“About Endlessness”, Leone d’Argento a Venezia 76
Il senso della vita nel film del regista svedese Roy Andersson
ALESSANDRIA – Non è un’opera facile, dall’approccio immediato, l’ultima del regista svedese Roy Andersson, già Leone d’Oro a Venezia nel 2014 per “Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza”. O forse, al contrario, nell’estrema essenzialità della filosofia per immagini costruita dal suo autore, “About Endlessness” (letteralmente, “Sull’infinito”) risulta tanto semplice nella sua malinconica evidenza da lasciare lo spettatore sorpreso e confuso.
Il film, premiato alla 76esima edizione della Mostra del cinema veneziana con il prestigioso Leone d’Argento, si percepisce come un variegato caleidoscopio di situazioni, atmosfere, personaggi, rigorosamente raggruppati per quadri e immersi in una dimensione onirica, sfuggente, sino a rasentare l’irrealtà.
Eppure, le figurine quasi stilizzate di Andersson, chiuse nelle loro storie tragicomiche, assurde, solo raramente serene con qualche apertura alla speranza, non fanno che portare avanti la meditazione ininterrotta del regista sulla vita: sulle brutture, ma anche sull’incomparabile bellezza di questo mondo che – nel bene e nel male – ci appartiene e somiglia.
Si passa, allora, dalla noia di un dentista depresso, all’irritazione di uno psichiatra che perde l’autobus, sino al volo chagalliano di due innamorati: vicende drammatiche, comiche, lente o concitate, che scorrono come – appunto – i fotogrammi di un film, introdotte da una voce fuori campo femminile, sorta di narratrice onnisciente.
«È la prima volta nel corso della mia intera filmografia che ho utilizzato una voce narrante fuori campo. Avevo riletto “Le mille e una notte”, e ho deciso di introdurre il mio Sheherazade personale. Il mio obiettivo è portare il pubblico, proprio come il re nella storia, a sperare che il film non finisca mai – ho idea di esserci quasi riuscito. E poi, come al solito, lo spettatore conoscerà i miei diversi esseri umani, ognuno parte di noi, dell’esistenza, per i quali mi auguro di aver dimostrato rispetto e onestà. A volte questa vita sa essere crudele, e spesso molto vulnerabile».
L’“Andersson touch”, come sempre, prevale anche a livello visivo, tra messinscene alla Edward Hopper, uso di cromatismi smorzati e di una fotografia virata in seppia, iperrealismo di fondo.
La pellicola può comunicare, a tratti, una sensazione di gelo: ma Andersson lascia a chi guarda il compito di recuperare, nella rarefatta perfezione dell’insieme, guizzi di umanità e di calore.
Qui si rivela e declina l’umanesimo razionalista, ironico, ma partecipe del regista, colmo di ‘pietas’, di fraterna condivisione della fatica del vivere.