunale a Valmadonna deve coincidere con il sedime della strada “della Serra”, linea di cresta che attraversa le Colline del Po da est ad ovest sino al Basso Monferrato. Valenza invece ritiene che il suo Comune è detentore dell’intera cresta sino ad una parte della collina sottostante. Non è un vituperio rituale né una villania e neppure un problema politico, bensì una questione giuridica-economica al fine di poter esigere taglie comunali, d’imporre obblighi, prebende, ecc. Ma è, poi, altrettanto evidente che dietro l’immagine cortese della lunga divergenza, è vivida, ma velata, una certa combattività tra i due comuni che trasuda finalità punitive.
Nel 1561 un commissario delegato, appositamente inviato da Milano e strattonato dalle parti in gioco, dopo un’ispezione oculare in tempi serrati, chiude le porte ad ulteriori rinvii e decide in favore degli alessandrini. Un boccone avvelenato per i valenzani che dapprima rigettarono la sentenza, poi, non senza un certo spiacere, sono costretti ad accettarla definitivamente il 2 giugno 1561, con atto rogato dal notaio Pietro Paolo Dapprima Del Pero tra le deputazioni dei due comuni.
L’origine di Valmadonna (in zona di confine, borgo la cui nascita è da collocarsi attorno al XI e XII secolo) si pone in contiguità delle comunità di Borgoglio o Bergoglio (Bergolium, una delle terre più antiche di Alessandria) e di Astiliano (probabilmente Artigliano, un villaggio molto antico, che in seguito si disloca verso il fiume Po e diventerà poi la nostra Valentia).
Ma non é terminata qui, le beghe che trasudano odio tra i nostri paesi vicini non avrà mai fine; Goethe scriveva che gli italiani, “animati da un singolare spirito di campanile, non possono soffrirsi a vicenda”.