Face to face: adattarsi alla reclusione, il mondo che crolla all’improvviso
Benestante e colto, il trauma del passaggio improvviso dalla famiglia al carcere
FACE TO FACE – La diciassettesima puntata racconta di un uomo Benestante e colto che viene arrestato a casa sua dalla Guardia di Finanza. Il trauma del distacco improvviso dalla famiglia e della detenzione in carcere. Il pentimento per gli errori commessi e la
difficoltà ad adattarsi alla reclusione.
TUTTI I RACCONTI – La raccolta del progetto Face to Face
Gabbiano d’acqua dolce
Sono le 4.35 del mattino e hanno suonato alla porta di casa. Per un attimo penso di aver sognato ma il campanello suona una seconda volta, più deciso della prima, mi sembra anche più arrogante e il dubbio tra sogno e realtà si dissolve ancor prima che abbia finito di suonare.
Salto fuori dal letto, provo a infilarmi le ciabatte ma i piedi scoordinati non le centrano, sembrano andare per conto loro, li lascio fare e mi avvio scalzo verso il citofono. Ho quasi smesso di respirare. Il cuore pare sentirsi stretto nel petto e preme per uscire. Scendo per la scala che porta al soggiorno dove c’è il citofono, faccio i quindici gradini e sento il freddo della pietra di cui sono fatti sotto il piede; arrivo al citofono e mi accorgo di aver smesso del tutto di respirare, in totale apnea alzo la cornetta e rispondo. “Chi è?” La voce che mi esce ha un suono strano, non familiare, faccio fatica a riconoscerla come mia. “Guardia di Finanza, apra per favore”.
“Sì, certo”. La mia voce è ancora più strana. Premo il pulante di apertura del cancello sulla strada. Adesso il cuore non vuole più saperne di strare chiuso nel petto e lo sento battere feroce, anche nelle tempie. Torno in camera da letto, stordito, cerco i pantaloni della sera prima, li infilo velocemente, mi accorgo che adesso sto tremando, le mani faticano a tirare su la cerniera e a chiudere il bottone in vita. Rivedo le ciabatte abbandonate e scomposte dopo il primo tentativo fallito di calzarle di poco fa e questa volta riesco nell’intento. Guardo Elena, sta ancora dormendo, non si è accorta di nulla.
Mi avvio nuovamente verso le scale, voglio andare loro incontro; mi fermo un attimo sul primo gradino, faccio un passo indietro e vado in camera di Matteo. Anche lui sta dormendo, sereno come solamente i bimbi di sei anni sanno esserlo. Riprendo le scale e in un attimo sono all’ingresso, apro la porta ed esco in giardino. E’ ancora buio, il cielo sereno trabocca di stelle, l’alba deve ancora arrivare. L’aria è fresca ma anche oggi probabilmente sarà un giorno torrido come i precedenti. Percorro velocemente il viottolo che porta al cancello sulla strada, è socchiuso e intravvedo delle persone in attesa.
“E’ lei il signor Roberto Nardi?”
“Sì, sono io”. Mi mostrano i tesserini. Mi sforzo di leggere e di capire cosa c’è scritto su quelle tessere ma la poca luce – è acceso solo il faretto che si attiva in automatico quando si apre il cancello — e l’agitazione non mi aiutano. Apro completamente il cancello e li lascio entrare. Sono in sei, tutti in borghese. Vestono sportivo, jeans e scarpe da ginnastica, alcuni portano una polo, altri un’anonima maglietta di cotone; quello che mi ha parlato indossa una camicia azzurra con le maniche corte.
“Ci sono persone anziane o malate di cuore in casa?” Continua il primo che mi ha rivolto la parola. “No, siamo io, mia moglie e nostro figlio di sei anni”.
