Cronaca valenzana del ‘300: il processo
Un nuovo contributo sulla storia della città
VALENZA – II Trecento segna la crisi della teocrazia pontificia, poiché senza l’appoggio specifico dell’Impero, il destino della Chiesa romana, come potenza europea, sembra ormai segnato.
I secoli di lotta fra Papato e Impero hanno fornito anche i simboli, Guelfi e Ghibellini, sotto i quali vengono a schierarsi le parti politiche di questo Paese. Nello scontro, in mezzo al ribollire delle correnti e delle discordie, Valenza si manifesta senz’altro guelfa, sostenendo le ragioni del Papa, con la corrente ghibellina cittadina dei Visconti, adesso minoritaria (l’unanimità non c’è, ed è azzardato sperare che un giorno ci sia), che è finora vissuta nel segno dell’eternità del potere e ora è condannata a rodersi il fegato.
Per sottrarsi alla morsa viscontea, nel giugno 1310 giungono a Valenza i commissari di Enrico VII che annunciano il prossimo arrivo dell’Imperatore e ordinano di riceverlo onorevolmente, quale sovrano, predisponendo la città ad accoglierlo nel migliore dei modi e provvedendo pure al vettovagliamento del suo esercito (le fazioni guelfe e ghibelline si predispongono a celebrarlo, se giungesse). Gli inviati dispongono che Valenza mandi un rappresentante a far atto di sottomissione appena il sovrano fosse giunto in Italia. Questo avviene il 3 novembre 1310 a Torino ed è compiuto dal delegato di Valenza, Milano Dracona (un sussiegoso e altero console della città), mentre il giuramento (atto notarile del 30 ottobre 1310, podestà e anima in pena Giovanni da Porta Laudense) è ratificato il 28 dicembre 1310 nel Duomo di Milano da quattro ambasciatori, massimi capataz del Comune di “Valentia”: Oberto Bombelli, Manfredo de’ Basti, Andrea de’ Ribaldi e Brutazio Stanco. In loro non traspare l’insofferenza e il disprezzo che alcuni nobili valenzani guelfi nutrono verso questo sovrano.
Tuttavia, ben presto, saltando nuovamente il fosso fra paradosso e realtà, la nostra città si riconverte palesemente guelfa e quindi ribelle all’imperatore ghibellino, nemico dei Comuni e sostenitore dei Visconti, divenuto una sciagura dopo essere stato una promessa: in questi tempi la ribellione è considerata “lesa maestà”. Mal gliene incolse, un modo di agire che nella teologia dei regnanti è sacrilegio, una faccenda che fa rizzare i capelli e foriera di guai.
Per questa violazione dei patti e straordinaria manifestazione d’arroganza, nel 1313, lo stesso imperatore Enrico VII (1274-1313), con una sfigurante boutade o fatwa del tempo, decreta che Valenza guelfa sia distrutta dalle fondamenta, dopo aver versato pure una sanzione di mille libbre d’oro. Invece, per fortuna, non succede nulla di tutto questo; egli muore poco dopo e non esplica il proposito e il risultato è coerente con l’insipienza della premessa. È la dismisura che caratterizza questo tempo.
Nel dicembre del 1319 Luchino Visconti (figlio di Matteo I Magno) sconfigge e uccide il siniscalco Hugues de Beaux (Ugo del Balzo) a Montecastello, nel tentativo di prendere Alessandria e Valenza (tornata guelfa), la quale, 6 mesi dopo, è occupata dal condottiero Raimondo di Cardona di Tarascona, gentiluomo aragonese già comandante al servizio di Roberto d’Angiò. Il Cardona, nominato dal papa guascone Giovanni XXII suo siniscalco e suo vicario in Lombardia, sosta a Valenza da dove dichiara guerra ai Visconti (ogni volta che si muove compie disastri). È tanto insensato da rasentare la patologia; espugna Montecastello, poi Alessandria, occupa Pontecurone, entra in Quargnento e fa prigionieri molti tedeschi che sono parimenti ripuliti, pretende taglie per il rilascio dei catturati, rovina campi coltivati, vigneti e piante da frutta.
Nel quadro che viene fuori in quest’estesa baraonda d’ambizioni, bassezze e interessi personali, Valenza si è in sostanza nuovamente liberata dei Visconti e dei Ghibellini, ma non dei nuovi occupanti capitanati dal Cardona: siamo probabilmente andati verso il peggio.
All’inizio del 1320, il nuovo papa Giovanni XXII eletto nel 1316 (i pontefici restano in esilio ad Avignone dal 1309 al 1378, nella Francia succuba dei Capetingi e devastata dalla guerra dei Cent’anni) si è ormai tolto i guanti e, deciso a spazzare via i Ghibellini dall’Italia settentrionale, manda in Italia nientemeno che il cardinale Bertrand du Pouget (Poyet ?) o Bertrando del Poggetto. È l’angelo della pace (Pacis Angelus) del Papa, Legato investito dal 1319 di poteri particolari per lottare contro gli eretici in Lombardia, per estirpare del tutto i Ghibellini e per imporre a Milano la signoria di Roberto d’Angiò, cacciando i Visconti.
