Luciano, vittima del Covid in attesa di una macchina per l’ossido nitrico
Luciano Ortu aveva 55 anni. È morto il 17 aprile dopo settimane di agonia
ACQUI TERME – Numeri e persone, concetti che durante la pandemia invece di coincidere si sono dissociati, combattuti. Forse per la mole di notizie proveniente dai media impegnati in un’assetata ricerca di nomi, volti e storie, o per l’approssimazione delle informazioni diffuse dalle autorità, attente a sciorinare (possibilmente in video) statistiche, ora rassicuranti, ora allarmanti, non coincidenti con la realtà dei contagiati.
Noi vogliamo raccontare la ‘macchina dell’emergenza’ attraverso la storia di un malato, una vittima per la precisione. Luciano Ortu, acquese molto noto in città, è morto di coronavirus e non era un ultraottantenne, con patologie pregresse e problematiche respiratorie (‘defunto modello’ di questa epidemia), ma un uomo sano di 55 anni. Tutto inizia il 10 marzo. Luciano sta lavorando nella ditta di famiglia. Lamenta un forte mal di testa e un fastidio alla gola, per questo torna a casa. «Il giorno successivo è arrivata la febbre altalenante. Nessun problema respiratorio – precisa il fratello Alessandro – abbiamo chiamato il medico di famiglia, telefonicamente ha prescritto un antibiotico. Al 16 marzo la situazione non migliora e così abbiamo chiesto al medico di venirlo a visitare. Ci ha risposto ‘Non è possibile. Cambiamo antibiotico’. Lo abbiamo somministrato solo due volte, nella notte Luciano ha cominciato a delirare».
«Michela (la moglie) ha chiamato la guardia medica chiedendo di mandare qualcuno – continua Alessandro – ma anche qui la risposta è stata ‘non è possibile’. Abbiamo chiesto aiuto al 112 e solo allora è stata inviata un’ambulanza. Il personale era vestito con presidi anti contagio».
Luciano viene portato via mezzo nudo, in mutande e canottiera, nonostante la temperatura poco amabile. « ‘Aiuterà a tenere bassa la febbre’ hanno detto. Al Pronto Soccorso, dove hanno fatto il tampone, ha trascorso in attesa tutta la giornata del 17 marzo perché la terapia intensiva non era ancora pronta. Pare fosse il paziente Covid numero 2».
Questa è stata l’ultima volta che Michela ha visto suo marito. «A lei non le è stato fatto il tampone, nonostante abbia accudito Luciano e sia una persona a rischio. Solo quarantena per lei e sua figlia Giulia». Al personale dell’azienda non è stato detto niente. Fabio ed Alessandro Ortu hanno imposto la quarantena preventiva a chi aveva frequentato Luciano.
I familiari inizialmente erano autorizzati a chiamare tre volte al giorno l’ospedale per sincerarsi delle condizioni del paziente; poi la prassi è cambiata: notizie una volta al giorno, sarà il nosocomio a telefonare. «Già il primo giorno hanno usato il casco respiratore – dice Alessandro – ma la sera ci hanno informato di averlo sedato ed intubato perché ‘Luciano si agitava’. È rimasto così per 15 giorni. Poi, col sopraggiungere di un’infezione, hanno deciso di stubarlo e fare una tracheotomia. A quel punto è stata richiesta la macchina per la somministrazione dell’ossido nitrico. Siamo al 30 marzo». Dopo trasfusioni, altre infezioni, dialisi e cambiamenti di cura, la macchina finalmente arriva: il 16 aprile. «Mio fratello è morto il 17 – ha concluso Alessandro – Non l’hanno fatto vedere a nessuno e nemmeno vestire dalle onoranze funebri. Lo hanno chiuso in una bara nudo, avvolto in un lenzuolo. Come fosse un animale».