“Abbiamo un mandato di perquisizione, dobbiamo entrare nella sua abitazione”. Il finanziare che mi parla ha un tono cortese ma deciso e che non lascia spazio a interpretazioni o repliche. “Sì, certo, vi faccio strada”. Ripercorro insieme a loro il viottolo in giardino ed entriamo in casa. Dico loro di accomodarsi in cucina perché c’è il tavolo grande e possono appoggiare gli incartamenti che si sono portati. Il finanziere che mi ha rivolto la parola, l’unico sino adesso, si siede e posa sul tavolo le carte.
“Sono il comandante Viviani e dirigo quest’operazione”. Comprendo che ha il grado di capitano perché un suo sottoposto gli si è rivolto chiamandolo così mentre gli porgeva dei fogli.
“Ah” è l’unica cosa che riesco a dire e subito dopo aggiungo: “Posso offrirvi un caffè?” La mia inspiegabile ingenuità mista a un mal riposto senso dell’accoglienza, sembra spiazzare anche il comandante e i suoi sottoposti.
“No, grazie, siamo a posto così”. La risposta, come se la situazione già non bastasse, mi conferma la gravità del momento. Mi siedo di fronte al comandante che mi porge un documento di una quarantina di pagine. Sono senza occhiali, li ho lasciati in camera da letto, faccio fatica a leggere. – Mandato di perquisizione ed esecuzione di ordine di custodia cautelare – mi pare comunque di leggere, o qualcosa di molto simile.
“Quindi dovete fare una perquisizione?” domando.
“Signor Nardi, non ha ancora compreso bene, vero? La dobbiamo arrestare” risponde il comandante facendo una pausa, e mi pare anche un sospiro, tra le due affermazioni.
Il tempo si ferma, la terra smette di girare. Quelle ultime tre parole segneranno per sempre, come avrei poi ben compreso negli anni a venire, la fine di una vita, la mia, l’inizio di un’altra che non sarà più totalmente mia. Quel momento, e gli anni successivi, avrebbero per sempre cambiato la mia idea di mondo.
Quelle tre parole- la dobbiamo arrestare – mi esplodono nella testa e mi assordano, mi accorgo che il comandante aggiunge ancora qualcosa ma non riesco a sentirlo, mi sembra che parli al rallentatore, anzi mi sembra che tutto nella stanza si muova con estrema lentezza.
“Ma questa mattina ho una riunione in ufficio” balbetto senza rendermi conto di quello che sto dicendo. Nella stanza cala un silenzio, gelido e doloroso. Nessun parla più e fanno finta di guardare qualcosa che non sia la mia faccia, i miei occhi.
“Possiamo iniziare la perquisizione signor Nardi?” Rompe il silenzio il capitano.
“Faremo qualcosa di molto leggero, non le metteremo la casa sottosopra”.
“Va bene fate quello che dovete”.
Questo eterno momento sarà durato in realtà solo pochi secondi, il tempo che s’impiega a mandare in frantumi un bicchiere lasciandolo cadere a terra, lo stesso tempo che ci mette la mia vita a frantumarsi. Adesso una lucidità feroce ha preso il posto del torpore e dello stordimento e mia moglie e mio figlio diventano improvvisamente il mio unico pensiero. Un’angoscia consapevole s’impossessa di me, mi trattengo per non gridare di dolore. Mi alzo, provo a camminare, sento sotto i piedi i cocci della mia vita, a ciascun passo corrisponde un aspetto ben preciso di essa: gli affetti, il lavoro, gli amici.
Anche Elena si è svegliata e mi viene incontro in pigiama.
“Chi sono tutte queste persone?” non so se il suo sguardo sia più interrogativo o spaventato. “Finanzieri, stanno facendo una perquisizione. “Mi devono anche arrestare”.
“Ma cosa … non capisco …” Si lascia andare sul divano, la testa tra le mani, quasi a toccare le ginocchia. Mi siedo accanto a lei, l’abbraccio, sento il suo corpo scosso dai singhiozzi. La bacio sui capelli e lei si stringe a me. Il calore delle sue lacrime non fa che aumentare il gelo dentro di me. Il dolore è insopportabile.
