Valenza, dal ‘300 al ‘400
Prosegue la rassegna sulla storia della città
VALENZA – Mentre la formazione delle Signorie sta sovvertendo molti accrocchi medioevali, e dopo una nuova pace tra il Monferrato ed i Visconti, nel luglio 1369, si riaccendono le ostilità nella nostra zona. Così, l’anno dopo, a Valenza accadono scontri e accerchiamenti devastanti, che durano quasi un anno: uno stallo di guerriglia cronica di natura disastrosa.
Tramonta l’ipotesi di una città indipendente; Valenza, ancora sotto la sudditanza di Giovanni II Paleologo marchese di Monferrato, rassegnata e sospinta dalla paura e dagli stenti, al termine di un ignominioso storico assedio durato dieci mesi, dovrà assoggettarsi ai Visconti di Milano, come già Alessandria e gran parte del Piemonte meridionale.
Galeazzo II Visconti (signore di Pavia, co-signore di Milano insieme ai fratelli Matteo II e Bernabò), con l’aiuto di Bernabò e di Can Signorio, alla guida un fortissimo contingente di soldati, muniti di formidabili armi, effettua durante l’assedio violentissimi attacchi al centro abitato dove si oppone una tenace resistenza. Le ostilità perdurano sino al 14 novembre 1370, quando la città, oppressa dalla fame, è costretta ad arrendersi (oggi è difficile calarsi in tal genere di situazione fatta d’indicibili tribolazioni).
È stata una guerra brutale e continua, anche se il Visconti, di quando in quando faceva scivolare propri emissari per incontrare i suoi ondivaghi fiancheggiatori valenzani (famiglie Annibaldi, Belloni, Dina, Calvi, Ferrari) per abboccamenti circa un’eventuale tregua o un’arresa con certe tutele e garanzie. Un gioco delle parti che non è stato nemmeno tanto occultato.
Purtroppo, dopo la conquista, signore del luogo è nominato Gian Galeazzo Visconti, figlio emancipato di Galeazzo, artefice del sistema più celere per mandare in malora questa città. Per di più sarà talmente spietato e crudele da spingere la popolazione valenzana alla rivolta. Egli nel 1396 sarà proclamato conte di Pavia, una Contea che comprende Valenza, Vigevano, Bassignana, Casale e rispettivi territori.
Con l’unione al Ducato di Milano, che durerà sino al 1707 salvo brevi parentesi, questa città prenderà parte alle rischiosissime vicende dei suoi signori, ma svilupperà significativamente il commercio per la posizione intermedia tra il territorio genovese e quello milanese, favorito particolarmente dal porto fluviale sul Po (con il suo traffico d’imbarcazioni e con i mulini).
Gravato da troppe gabelle, il popolo valenzano inferocito e con la bava alla bocca, nel luglio 1392, sprigiona le vecchie sofferenze dando sfogo alla rabbia in una spontanea sommossa di piazza, animata da parecchio livore, contro i Visconti (che amministrano realmente la città dal 1375) e distrugge in un incendio tutta la documentazione presente nel Palazzo comunale, privando così la città d’ogni fonte storica del passato.
È una rivolta, foriera di preoccupanti risvolti, la quale coinvolge quasi tutto l’alessandrino contro il dominio visconteo, causata soprattutto dagli enormi e stravaganti balzelli che Gian Galeazzo ha imposto per pagare i troppi debiti contratti nelle guerre. Egli ha dato il peggio di sé e questa sembra essere la risposta irriverente dei valenzani.
I contorni svelano però l’assoluta improvvisazione della ribellione popolare valenzana in cui la violenza prende il sopravvento mettendo a rischio l’ordine pubblico, un’iniziativa dovuta sicuramente al governo oppressivo di Gian Galeazzo Visconti, ma forse accesa dal troppo caldo o peggio ancora dalla mancanza d’idee migliori. E dal momento che vincono sempre le armi e la forza, non certo la giustizia o il diritto, la sollevazione è ben presto soffocata da circa 500 uomini d’armi inviati dall’indignato Principe, il quale, ritenendo le mura valenzane non sufficientemente armate, impone ai valenzani grandiosi lavori di riattamento e la costruzione di un corpo autonomo all’interno del perimetro difensivo che consenta ai governatori della città di trovare un rifugio sicuro: la roccaforte.
Quindi, sempre verso la fine del ‘300, vengono costruiti un vero castello (è la sentinella del Po) e delle robuste fortificazioni che fanno della città una piazzaforte poderosa, di primo piano nel territorio settentrionale della penisola, mentre delle necessità dei cittadini non ci s’interessa affatto. Le mura di cinta costituiscono un’opera monumentale. La loro influenza sarà sociale, storica e urbanistica, determineranno la vita, le vicende politiche e l’assetto territoriale di Valenza. I Visconti costruiscono il principale spazio fortificato (rocca o cittadella) non nel settore più debole delle mura, a sud verso Alessandria, ma nell’angolo nord/ovest, accanto al corso del Po, in grado perciò, come quelle della vicina Bassignana, di ricevere rinforzi via fiume.
È evidente che l’esistenza di fortificazioni, con l’eccedente presenza permanente di una guarnigione, avranno una ricaduta diretta sulla città e sul suo tessuto urbano; basti considerare il castello visconteo e i successivi ampliamenti connessi al presidio spagnolo, i quali occuperanno fino ad un quarto della superficie cittadina: per qualche secolo tutto questo sarà l’ombelico godereccio e sanguinoso di questa città.
Per non farsi mancare nulla, nel 1397 un nuovo forte terremoto causa molti danni e vittime, creando contraccolpi in ogni settore. C’era già stato nel 1369.
