Scarsi, addio al Pd. Il segretario va con Renzi
La lettera inviata a tutti gli iscritti al partito
ALESSANDRIA – Con una conferenza stampa in tarda mattinata, il segretario provinciale del Pd, Fabio Scarsi, annuncerà il suo addio al partito e l’adesione al movimento Italia Viva di Matteo Renzi.
Ecco, in anteprima, la lettera che Scarsi ha inviato agli iscritti ‘dem’: “Cari iscritti, vi scrivo per congedarmi. E non è affatto semplice farlo. Le ultime settimane sono state per me un periodo di profonda e complessa riflessione, che mi ha portato ad una conclusione: per quanto mi riguarda, è giunto ineludibile il momento di una svolta, di una netta soluzione di discontinuità. Una svolta conseguente a quelle radicali avvenute fuori e dentro il nostro partito. E delle cui possibili implicazioni, forse, per ora, non ci rendiamo nemmeno ancora conto.
Avendo avuto l’onere e l’onore di guidare questa comunità politica in seguito ad un’elezione democratica, ed avendo almeno provato a rappresentare tutti voi con equilibrio, devo come minimo tentare di spiegarvi e chiarirvi le ragioni della mia scelta. La molto personale analisi che mi ha portato ad un passo così netto.
Mi avvicinai alla politica attiva con la nascita del Partito Democratico. Come molti di voi sono quello che si definisce un nativo democratico. In particolare ciò che mi convinse, in sintonia con il mio carattere, la mia cultura e la storia della mia famiglia, fu’ che il Partito Democratico rappresentava, ai miei occhi, una lucida risposta politico istituzionale ai molti problemi del paese. In particolare, poi, quella proposta era costruita nella logica dell’alleanza tra merito e bisogno, magistralmente teorizzata da Claudio Martelli nella sua relazione alla conferenza programmatica del Psi del 1982 a Rimini.
Semplificando al massimo e stilizzando, il Pd nacque perciò come una forza di centrosinistra solidamente piantata su due gambe: la gamba sinistra, attenta sopratutto alle ragioni dei più deboli e degli interventi a loro sostegno, anche in logica ridistributiva; e quella destra, che doveva occuparsi di rifondare con grande radicalismo il sistema paese. Qui occorreva mettere all’opera e liberare le migliori energie in un’ottica meritocratica per ridare all’Italia, da un lato, la dignità persa nella fine della prima Repubblica e nell’inadeguatezza della seconda, con passaggi drammatici come Tangentopoli, e dall’altro la capacità di crescere, modernizzarsi e sviluppare a pieno il proprio potenziale.
Il lavoro delle due gambe del Pd (il partito del centrosinistra senza trattino) avrebbe dovuto consentirci di ridare al paese un futuro in cui coniugare sinergicamente e in ottica dinamica questa pluralità di interessi. Per farci tornare a crescere con forza e giustizia, creando con la crescita anche le risorse per gli ultimi e i più deboli.
Questa era la prospettiva con cui il Pd nacque sotto la guida di Valter Veltroni, che la illustrò nello storico discorso del Lingotto.
La rapida archiviazione di Veltroni fece parzialmente perdere di vista l’orizzonte complessivo, così ben definito nella fase fondativa, e diede altresì avvio ad un pendolare in cui, sull’onda delle affermazioni congressuali e di un’utilitaristica distorsione maggioritaria dettata da gruppi dirigenti inossidabili e dalla fame di potere delle correnti, il partito si è alternativamente spostato dalla gamba destra a quella sinistra (con l’alternanza di gruppi di potere, invero relativamente fluidi, che all’una o all’altra, magari pro tempore, si richiamavano).
E in questo oscillare tra supposte alternative, si è drammaticamente perso il fondamentale senso dell’alleanza tra merito e bisogno e della sua logica sinergica. E si è trattato di un errore comune, almeno in termini comunicativi e di consapevolezza sia nella fase della leadership bersaniana che in quella renziana. Un’incapacità di vedere quanto più importante di tutto fosse mettere insieme gli obiettivi cooperando, che ha fatto il paio con una organizzazione rigidamente correntizia della vita interna del partito e che ha dato spesso la percezione a militanti ed elettori che il nemico principale non stava fuori, ma dentro al partito.
In particolare poi la parabola della leadership renziana nel Pd ha rivelato un’ulteriore dato: una parte importante del partito, di fronte alle riforme che costituirono il nocciolo della svolta renziana (e già sostanzialmente definite, anche se nemmeno tentate, da Veltroni alla fondazione del Pd) ha reagito come di fronte ad un corpo estraneo con, al fine, una crisi di rigetto (culminata nella simbolica richiesta di “derenzizzazione”, formulata da molti con un termine che trovo francamente agghiacciante). E non credo si tratti della semplice crisi di rigetto nei confronti di un leader con un carattere difficile, ma, assai più seriamente, del radicale rifiuto di una parte costitutiva ed essenziale della proposta politica su cui il progetto del Pd venne edificato.
