Un’estate senza… rituali collettivi
L'intervento di Lisa Lanzone, politologa, sociologa e docente dell'Università di Padova
Ormai da diverse settimane, gli scienziati sociali stanno discutendo su alcuni errori comunicativi ed espressioni ‘sbagliate’ utilizzate durante l’emergenza sanitaria. In cima alla lista resta, o dovrebbe restare, il ‘distanziamento sociale’: locuzione largamente abusata che avremmo almeno potuto provare a sostituire con un più appropriato ‘distanziamento fisico’.
Ma a forza di invocarle, le situazioni, a volte si avverano, e il prolungato – e prescritto – distanziamento, da fisico rischia davvero di diventare sociale, con importanti conseguenze, soprattutto nella tanto attesa Fase 3 che sarà inaugurata mercoledì con l’apertura dei confini interregionali. E se, da una parte, il periodo estivo porta con sé alcuni vantaggi di carattere logistico (legati alla possibilità di stare agevolmente in coda all’aperto, o di usufruire dell’ampliamento di dehors di bar e ristoranti), dall’altra, l’estate resta la stagione nella quale la mancanza di socialità rischia di pesare di più. Mentre stiamo ancora cercando di capire se e come andremo in vacanza (e in spiaggia), di certo stiamo assistendo all’annullamento di una serie infinita di eventi: dalle sagre, alle feste patronali, passando per fiere, rassegne, festival e concerti di piazza. Sarà dunque un’estate senza: senza sagre, senza feste, ma soprattutto senza riti e simboli. L’elemento simbolico e la dimensione rituale collettiva assumono, infatti, un valore cruciale nel comportamento degli individui e nella società.
E se aveva ragione lo storico Maurice Agulhon sostenendo che “Malgrado la loro essenziale eterogeneità la vita culturale di tradizione (o folklore) e la politica non possono essere studiate separatamente”, allora non possiamo dimenticarci che nella lunga lista di eventi annullati ci saranno anche le kermesse politiche, prime tra tutte le Feste dell’Unità (si legga talvolta Feste Democratiche), che seppur ridimensionate per diffusione e dimensione, dal 1945 riempiono le ‘nostre’ estati, restituendoci un importante spaccato sociologico. Esse restano, infatti, fra i riti, il più appariscente, più continuo e più longevo: sopravvissute al PCI evidentemente nella forma (o nel format), più che nella sostanza. Sappiamo che il rito – o rituale – è qualcosa di ripetitivo nelle sue occasioni e nei suoi contenuti, da restare quasi immobile, e immutato, in uno spazio ricreato, senza tempo, una sorta di non-luogo, capace, però, di consolidare una tradizione e cementare una cultura politica, persino quando quella stessa cultura non esiste più. Nate appena finita la guerra, e ispirate al modello francese del PCF, le Feste dell’Unità, sono sopravvissute alla scomparsa non solo del PCI, ma anche a tutte le successive scissioni/trasformazioni attraversate dalla sinistra italiana, non perdendo mai definitivamente la loro componente rituale.
Come ci ricorda brillantemente il politologo Mario Caciagli, fin dall’inizio le Feste “furono ludi gastronomici, con inserti politici, comizi, dibattiti, più o meno estesi e intensi a seconda dell’aria politica del momento. E poi la musica e i balli, i giochi e le lotterie”. Rituali collettivi, insomma, a tutto tondo, ma con una loro specificità: “Le feste popolari in Italia non sono mai state una pura e semplice occasione di divertimento e di svago, ma ricerca di un altrove, in un complesso intreccio di significati e di intenzioni. I festival dell’Unità rappresentano un fatto sociologico nuovo e diversificato, che sfugge ad una sola definizione. Sono ‘sagre laiche’ in cui si ritrovano le componenti più varie, dal folklore contadino preindustriale all’avanguardia artistica, dalla sottoscrizione per il partito a quel grandioso fatto socializzante di dieci, venti, quarantamila persone sedute contemporaneamente a tavola. Ognuna di queste componenti crea delle situazioni: dal canto al brindisi, dallo spettacolo al comizio al dibattito”.
Questa la descrizione che ci restituisce uno studio di Claudio Bernieri nel 1977, e che può apparirci oggi quanto mai lontana. Proviamo a ripensarla adesso quell’immagine delle migliaia di persone sedute contemporaneamente a tavola. Proviamo a pensare al significato che avrebbe avuto all’epoca un simile lockdown, ma pensiamo anche alle conseguenze che ancora restano.
La finalità, come per altre forme di feste, era la riproduzione di solidarietà sociale e d’identità collettive: a ricordarcelo meglio, in tempi più recenti è Anna Tonelli, che nel 2012 sosteneva che “le Feste dell’Unità fanno parte più della storia d’Italia che della storia del partito”, visto che gli sono sopravvissute, con la loro capacità di cementare il senso di comunità, per volontari e pubblico. Per anni, furono persino pensate in concorrenza con la festa del patrono, dove il comizio sostituiva la processione, anche se nel 1991, c’era già chi ne vedeva l’evoluzione: “Credo che siano delle buone sagre e quello che hanno di buono è di creare dei momenti d’incontro all’aperto, quando fa tanto caldo, durante i quali si possono anche incontrare delle persone simpatiche con le quali chiacchierare per due o tre ore. Non tirerei in ballo l’aspetto politico della questione”.
Un ruolo, quello di ‘buone sagre, capaci di creare momenti d’incontro’, conservato ancora oggi e ben difeso persino nelle fasi di maggiore divisione nell’attuale Partito Democratico. Che cosa significherà quindi un’estate senza Feste? Cavandosela con una battuta: “Dove non era (ancora) riuscito nemmeno il Pd, riuscirà il virus, a distruggere gli ultimi resti di una cultura politica che non c’è più, di una ritualità collettiva che forse c’è ancora, e che, anche se un po’ nascosta, resta certamente necessaria”?
* Nella foto, l’autrice, Maria Elisabetta Lanzone.