L’illustre prelato francese, una specie di divinità a beneficio di coloro che lo riconoscono, in preda al delirio di onnipotenza, proclama da Asti la Santa crociata contro i Visconti. Egli aduna, nel febbraio 1322, alcuni crociati, l’Arcivescovo di Milano e quattro inquisitori, nella chiesa di Santa Maria a Bergoglio (Alessandria) per attendere il chiamato in giudizio Matteo I Visconti, il quale non si presenta. Contemporaneamente, il cardinale Bertrando, scortato dal suo reggicoda Raimondo di Cardona, si reca a Valenza dove ben presto giungerà anche l’Arcivescovo di Milano inseguito da Marco Visconti (figlio di Matteo), arrivato ad Alessandria con l’esercito.
Con loro giungono a Valenza (che conta all’epoca quasi 3.000 abitanti) circa un migliaio d’armati mercenari oltre ad un nutrito seguito d’uomini di chiesa (una compagnia di padreterni persuasi di avere la ragione infusa in loro: sempre sia fatta la loro volontà), mentre in tutta la Lombardia continuano le contese che coinvolgono Guelfi (Partito del Popolo capitanato dai Torriani) e Ghibellini che fra di loro hanno vari membri della stessa famiglia Visconti (Matteo I Magno e i figli Marco e Galeazzo).
Ogni spazio libero della nostra città è affittato o espropriato per dare alloggio ad un migliaio di questi spaventosi ospiti, non troppo graditi, pur se la presenza del legato del Papa diventa un’occasione per accrescere il prestigio e l’economia di Valenza.
Il quadro che ne viene fuori dall’imputazione equivale ad un fatale linciaggio o ad una grottesca o falsa pagliacciata? A Matteo si attribuiscono vere e proprie accuse di miscredenza: avrebbe negato la resurrezione della carne, il Paradiso e l’Inferno, l’immortalità, la Provvidenza divina, invocava i demoni.
Analogamente, l’accusa d’eresia è estesa a tutti i figli di Matteo e ben 1.465 citazioni a comparire sono inviate agli uomini più vicini ai Visconti; gli stessi cittadini milanesi vengono minacciati dall’Inquisizione (Bolla Pontificia del 23 gennaio 1322).
Nel marzo 1322, l’arcivescovo Aicardo da Camodeia e gli inquisitori Barnaba, Pasio da Vedano, Giordano da Montecucco e Onesto da Pavia (tutti frati Domenicani), riuniti a Valenza (ultima città tra Alessandria e Vercelli in mano ai Guelfi), danno inizio ai nuovi procedimenti contro un primo staff di dignitari laici ed ecclesiastici; questi sono chiamati a deporre dinnanzi al tribunale ecclesiastico nella chiesa di Santa Maria a Valenza (non deve sorprenderci o sembrare paradossale il fatto che si celebri il processo in un edificio sacro, sono comportamenti e testimonianze “in presenza di Dio”). La sentenza di condanna definitiva per eresia a Matteo viene stilata il 14 marzo 1322 ed è controfirmata dall’arcivescovo milanese esule (eletto dal Papa, ma non riconosciuto dal Visconti).
Un secondo gruppo di 203 ambrosiani (crescono a vista d’occhio, ingrassando le fila dei rinnegati) è citato il 2 aprile 1322. Altri 12 nobili di Milano si presentano dinanzi agli inquisitori nella nostra città il 10 maggio successivo, per chiedere una nuova proroga. Essi, utilizzando ogni accorgimento per procrastinare la resa dei conti, confermano la loro devozione nei confronti della Chiesa e dichiarano urbi et orbi di essere disposti a fare tutto il possibile per persuadere i loro concittadini a scollarsi da Matteo I Visconti e ad accogliere la volontà del Pontefice.
Purtroppo in questi tempi, e per tutti, risulta molto problematico interpretare i comportamenti e indicare dove finisce la necessità e incomincia il peccato. Si va all’inferno o in paradiso a seconda con chi stai.
Si va all’inferno o in paradiso a seconda con chi stai
Il Cardinal Legato, ritenendo d’essere vicino alla soluzione dello spinoso problema milanese, accoglie le richieste degli imputati, che tornano a Milano. Nel frattempo, però, Matteo I Visconti si accorda con Federico d’Asburgo (antimperatore), dal quale ottiene la conferma del titolo di vicario imperiale in Milano, rafforzando così la sua posizione e quella del suo partito nei confronti dei suoi avversari interni ed esterni.