Sono quasi le sei e mezzo e la perquisizione è terminata. Dobbiamo andare. Salgo in camera da letto a preparare la borsa da portarmi dietro. Apro qualche cassetto a caso e prendo un po’ d’indumenti che butto dentro. Mi avvio poi verso la camera di Matteo. Non si è accorto di nulla e non si è svegliato. Avvicino la mia faccia alla sua, sento il suo respiro, sa di buono. Quando era più piccolo, lo facevo spesso di respirare il suo fiato, sapeva di biscotto. Lo bacio sulla fronte e lo saluto accarezzandolo. Tutto il dolore del mondo è in quella stanza.
Torno in cucina, Elena è in piedi appoggiata al frigorifero. La stringo con tenerezza. Ha gli occhi gonfi per il pianto che le riga il volto sino alla bocca e mi sussurra: “E adesso io cosa faccio ?” “Abbi cura di te e di Matteo, io torno presto”. La bacio sulle labbra che sanno di sale.
Sono in auto con tre finanzieri, mi stanno portando nel carcere di Torino. Niente sarà più come prima.
“Ciao amico, come stai?”
Chi è che mi chiama “amico”, mi domando e soprattutto cosa vuole?
“Ciao sto bene, grazie” gli rispondo alzandomi dallo sgabello su cui mi ero seduto da poco. Gli vado incontro verso la porta della cella. Ha le mani appoggiate alle sbarre, un sorriso che mostra un’improbabile dentatura. E’ piccolo di statura e magro, la faccia scura, i lineamenti da sudamericano, almeno mi sembra. Ha il naso storto, in quel modo che un naso rimane storto a causa di un pugno che l’ha rotto. E’ brutto in modo inquietante. Sino a quel momento ho creduto che personaggi simili animassero solo le fiction in tv. Sono felice che ci separi una porta decisamente chiusa e comunque un’inquietudine pesante mi prende allo stomaco.
“Sei arrivato oggi? Come ti chiami?” prosegue il dialogo.
“Si stamattina, mi chiamo Roberto, e tu?”
“Angelo. Mi piace la tua maglietta.”
Sto cominciando a capire cosa vuole e sono sempre più felice che una porta a sbarre chiusa ci separi. Nel frattempo l’inquietudine è salita dallo stomaco sino alla gola. Non mi dà tempo di rispondere e aggiunge: “Quanto tempo devi stare qui?”
“Non so, non ho idea … e tu?” Mi azzardo a domandare.
“Io?” ride mostrando la dentatura che già prima mi aveva colpito.
“Ne ho ancora parecchi di anni da fare, ma mio padre è messo peggio perché è ergastolano. Il quadretto familiare fa sì che l’inquietudine lasci il posto allo sconforto.
“Ah, capisco … e di dove sei, Angelo?”
“Caserta. Allora tu non sei definitivo?”
“Definitivo cosa?!?” mi domando io, ma credo di aver inteso il significato.
“No, non sono definitivo, mi hanno arrestato questa mattina …”
“Me la regali la tua maglietta?”
Indosso una Lacoste verde scuro, un regalo di Elena.
“Ma come cazzo si fa ad entrare in galera con la Lacoste?!? Impreco dentro di me e mi maledico. Me la sono messa perché è stata la prima a venirmi sottomano questa mattina, la portavo già la sera prima.
Realizzo che forse è meglio assecondare Angelo e faccio il gesto di sfilarmela. Mi viene in mente, però, che ho buttano nella borsa anche un’altra polo, nera tinta unita. La tiro fuori e gliela mostro. “Ascolta Angelo, se ti do, questa va bene lo stesso?” azzardo una trattativa. Gli passo la maglietta tra le sbarre. Angelo la osserva con interesse, la distende per bene tenendola aperta tra le mani, all’altezza delle spalle.