Nella chiusa società del Medioevo, gli statuti del Comune di Valenza, che uniscono definitivamente questa città al Ducato milanese, fissano in modo permanente le norme legislative che regolano la vita collettiva. Approvati il 1° dicembre 1397 dal suo padrone assoluto Gian Galeazzo Visconti, ci stupiscono per la precisione della chiarezza legislativa e per la preveggenza dei valenzani.
A fine ‘300 i potenti governanti locali (il podestà Ottobono dei Salimbeni di Piacenza, il sindaco giureconsulto Giacomo di Nibolono e il rettore Bertolino del Pozzo) sono scoperti a praticare manovre che avrebbero preferito rimanessero segrete. Saranno messi alla gogna e triturati. Nessuno, insomma, “può scagliare la prima pietra” in questi tempi, né in grandezza né in malefici. Del resto, siamo nel tempo della guerra fratricida, del tiro mancino, della pugnalata alle spalle. Scrupoli di coscienza, pochi.
Miseria e fame restano però ancora rilevanti; le gabelle da pagare al signore e alla chiesa sono sempre più elevate; le tasse, i pedaggi e le taglie gravano tutti sul popolo. Tuttavia, sono le guerre la causa prima dei mali dei valenzani, protagonisti loro malgrado: il passaggio di truppe attraverso il nostro territorio é sempre accompagnato da saccheggi e violenze.
Alla morte del duca di Milano Gian Galeazzo Visconti, nel 1402, il suo dominio si sfascia e l’inetto duca Gian Maria lascia che il Marchese del Monferrato invada nuovamente le nostre terre con il suo condottiero di ventura Facino (Bonifacio) Cane, nato in questa zona (Casale?), già al servizio degli Scaligeri, dei Carraresi e dei Visconti.
Nel 1403 ad Alessandria, in pochi giorni, Facino Cane costringe i Guelfi a ritirarsi nella fortezza di Bergoglio e saccheggia la città per ben otto giorni (quasi una vendetta per la distruzione di Casale nel Duecento). Sebbene provochi brividi d’orrore, Il bottino è acquistato in gran parte dai mercanti valenzani. Per la vittoria ottenuta riceve in pegno, dalla duchessa Caterina Visconti, le terre di Valenza (valore 40.000 fiorini) e di Montecastello (valore 8.000 fiorini). Poi, In preda del delirio d’onnipotenza e con non tutti i fili attaccati (la visione di stragi e macerie esercitano su di lui forse un effetto afrodisiaco), dopo aver combattuto in diverse città lombarde, nel 1405 rientra nel nostro territorio e, non placato, aggredisce i Guasco (nobile famiglia alessandrina) nei loro castelli, distrugge quello di Bricco Antonino, posto in collina a quattro miglia da Alessandria verso Valenza, e, con spietata ferocia, uccide tutti i Guasco che cadono nelle sue mani.
Ma la forte fibra di Facino, minata dalla gotta e logorata dalle innumerevoli campagne militari, sta però per cedere. Muore a Pavia nel 1412, i suoi possedimenti passano tramite la vedova ai Visconti, costringendo nuovamente Valenza a prestare fedeltà ai duchi di Milano che, fragili e paradossalmente ancora più pericolosi, tornano a confezionare ciò che sanno fare bene: il caos.
Il Podestà, garante e custode del sistema, che amministra la giustizia (una cosa difficile da tutelare poiché quasi non esiste), dal 1403 è Antonio de Bossi (poi governatore). La popolazione complessiva è composta da quasi un migliaio di famiglie (3.500-4.000 dimoranti), pochi i concubini e gli eretici e troppi gli usurai. La gente comune mangia ancora poco e male pur lavorando parecchio e con gran fatica. Molto attiva la vita religiosa, esistono circa 800 “domus parrochiale”. Oltre al Duomo, altrettanto corposo è l’elenco delle chiese, delle abbazie e dei monasteri: San Francesco, Sant’Antonio, San Bartolomeo, Santo Spirito, Santa Croce, San Giacomo, SS. Nicola e Paolo, San Giovanni, San Giorgio.
Da tempo esistono quattro altri ordini religiosi: di Sant’Antonio e Santa Croce, dei Canonici dentro le mura, dei Gerosolimitani e della chiesa di San Giacomo fuori le mura: comunemente fuori controllo e spesso coinvolti in affari proficui, educano il popolo con lezioni di moralità. Oltre alle diverse chiese fuori dell’abitato, la campagna valenzana è ricca di cappelle di famiglie che hanno acquisito una posizione sovrastante e desiderano serbarla con la creazione di un punto religioso personale (melius abundare quam deficere). Nei primi anni del ‘400 viene edificato da parte del Municipio, nella contrada Maestra o strada Grande (ora corso Garibaldi), il nuovo Ospedale dei Pellegrini di San Bartolomeo (esiste già da anni quello di Sant’Antonio in sorte Bedogno).
Le famiglie più importanti del periodo (un gruppo sociale intermedio tra la nobiltà e il clero da un lato e i ceti popolari dall’altro), che si dedicano generalmente al commercio, affittando botteghe e capitali o gestendo dazi ottenuti in appalto, sono queste: Annibaldi, Aribaldi, Basti, Belloni, Bocca, Bombelli, Del Pero, Dina, Fracchia, Guazzo, Leccacorvi, Schiffi, Stanchi, Turone, Zuffi.
Le fonti storiche non indicano attività orafe; d’altronde l’economia è abbastanza chiusa, le compravendite d’oggetti preziosi sono difficoltose, e gli orafi esercitano presso committenti nelle ricche città e presso le corti, non certamente in piccole piazzeforti sempre al centro della guerra e ripetutamente sottoposte ad assedi.