Dopo il virus. Cambiare si può e si deve
Il 2020 e le prospettive future analizzate dal prof. Giorgio Barberis, docente di Storia del Pensiero Politico
Amo molto il mio lavoro, che è quello di insegnare in università (nella sede alessandrina del Piemonte Orientale) la teoria e la storia del pensiero politico. A inizio semestre, appena incontrati gli studenti del primo anno di Scienze Politiche, è esplosa l’emergenza sanitaria, e le lezioni in presenza sono state bruscamente (e inevitabilmente) interrotte.
È iniziata così, come per tutte le colleghe e i colleghi delle scuole di ogni ordine e grado, l’esperienza in larga misura inedita della “didattica a distanza”. In fretta si è acquisita una nuova metodologia, non solo imparando a padroneggiare lo strumento tecnologico, alla fine rivelatosi utilissimo, ma anche ripensando in profondità a come trasmettere le conoscenze e a come mantenere vivo il confronto con gli studenti.
Concluso il semestre, il bilancio – almeno dal mio punto di vista – è certamente positivo. Alcuni sono entusiasti, altri hanno avuto più difficoltà. Ma non c’è dubbio che la didattica in presenza abbia un valore aggiunto che definirei irrinunciabile (grazie a quella “maieutica educativa” del “corpo del docente”, di cui ha parlato Alberto Melloni in un bel articolo sul quotidiano «La Repubblica»). E quindi con gioia abbiamo accolto la decisione degli organi apicali del nostro Ateneo di tornare a fare lezione in aula fin da settembre, con un nuovo anno accademico da iniziare con slancio e con fiducia, e con la voglia (responsabile) di voltare pagina dopo i mesi del lockdown.
Mi sembra uno stato d’animo largamente condiviso da tutti in questa fase, in ogni ambito della vita sociale ed economica. Dobbiamo ricominciare, e alla svelta. Come prima? Non necessariamente. Ma di certo non bastano più i moniti di virologi, per mesi protagonisti della scena mediatica (avranno forse una crisi di astinenza nelle prossime settimane?), o le incertezze di una politica non sempre adeguata alle sfide del tempo tragico che stiamo vivendo. Il dovere della prudenza è il punto da cui partire. Ma non basta.
La crisi economica e il bisogno di recuperare ampi spazi di socialità (a proposito, non mi è mai piaciuta la raccomandazione del “distanziamento sociale”, e avrei preferito che la misura di prevenzione da adottare fosse denominata semmai distanziamento fisico) ci impongono di ripartire subito, senza dimenticare ciò che abbiamo alle spalle, ma neppure rimanendone intrappolati. Certo, di fondo permane l’incertezza. L’emergenza nel nostro Paese si può dire conclusa, o ancora no? Ci sarà una seconda ondata pandemica? Quando? Di che portata? Non lo sappiamo. Ma ciò che abbiamo vissuto è più che sufficiente per iniziare a riflettere a fondo, per trarre i giusti insegnamenti, cogliere le evidenti criticità e delineare vie alternative a quelle finora percorse.
Sono davvero moltissimi gli aspetti che meriterebbero uno studio adeguato, e la proposta che farei anche al nostro giornale è proprio quella di avviare una vasta raccolta di opinioni e di approfondimenti sui vari ambiti della vita sociale, economica e politica (difficile trovarne qualcuno non condizionato dal COVID). Per limitarmi a qualche esempio, cito la dimensione enorme che ha assunto l’universo digitale, con le sue opportunità ma anche con i suoi rischi. O il racconto mediatico dell’emergenza, con toni non sempre adeguati, e con la difficoltà di distinguere il vero e di misurare le fonti nel caos dei social media. Oppure l’impatto per molti versi sorprendente del lavoro agile. O ancora le drammatiche conseguenze dei mesi di chiusura forzata sull’economia, e il ruolo ritrovato dello Stato nel tentare di porvi un argine.
