Valenza tra ‘800 e ‘900
Continuano gli approfondimenti sulla storia della città
VALENZA – Come in tutto il Paese, anche a Valenza, lo sviluppo economico di fine ‘800 genera un notevole fermento sociale. Nel movimento operaio socialista si è ormai formata una mentalità progressista e battagliera che si lega in parte ad una tradizione giacobina e risorgimentale, e in parte verso esperienze anarchiche, con un acceso anticlericalismo, una forte ostilità verso i liberali e ben presto verso i repubblicani, da dove molti socialisti provengono. Spesso le idee sono tanto radicali quanto incoerenti, con il solito pregiudizio del disprezzo.
I liberali non hanno un partito organizzato ma una consorteria di persone, con principi e attese spesso simili, che raggruppa le varie correnti in un’associazione “costituzionale”. Sono gruppi conservatori, quasi tutta la borghesia locale benestante che ha ormai abbandonato i grandi ideali del secolo precedente; vengono apertamente appoggiati da una chiesa locale in fermento, ormai ammorbidita nei confronti dello stato laico. È il tempo del positivismo che diventa religione, sia per le avanguardie liberali sia per quelle socialiste. Sono due tribù in guerra permanente che domineranno la scena per più di un decennio. Piacciono tanto a se stessi e biasimano chi la pensa diversamente.
I principali e smaniosi protagonisti politici locali di fine secolo sono: Abbiati, Ceriana-Mayneri, Corones per i liberali, Bignami, Balzano, Calvi, Morosetti, Oliva, Passoni, Repossi per i socialisti.
Nel 1888 il numero dei consiglieri comunali di Valenza è elevato da 20 a 30. Restano in carica per 6 anni, salvo sorteggio per il rinnovo parziale che avviene ogni 2-3 anni (quasi un gratta e vinci). La nomina del sindaco non è più regia ma compete finalmente al Consiglio comunale: 1889 Giuseppe Terraggio, 1892 Vincenzo Ceriana, 1897 Ferdinando Abbiati, 1905 Luigi Vaccari. Tutti primi cittadini ambiguamente conservatori-liberali.
È l’alta borghesia locale (facoltosi agricoltori e importanti professionisti, sancta sanctorum retorico del potere) che governa la città beandosi della certezza di sopravvivere incolume al crollo del vecchio mondo, e questa posizione di comodo la renderà immobile fino all’estinzione. Una casta in piena regola, severa e cipigliosa, refrattaria al sorriso, composta d’alcuni catafalchi della politica, ricchi signori con un certo numero d’obbedienti centurioni. Frequenta assiduamente il circolo Casinò Sociale, ha anche una sala riservata nel Caffè Mazzini.
Nel 1901 viene fondata la sezione valenzana del Partito Repubblicano (un’effimera crisalide) per opera del giovanissimo Terenzio Grandi (l’anticonformismo è la sua peculiarità o forse la sua mania), e nel 1902 (ufficialmente 1903) finalmente quella dell’Unione Liberale, composta di molti cattolici (pragmatici ed efficaci in campo sociale, alquanto tradizionalisti e moderati nella dottrina) che devono ancora farsi partito.
Alle elezioni politiche Generali del 26 maggio 1895, nel ballottaggio del 2 giugno 1895, il liberale conte Ludovico Ceriana Mayneri supera il socialista Alfredo Compiano con 3.706 voti contro 1.053: gli elettori del Collegio di Valenza (esteso a diversi Comuni adiacenti) sono 8.516, mentre i votanti sono solo 4.912. Nelle Generali del 21 e 28 marzo 1897, sempre Ceriana Mayneri, batte il socialista Enrico Bignami, giornalista e politico rivoluzionario massone (trasferitosi in Svizzera) con 4.085 voti contro 1.445 (elettori Collegio 8.593, votanti 5.677). Il risultato di gusto corrente si ripete nel giugno 1900: Ceriana Mayneri 3.598, Bignami 2.032. Si è allargato l’elettorato attivo che raggiunge quasi il 10% della popolazione.
Il 13 luglio 1902 viene nuovamente rinnovato il Consiglio comunale della città; tutti i candidati liberali sono eletti (Abbiati Ferdinando, Biglieri Giovanni, Ceriana Ludovico, Vaccari Luigi, Ceriana Vincenzo, Ferraris Giuseppe, Bobba Pietro, Barbero Massimo, Bianchi Vincenzo, Bonafede Lorenzo, Battezzati Sindone, Angeleri Nicola, Visconti Vincenzo, Ottone Luigi), mentre i socialisti amareggiati, ma l’aggettivo corretto forse sarebbe un altro, portano a Palazzo Valentino solo 3 consiglieri (Balzano Felice, Repossi Pietro, Giordano Carlo). Riconfermato il sindaco Ferdinando Abbiati (pressoché una sorta di tribuno del popolo) e la vecchia Giunta con Biglieri, L.Vaccari, P.Vaccari e Visconti.
Gli ultimi anni dell’Ottocento sono stati gli anni dell’emigrazione e dell’indigenza, che hanno visto la fuga verso le Americhe di diversi concittadini. Ad inizio secolo XX a Valenza del Po (così è chiamata) ci sono circa 11 mila abitanti (Valenza città 7.225, campagna 2.770, Monte 961). Nel censimento del 10-2-1901 i residenti sono 11.688. La vita della maggior parte dei valenzani trascorre in condizioni poco confortevoli, che oggi ci parrebbero intollerabili.
