Covid-19, gli errori del censimento: la storia di Alice
Un esempio emblematico del limbo nel quale viene buttato chi di questi tempi non sta bene
ACQUI TERME – Più passa il tempo e più si mostra, sconcertante, la discutibile gestione dell’emergenza contagio nella provincia alessandrina. Ci giungono numerose segnalazioni da nuclei familiari infetti o potenzialmente tali abbandonati a se stessi, vittime di errati censimenti o di una rete di assistenza più declamata che reale dove la diagnosi è telefonica e la cura, sperimentale, sulla fiducia.
Questa storia è un esempio emblematico del limbo nel quale viene buttato chi di questi tempi non sta bene. «Ad inizio aprile ho cominciato ad avere la febbre ed il mio medico mi ha subito fatto iniziare la cura con l’antibiotico ed il Plaquenil – racconta Alice – Facendo parte del personale sanitario, dopo una settimana sono stata sottoposta a tampone. Poco dopo Pasqua ho ricevuto l’esito: positivo». Da lì è partita la quarantena, o meglio le quarantene perché Mario, suo marito, dipendente di una ditta, ha immediatamente contattato il Sisp. «Per lui è iniziato un incubo fatto di ore al telefono in attesa di risposta, rimbalzato da un ufficio all’altro, interlocutori anonimi con soluzioni contrastanti e medici di turno dal cellulare staccato» lamenta.
«Prima ci è stato detto che non era il Sisp a decidere a chi fare i tamponi, ma l’Unità di crisi di Torino – continua – Poi, sotto minaccia di chiamare i giornali, hanno rettificato ammettendo però che mio marito non era stato inserito nella lista».
Problemi fin dall’origine. Alla registrazione dei dati sarebbe dovuto seguire l’invio di una mail con un numero di protocollo da inoltrare al datore di lavoro per godere dell’assenza per quarantena. «Nonostante le numerose telefonate non ha ancora ricevuto niente e quindi il datore di lavoro lo ha messo in cassa integrazione – continua Alice – Tra qualche giorno scadranno i quattordici giorni di quarantena e così dovrà decidere: tornare a lavoro e potenzialmente infettare tutti, o perdere il lavoro»