Cosicché, il combinato di una carenza di cultura liberal-democratica, e della mancata comprensione di come le istanze del merito e quelle del bisogno dovessero agire nel quadro di un’alleanza, feconda e indissolubile, ha posto le basi per due scissioni in pochi anni guidate da due ex segretari e, a mio modo di vedere, l’instradamento su un binario morto del progetto originario del PD. Quello in cui ho creduto con milioni di altre persone. Naturalmente altri potenti fattori, anche esterni, hanno concorso. Li cito solo sommariamente.
Innanzitutto l’esito del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 ha negato la possibilità di realizzare la madre di tutte le riforme, quella grande riforma costituzionale che doveva predisporre l’infrastruttura istituzionale per l’azione del Pd. Molti sostengono che proprio da lì, come conseguenza inevitabile, prenda avvio lo smantellamento del Partito Democratico o perlomeno il suo ineluttabile radicale cambiamento di natura.
Dentro il partito, almeno in questa provincia, a suo tempo abbiamo discusso a lungo e con profondità di come si sia arrivati a quella sconfitta e di come lo scenario politico sia stato radicalmente condizionato dalla crisi del 2008 e dagli effetti della globalizzazione. L’incapacità dei sistemi democratici occidentali di gestire efficacemente le conseguenze di questi eventi e di predisporre risposte efficaci ha comportato come noto l’esplosione di sovranismi e populismi in giro per tutto l’occidente.
In Italia, il centrodestra è stato sostanzialmente ristrutturato in senso sovranista dall’azione della Lega, mentre il populismo ha trovato uno degli esempi di maggior successo in Europa con il M5S.
Cosicché, infine, due fatti ulteriori recentissimi contribuiscono all’accelerazione di questa fase di trasformazione. Il primo fatto riguarda alcuni elementi sostanziali di svolta nell’orientamento programmatico di fatto del nostro partito: dal “chiedere scusa agli italiani”, alla designazione alle riforme di un sostenitore del no al referendum e al lavoro di un acerrimo critico del Jobs Act. Scelte forti e di grande valenza simbolica.
Il secondo fatto è l’alleanza con il M5S che, da limitata al solo terreno nazionale per far fronte ad uno stato di bisogno, pare stia assumendo tratti strutturali e di reciproca contaminazione. In questo quadro arriva, lacerante, la seconda scissione dopo quella di Bersani, quella di Renzi. Personalmente, lo dico con chiarezza anche ora che me ne sto andando, ho reputato la scissione di Renzi un errore, almeno teorico, molto diverso da quello fatto da Bersani, ma pur sempre un errore: il Pd con lui dentro sarebbe stato ancora contendibile e le posizioni politiche di cui si è fatto simbolo sarebbero state ancora forti. Ma forse la lotta senza quartiere tra i gruppi dirigenti dentro il Pd rendeva la coabitazione troppo instabile e di fatto ingestibile.
Ma giusta o sbagliata che fosse, la seconda scissione, quella di Renzi, è ormai un dato di scenario consolidato, che cambia radicalmente le prospettive. La sua uscita, e la permanente forza della sua leadership, rendono a questo punto nei fatti estremamente angusto il campo dentro il Pd per chi, come me, riteneva fosse necessario che le due gambe avessero analoga forza. La gamba destra sarà infatti enormemente indebolita dalla diaspora e dall’azione di Renzi che, nei prossimi mesi, organizzerà la sua nota capacità comunicativa andando oltre la partenza a freddo di queste settimane. L’atteggiamento a tutti i livelli nei confronti dei residui sostenitori di Renzi rimasti nel Pd pare peraltro già dire senza alcun dubbio che il partito, nel contempo, sta effettivamente tentando la derenzizzazione mentre sarà attratto con sempre più forza da una convergenza con il M5S favorita peraltro proprio dal forte assottigliarsi della componente che in parte sta abbandonando il Pd. Insomma, penso che certe posizioni nel Pd diventeranno marginali ed irrilevanti.
Per tutto questo oggi mi congedo da voi. Avrei voluto che le cose andassero diversamente, e sarebbe bastata qualche assunzione di responsabilità a partire dai livelli nazionali per gestire più unitariamente l’avvicendamento e salvare quel progetto originario che sarebbe stato ancora attuale ma che non è mai stato compiutamente assimilato e integralmente perseguito. Ma le cose sono andate diversamente.
Grazie a tutti quelli che hanno lavorato con impegno negli organismi direttivi del partito, nei circoli e nella federazione e grazie dell’onore che mi avete attribuito, sono stato veramente fiero di essere il vostro segretario.
Spero che ciascuno di voi possa vedere appagate le proprie aspirazioni politiche”.