Grande è il bisogno di condivisione, di dialogo, di confronto, di ricerca di soluzioni comuni. Bella, ad esempio, l’iniziativa benefica che ha condotto alla pubblicazione di un ebook dal titolo “I giorni del coraggio e dell’orgoglio” (www.fondazionesolidal.it), con testimonianze e racconti sui giorni del Covid-19 in Alessandria. Ho partecipato con piacere all’iniziativa, cercando di mettere in evidenza alcuni acquisizioni che la pandemia mi sembra ci lasci in eredità. Le ripropongo qui rapidamente, sottolineando in primo luogo l’importanza decisiva della scienza, e in particolare della ricerca, di base e applicata (non dimentichiamo che la seconda nasce sempre dalla prima), che è certamente uno dei cardini essenziali per una società sana e sicura. Il patrimonio di sapere al quale possiamo attingere – tenendo tutto insieme, dalla cultura classica fino alla tecnologia più avveniristica – è la garanzia migliore per arginare la nostra vulnerabilità. Anche del coronavirus Sars-Cov-2 sappiamo ancora poco, e l’unica soluzione è appunto lo studio, la ricerca.
Un’altra acquisizione fondamentale di questi mesi è il valore essenziale del sistema sanitario, da difendere e implementare in ogni modo possibile. Veniamo da anni di sofferenza, in particolare nel settore pubblico, con tagli significativi al numero di dipendenti e di posti letto. Ci siamo così trovati ad affrontare la pandemia, per fare un esempio tra i più drammatici, con un numero assai limitato di postazioni in terapia intensiva (poco più di cinquemila per tutto il Paese!). L’eroico sforzo di medici, infermieri e personale sanitario ha permesso di reggere all’onda d’urto che si è riversata sui reparti di rianimazione, e sugli ospedali in generale. Ma non dovremmo avere bisogno di eroi, bensì di risorse economiche, di strutture adeguate, di investimenti cospicui, di una programmazione e di una gestione accorta e lungimirante. In pochissime settimane sono arrivate nuove risorse, nuovo personale, nuovi spazi. Non aspettiamo, però la prossima emergenza, e adottiamo da subito virtuose politiche di sviluppo della medicina di territorio, prendiamoci cura dei nostri ospedali (affinché ci curino al meglio nel momento del bisogno) e della salute, che è un patrimonio collettivo fra i più rilevanti.
Il terzo elemento che intendo evidenziare è l’importanza della solidarietà, che è uno dei fondamenti della comunità e il cuore vivo, pulsante, del legame sociale. Dobbiamo prenderci cura l’un l’altro. Nessuno si salva da solo. Lo sapevamo già. Ora ne siamo ancora più consapevoli. Ci sono state risposte straordinarie, talvolta commuoventi. Anche questo è un patrimonio che deve restare. La politica, però, deve essere all’altezza dei bisogni della collettività. Si è molto dibattuto sulla tensione tra sicurezza e libertà, sulla limitazione delle procedure democratiche ordinarie con disposizioni di carattere “emergenziale”, sulla legittimità costituzionale dei decreti del governo. Non possiamo qui approfondire la questione (che è senza dubbio da includere fra i temi che dovranno occupare le ricerche future).
Una cosa, però, è certa: di fronte ai rischi di una situazione socio-economica esplosiva, con l’aumento della povertà, il crollo del PIL, l’impennata della disoccupazione, si deve cercare una strada diversa, alternativa. La sfida è quella di trasformare la crisi in un’opportunità. Di costruire un modello di sviluppo meno aggressivo, più sostenibile e più equo. Un’innovazione amica dell’ambiente. Un’economia al servizio dell’uomo. La pandemia ha mostrato una volta di più quanto sia insopportabile l’estrema disparità nella distribuzione delle risorse, arrivata al parossismo in tempi di iperliberismo globale.
Cambiare si può e anzi si deve. Se sapremo affiancare una politica autorevole e partecipata a una cittadinanza attiva, consapevole, capace di agire responsabilmente, per la salute di tutti, e per il benessere delle generazioni presenti e future (nel nostro Paese, in Europa e nel mondo intero), avremo dato un senso a questi mesi di sofferenze e angosce, costruendo le premesse per una società globale meno ingiusta e più solidale.
*Giorgio Barberis (nella seconda foto dall’alto) è docente di Storia del Pensiero Politico presso l’Università del Piemonte Orientale; coordinatore del Corso di Laurea triennale di Scienze politiche e vicedirettore del Dipartimento DIGSPES