La morte dello stesso Matteo (24 giugno 1322) e l’irrigidimento su posizioni d’irremovibilità del di lui figlio e successore Galeazzo, anch’egli sostenuto da Federico d’Asburgo, fanno tuttavia precipitare la situazione.
Le macchinazioni demenziali messe in piedi in questi tempi si rivelano un boomerang per tutti gli sciagurati autori. Infatti, dopo pochi giorni (6 luglio 1322), si dispiega una nuova battaglia nei pressi di Bassignana (potente porto fluviale fortificato dei Visconti, dal quale si può controllare e bloccare Valenza) tra le forze papali-angioine del Cardona e Marco Visconti (fratello di Galeazzo I, il nuovo signore di Milano). Mentre i milanesi hanno 2.200 cavalli, 2.500 militi e 1.000 fanti, Raimondo ha 1.200 cavalli e 2.000 fanti; dopo diverse cariche, alla fine il maggior numero degli avversari prevale e Raimondo viene catturato, ma nella stessa notte riesce a fuggire a Valenza, dove con il cardinale Bertrando del Poggetto concerterà nuovi piani per la continuazione della guerra.
Poi, il 6 ottobre, gli inquisitori di Valenza lanciano la scomunica contro i milanesi latitanti, i loro figli e i loro nipoti, lasciando a chiunque la facoltà di catturarli come “felloni”.
Nel febbraio 1323, Raimondo di Cardona con le forze angioine abbandona nuovamente Valenza, riconquista Alessandria, poco dopo Tortona e infine torna a Valenza, avvicinandosi nei giorni successivi pericolosamente a Milano. La parola è sempre alle armi, in una lotta di potere dove la forza calpesta spietatamente la debolezza, alimentando il desiderio di sopraffazione, ma guadagnando spesso come risultato dell’incredibile comportamento solo un piatto di lenticchie. Sicuramente Cardona, ha una parte della sua “vasta” intelligenza ingombrata da qualcosa.
Vabbè, se non altro, quel “templare” dell’annientamento, e dalla dinamica intraprendenza, che è Bertrando (ha tolto più volte beni agli ordini religiosi e taglieggiato conventi), terminato il processo a Matteo, e agli svariati personaggi legati ai Visconti, abbandona finalmente e definitivamente Valenza, con i suoi crociati guasconi e catalani (è quel che sognavano in tanti a Valenza e confessavano in pochi).
Nello stesso tempo egli si è impadronito di diverse altre città, facendo sempre sostare da noi parte della sue truppe al comando del vivace Cardona costantemente incline a guerreggianti uscite (il cruento condottiero di ventura morirà nel 1340). Ha innalzato al rango di Duomo la chiesa di Santa Maria (composta all’epoca di 10 canonici), la quale ha ospitato il Tribunale inquisitorio. Alta restava ugualmente l’angoscia di certi anfitrioni valenzani per l’eventualità che decidesse di rimanere o tornare ancora, vista l’aria che continuava a soffiare su questa città, possente frontiera dei belligeranti e abituata da secoli a compiacere gli incontenibili invasori.
Bertrando, mai pacificato, dopo dotta inquisizione, ordinerà perfino la bruciatura in pubblico dell’opera dantesca “De Monarchia”. Altra perla che qualifica ad abundantiam questo personaggio avventuroso, mecenate demagogo e populista, il quale compare ai giorni nostri nel famoso romanzo di U. Eco “Il nome della rosa” e nell’omonimo film del 1986.
Tra il 1322 e il 1332 è costruito il maestoso convento (sullo stesso terreno nel XIX secolo verrà edificato il Teatro Sociale, e l’attuale Palazzo Pastore ne è verosimilmente un pezzo) e la chiesa gotica di San Francesco (nell’attuale piazza Verdi, accanto alla primitiva eretta nel 1239, durerà 480 anni e verrà chiusa nel 1802) con rilevanti erogazioni del valenzano Giovanni Aribaldi (Annibaldi) che una ne pensa e cento ne fa, abbastanza intelligente da sembrare un portento, forse un vicario del re Roberto I D’Angiò in Sicilia anni prima.
Il complesso (chiesa e convento francescano dei Minori Conventuali), situato all’intersezione degli assi rettori della struttura urbana, in futuro sarà sempre patrocinato da rilevanti famiglie locali e supportato da quel forte dinamismo dei monaci tutt’altro che chiusi nel silenzio del chiostro (tutto verrà distrutto da un incendio nel 1842).
E siccome la giustizia frequentemente è utilizzata come un randello per punire gli avversari e le sentenze vanno rispettate, specie quando a onorarle devono essere gli altri, vanificando quanto solennemente decretato, la dura sentenza promulgata a Valenza contro i milanesi sarà revocata nel 1341 da altro Papa (Benedetto XII) in cambio di 50.000 fiorini.