“Secondo me ti sta benissimo” mento sapendo di farlo. Lui si apre in un sorriso soddisfatto, adesso il suo volto è decisamente meno brutto, almeno così sembra a me. Sono orgoglioso per la negoziazione condotta con successo e tutto ciò m’imbarazza. Mi saluta e se ne va. Il giorno successivo lo incontro durante l’ora d’aria, indossa la mia polo nera, abbottonata sino al collo che gli dà un’aria da improbabilissimo scolaretto. Gli sorrido e lo saluto e lui fa altrettanto. Passo oltre e continuo a sorridere, dentro di me.
Nelle settimane e nei mesi successivi trascorsi in carcere avrei incontrato tanti altri “Angelo”, uno spaccato di umanità dolente fatta di ladri, truffatori, rapinatori, spacciatori e assassini, di ergastolani e detenuti con venti, trent’anni da scontare; un’umanità fatta di sbandati con un futuro incerto e di gente “per bene” con un passato da dimenticare; un’umanità fatta di persone con la sofferenza nello sguardo e di finti duri che passano insonni le notti in compagnia dei loro fantasmi e che al mattino danno la colpa al materasso per non aver dormito. Ho condiviso con tutti loro il mio tempo, la mia cella, i miei pasti e le mie ore d’aria. Ho anche riso con loro e vissuto bagliori di fugace serenità. Ciascuno di essi portatore di una propria dolorosa storia, in parte inconfessabile, i più pentiti, senza mai ammetterlo, di aver passato il punto di non ritorno e di aver perduto anni di vita e di affetti, costretti adesso a recitare la parte fino in fondo. Non sono peggiori di me ed io non sono migliore di loro, all’interno di queste mura. Col tempo ho imparato a non giudicare perché è quello che vorrei che gli altri facessero con me.
Anche questa mattina, come ormai d’abitudine, scendo in cortile per l’ora d’aria. Al mattino le persone che escono sono in genere poche, quasi sempre le stesse. I più preferiscono stare in sezione, a camminare e chiacchierare nel corridoio. Saluto quei pochi compagni dell’ora d’aria e comincio a camminare, solo ma in compagnia dei miei pensieri. “Un uomo solo è sempre in cattiva compagnia” diceva Oscar Wilde. Ho sempre amato Wilde, ma in questo caso mi viene da pensare che abbia scritto questa frase prima di finire anche lui in carcere.
“Che ci fa un gabbiano nei cieli di Torino?” Mi domando a un tratto, dopo aver sentito le strida sopra la mia testa. Smetto di camminare e perplesso alzo lo sguardo. Eppure è lì che vola figura bianca in un insolito azzurro. Il contrasto è forte e mi sorprende. La mente vola veloce con lui al mare, alle lunghe estati, quelle estati infinite di quando ero bambino e passavo le vacanze in Toscana con i nonni e gli zii. In tempi più recenti, torno a quei fine settimana d’inverno, quando con Elena portavamo Matteo in Versilia a respirare l’aria di mare, ricca di iodio e fortemente consigliata dalla pediatra. E vedevo i gabbiani, tanti, volare e posarsi in acqua o sugli scogli. Non potrei immaginare un mare senza gabbiani e un gabbiano lontano dal mare. Ciascuno, a suo modo, caratterizza l’altro, anzi ne è parte. Eppure ci sono dei gabbiani nei cieli di Torino, lontani da qualunque mare, probabilmente accasati sulle rive di qualche corso d’acqua dei dintorni. Comunque sia, c’è un che d’insolito, d’inadeguato in tutto ciò, ma non per questo necessariamente sbagliato. Succede che persone e cose, talvolta, si trovino per errori commessi o per scherzi del destino, a vivere situazioni che non appartengono loro, almeno sino a quel momento e a condividere con esse un tratto del proprio cammino. Torno indietro con la mente e ripenso ai miei di errori e li vedo chiari e distinti come un solitario gabbiano bianco su un cielo azzurro.
Riprendo a passeggiare nel cortile, anch’io gabbiano d’acqua dolce.
PUNTATA 17