È entrata in declino l’industria della filanda che era stata una risorsa importante per tanti (specialmente lavoro femminile), anche se con condizioni di lavoro pesantissime.
Con essa è calata una fonte di guadagno stagionale del contadino (sfogliatura dei gelsi e allevamento del baco da seta) che, insieme alla produzione vitivinicola, ha sostenuto per lungo tempo l’attività agricola locale. Si è però affermata l’industria orafa con quella calzaturiera delle tomaie giunte (nata solo nel 1890) e tutti si sono abbandonati alla gran mutazione genetica. La fabbrica reclama braccia, e la campagna risponde all’appello.
Molte le congetture per spiegare il passaggio dall’attività agricola a quell’artigianale, eppure una ragione precisa è difficile da asserire o da esporre. Hanno sicuramente concorso la debolezza e la legnosità dei piccoli proprietari terrieri, refrattari alle innovazioni tecnologiche, utili ad accrescere e diversificare la produttività. Come se non bastasse, il nostro vino subisce in crescendo la concorrenza francese e la filatura della seta non regge più alla concorrenza del cotone. Ma, forse, oltre ogni ragionevolezza e fascinazione, esiste veramente questa genialità creativa orafa nei valenzani?
Eppure, tra la fine del secolo XIX e i primi anni del nuovo, diminuisce il numero delle imprese e del personale occupato nel settore orafo: la crisi risulta attestata da sette fallimenti tra il 1896 e il 1905. Sempre ad inizio secolo ci sono poco più che una decina di fabbriche orafe le quali occupano circa 200 lavoratori, (erano 25 nel 1889 e diventeranno una ventina nel 1903 con quasi 400 addetti). Numerosi i lavoratori a domicilio armati d’entusiasmo e d’illusioni. L’oreficeria a Valenza dimostrerà una certa fragilità fino al primo dopoguerra poiché non è nata con consistenti investimenti, né è sostenuta da un progetto economico complessivo. Nel 1902 nasce una cooperativa orafa, una società per la produzione e la commercializzazione del prodotto.
Ci sono 2 tomaifici (ausiliario alla calzatura) che occupano circa 70 addetti (11 maschi), 3 fornaci con circa 80 addetti (che producono laterizi anche per grandi opere nazionali), una filanda (200 operaie) e diverse altre aziende, quali quelle della produzioni di fusti e botti (2 con una cinquantina d’addetti).
La manodopera femminile è quasi la totalità nella filanda e con un rapporto doppio sui maschi nei tomaifici. Le donne in questo secolo vedranno mutare radicalmente la loro condizione ed i loro costumi, ma all’inizio del secolo somigliano ancora alle loro mamme e alle loro nonne.
Sono molti gli artigiani ambulanti che campano alla giornata passando di casa in casa in cerca di lavori (aggiustano scarpe, pentole, sedie, ecc.), girano costantemente i tricicli del venditore di ghiaccio e del gelataio, sono presenti parecchi carrettieri che prelevavano ghiaia e sabbia dalle rive del Po per i lavori edili. Per carità: sono attività inconcepibili ai nostri giorni, le assicurazioni sociali poi sono di là da venire.
L’agricoltura locale produce circa 12.000 quintali di frumento, 300 d’avena, 8.000 di granoturco, 10.000 di fieno, 20.000 di paglia e 80.000 di vino, il tutto superiore a quanto se ne consumi in loco. Le case sono riscaldate con stufe, caminetti o bracieri, senza servizi, la media è di 2 persone a camera. Si realizza l’impianto generale d’acqua potabile ed il sistema fognario (1898-1902).
All’inizio del nuovo secolo, c’è però tanta voglia di divertirsi, di vivere con gli altri. Qui c’è il Teatro (dal 1861), il giornale (Gazzettino di Valenza), tanti circoli e cooperative, a San Giacomo ci sono numerose giostre, l’esposizione bovina ed equina, il “bal à palcat” frequentato dai gagà in cerca di conquiste. Importante punto di ritrovo è il Po con il Vecchio Porto attrezzato di cabine, barche a noleggio e terrazza con orchestrina. Oggi, purtroppo, l’acqua del più vecchio amico di Valenza pare solo più una minestra di verdure.
Valenza è perciò, nei tempi che stiamo narrando, una città viva, anche un po’ anarcoide e disfattista, più o meno antistatalista, ma gonfia d’ottimismo e vivacità. Rappresenta un simbolo d’efficiente modernità, come poi lo sarà sempre, con il costo della vita già molto alto.
Con Regio decreto del 20 gennaio 1901 il Comune di Lazzarone muta nome in Villabella, a cui corrisponde la villa “Vittoria” edificata al tempo dei vezzeggiati marchesi Gozani nel ‘700 (una classe ormai estinta).
La congiuntura favorevole dal punto di vista economico non gela le idee progressiste con i primi germogli d’organizzazione sindacale e la classe borghese valenzana, finora dominante, comincia a sentirsi minacciata dal proletariato (il quale ambisce ad un sistema più democratico) anche se mantiene il solito opportunismo (noblesse oblige). Pure un certo notabilato di sinistra, che considera i governanti una banda di vecchi rimbambiti, è ancora troppo scollato dalla realtà e gli operai li conosce solo in campagna elettorale, per il notorio dogma giacobino che il popolo non conosce quello che gli è utile.